La condanna in appello dell'assolto in primo grado può fondarsi su prova irripetibile
Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 30-09-2021) 30-03-2022, n. 11586
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita - Presidente -
Dott. FIDELBO Giorgio - rel. Consigliere -
Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere -
Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -
Dott. TARDIO Angela - Consigliere -
Dott. VERGA Giovanna - Consigliere -
Dott. ROSI Elisabetta - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore - Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.S., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza del 20/03/2019 della Corte di assise di appello di Bologna;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dott. Giorgio Fidelbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. Gaeta Pietro, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il difensore delle parti civili, avvocato Alessandro Buzzoni, che ha concluso per il rigetto del ricorso, con la conferma delle statuizioni civili;
udito il difensore dell'imputato, avvocato Massimiliano Orrù, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di assise di Rimini, con sentenza del 14 marzo 2016, riconosceva la responsabilità di D.S. per il delitto di soppressione di cadavere (capo D), assolvendolo dai reati di rapina (capo A), violenza privata (capo B) e porto di coltello a serramanico (capo F), nonchè dagli omicidi di M.S. (capo C) e di N.L. (capo E); per i due omicidi e per gli altri reati, venivano condannati D.D. e S.M.; l'altro concorrente, il minorenne R.R., veniva giudicato separatamente.
1.1. La vicenda, secondo l'impostazione accusatoria, trae origine dalla crisi del rapporto tra D.D. e N.L.: il primo, venuto a conoscenza che la propria compagna aveva avuto una relazione con un suo parente durante un soggiorno in (OMISSIS), ha progettato ed eseguito l'omicidio della donna, coinvolgendo la sua amica S.M., suo zio, D.S., e R.R..
Per riuscire a scoprire il luogo dove N.L. si era rifugiata, terrorizzata dalle minacce di morte ricevute, D. entrava in contatto con M.S. che, all'epoca, frequentava la sua ex convivente; ci riusciva grazie all'aiuto di S.M. che invitava M. a (OMISSIS) per un incontro a sfondo sessuale; incontratasi con M., S.M. lo conduceva presso l'abitazione di D., dove veniva aggredito e costretto a contattare, con il proprio cellulare, N.L., allo scopo di prendere un appuntamento per il giorno seguente; dopo la telefonata, presente in casa anche D. (secondo l'ipotesi di accusa), M. veniva picchiato, ammanettato, quindi strangolato e il suo corpo occultato in una fossa scavata materialmente da D., D. e R., situata in una zona vicino (OMISSIS), raggiunta con l'autovettura di D.. Il giorno seguente ((OMISSIS)) la coppia D.- S., insieme al minorenne, si recava a (OMISSIS) per intercettare N.L., nel luogo in cui questa avrebbe dovuto incontrare M.; raggiunta N.L. nel luogo convenuto, D. la uccideva, accoltellandola in un sottopassaggio della stazione di (OMISSIS).
1.2. L'assoluzione di D. in ordine all'omicidio di M. è stata giustificata dal primo giudice in base ad un giudizio di inattendibilità di S.M., l'unica fonte di accusa sulla partecipazione di D. all'omicidio di M., e della mancanza di elementi di riscontro alle sue dichiarazioni; riguardo al concorso nell'omicidio di N.L., al quale, secondo la tesi accusatoria, l'imputato avrebbe dato il suo apporto mettendo a disposizione la sua automobile per le ricerche della vittima, il primo giudice ha ritenuto la totale carenza dell'elemento soggettivo del reato.
2. Con sentenza del 19 aprile 2017, la Corte di assise di appello di Bologna, sulle impugnazioni del pubblico ministero e delle parti civili, riformava la decisione e dichiarava la responsabilità di D. per tutti i reati a lui contestati, condannandolo alla pena dell'ergastolo e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Al ribaltamento della decisione assolutoria il giudice di appello perveniva ritenendo credibili le dichiarazioni di S.M. circa il coinvolgimento di D. nell'omicidio di M., evidenziando una serie di elementi a riscontro della chiamata in correità; inoltre, rileggendo in chiave critica alcuni elementi indiziari rilevati nella pronuncia assolutoria, riteneva la sussistenza del dolo in capo all'imputato riguardo alla sua partecipazione all'omicidio di N.L..
3. Questa decisione è stata censurata dalla Corte di cassazione che, con sentenza del 13 luglio 2017, ne ha disposto l'annullamento con rinvio in relazione ai reati per cui vi è stata condanna, rilevando che la ritenuta responsabilità di D. nell'omicidio di M. si era basata su una mera rilettura delle dichiarazioni rese da S.M., unica fonte che aveva affermato la presenza dell'imputato sulla scena del crimine, rilettura effettuata senza rinnovare l'istruzione dibattimentale per risentire la coimputata. La Corte di legittimità ha ribadito l'orientamento delle Sezioni Unite (sent. n. 27620, del 28/04/2016, Dasgupta), secondo cui il giudice di appello deve procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa in caso di riforma della sentenza di assoluzione determinata da un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, rinnovazione dovuta anche per le dichiarazioni rese dal coimputato nello stesso procedimento: nella specie, il ribaltamento della decisione, almeno con riferimento all'omicidio di M.S., si sarebbe realizzato grazie al diverso apprezzamento dei profili di attendibilità intrinseca della coimputata S.M. nei due giudizi di merito.
Inoltre, per quanto concerne l'omicidio N., la Cassazione ha sottolineato come gli elementi di prova a carico si fossero rivelati scarsamente consistenti, in assenza di elementi dimostrativi della avvenuta manifestazione a D., da parte di D., della volontà di eliminare N..
La sentenza, infine, ha dichiarato l'irrevocabilità della condanna limitatamente al delitto di soppressione di cadavere (capo D), per il quale l'imputato aveva reso confessione.
4. Con sentenza del 20 marzo 2019 la Corte di assise di appello di Bologna, giudicando in sede di rinvio, in riforma della decisione emessa dalla Corte di assise di Rimini, ha dichiarato D.S. responsabile di entrambi gli omicidi (capi C, E), nonchè dei reati di rapina e violenza privata (capi A, B), condannandolo alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di sei mesi, con le conseguenti pene accessorie e con condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili; ha dichiarato l'estinzione del reato di porto di coltello a serramanico (capo F) per intervenuta prescrizione.
Il giudice del rinvio, preso atto del sopravvenuto decesso di S.M., su richiesta del pubblico ministero ha disposto - con ordinanza del 6 febbraio 2019 - l'acquisizione delle dichiarazioni da questa rese nel corso delle indagini preliminari e nell'udienza preliminare, al fine di verificarne la credibilità attraverso la ricostruzione della tempistica delle sue diverse deposizioni. E' stata, quindi, disposta la lettura delle dichiarazioni predibattimentali ai sensi degli artt. 512 e 513 c.p.p., sostenendo che l'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, non esclude l'applicabilità al giudizio di appello di tali disposizioni. In particolare, si è ritenuto che una interpretazione costituzionalmente orientata del nuovo art. 603 c.p.p., comma 3-bis, che impone l'obbligo di rinnovazione istruttoria nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, non appare incompatibile con gli artt. 512 e 513 c.p.p..
Quindi, il giudice del rinvio ha confermato il giudizio positivo sulla credibilità di S.M., come del resto aveva fatto la sentenza annullata, individuando anche una serie di riscontri alle dichiarazioni della coimputata sul coinvolgimento di D. nell'omicidio di M. e negli altri reati a questo collegati. La dimostrata partecipazione all'omicidio M. è stata ritenuta dai giudici elemento di prova decisivo anche del concorso morale di D. nell'omicidio di N., sottolineando il collegamento strumentale tra i due delitti e, inoltre, tenendo conto di una serie di ulteriori dati probatori desunti dai tabulati telefonici.
5. Avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Bologna del 20 marzo 2019 - e l'ordinanza dibattimentale del 6 febbraio 2019 - ha proposto ricorso per cassazione D.S., tramite il proprio difensore, articolando tre motivi.
5.1. Con il primo motivo si denuncia, anche in riferimento all'ordinanza suindicata, l'inosservanza degli artt. 514 e 191 c.p.p. per violazione degli artt. 512 e 513 c.p.p. Rileva la difesa che le dichiarazioni predibattimentali, che hanno consentito la valutazione circa l'attendibilità di S.M., sono state acquisite illegittimamente, nella evidente carenza del presupposto della imprevedibilità del suo decesso, con evidenti conseguenze sull'esito della decisione. Si chiede che tali dichiarazioni siano ritenute inutilizzabili.
5.2. Con il secondo e articolato motivo si denunciano, con riferimento a vari capi e punti della sentenza impugnata e anche alla luce della decisione di annullamento, vizi di motivazione, la maggior parte dei quali diretti a dimostrare l'illogicità degli argomenti utilizzati nella sentenza impugnata per considerare credibile S.M. e coerenti le sue dichiarazioni, nonchè a censurare la ritenuta sussistenza di riscontri alla chiamata in correità.
In relazione all'omicidio di M., si assume che solo il nuovo esame della coimputata nel contraddittorio avrebbe consentito di verificare la veridicità del racconto, nel rispetto del principio dell'oralità, sottolineandosi come la Corte di cassazione, proprio in considerazione della natura cartolare del secondo grado di giudizio, ha censurato l'errore metodologico dei giudici che hanno proceduto alla riforma della sentenza di primo grado senza "riascoltare" l'unica fonte accusatrice, in aperto contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. U, Dasgupta). L'impossibilità di risentire la coimputata avrebbe dovuto condurre al proscioglimento del ricorrente, in applicazione del principio affermato dalle Sezioni Unite.
Si evidenzia la contraddizione del narrato di S.M., così come emerge dagli interrogatori della donna, criticando le ricostruzioni contenute nella sentenza impugnata secondo cui la coimputata avrebbe mantenuto sempre la medesima versione, sottolineando che l'improvvisa modifica della linea difensiva venne determinata dalle dichiarazioni confessorie di D. che la coinvolgevano nell'omicidio, circostanza questa che dimostra che S. ha mentito anche nell'interrogatorio del 29 aprile 2014, con lo scopo di escludere ovvero di limitare le proprie responsabilità, indicando D. come uno dei concorrenti nell'omicidio di M. e dichiarando di aver tenuto le condotte a lei contestate solo perchè costretta da D. che, unitamente allo zio D., l'aveva in più occasioni minacciata.
Secondo la difesa non sarebbero evidenziati elementi che suffraghino la costrizione della donna nella partecipazione attiva all'omicidio ed anzi dalla sentenza irrevocabile nei confronti del coimputato minorenne è emersa la sua attiva partecipazione al delitto (sarebbe stata lei a mettere le manette a M.).
Insomma, il coinvolgimento di D.S. si presenterebbe funzionale alla difesa di S.M., per sostenere che non avrebbe potuto da sola, con l'aiuto del minorenne, contribuire attivamente all'uccisione di M..
In ordine all'omicidio di N.L., la difesa rileva che la sentenza impugnata afferma del tutto illogicamente e apoditticamente che la responsabilità di D. è provata dalla sua partecipazione all'omicidio M..
Quanto alla circostanza aggravante della premeditazione in relazione al primo omicidio, la motivazione della sentenza impugnata è incentrata solo su D., sul movente dell'omicidio, ma senza alcun riferimento a D., assente in tutte le fasi precedenti il duplice omicidio.
Analoga incertezza valutativa si denuncia a proposito della premeditazione con riguardo al secondo omicidio: la motivazione è del tutto illogica, avendo la Corte di assise di appello trascurato di considerare le indicazioni date da D. sulla posizione che i suoi compagni di viaggio avrebbero dovuto tenere in auto nel viaggio di ritorno, con la N. che avrebbe dovuto prendere posto nel sedile posteriore, circostanza questa che escluderebbe la programmazione della sua uccisione.
Quanto al nesso teleologico, l'omicidio di M. non era premeditato e necessario per i coimputati e tanto meno per il ricorrente.
A proposito della circostanza aggravante della crudeltà, la sua insussistenza è dimostrata dalle modalità della condotta; peraltro tale aggravante è stata esclusa dalla sentenza irrevocabile a carico del minorenne.
Secondo l'assunto difensivo la sentenza impugnata non solo risulta priva della motivazione rafforzata necessaria alla riforma della corretta sentenza di primo grado, ma si fonda solo su supposizioni e sospetti.
5.3. Il terzo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al diniego dell'applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
6. Sono stati presentati anche motivi nuovi.
6.1. Il primo motivo nuovo richiama ancora una volta la sentenza Dasgupta delle Sezioni Unite e investe il mancato riesame di S., sottolineando che non esistono altre fonti di prova dotate di autosufficienza al fine di giustificare una pronuncia di condanna. Il ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado nonostante il mancato riascolto di S. è stato erroneamente giustificato dalla sentenza impugnata ricorrendo agli artt. 512 e 513 c.p.p., posto che la mancata escussione non è derivata da fatti o circostanze imprevedibili, in quanto la coimputata non ha mai partecipato al processo di primo grado perchè ricoverata in una struttura per malati terminali, sicchè rivivono tutte le censure mosse dalla difesa al falso racconto della donna per le ragioni descritte nei due ricorsi per cassazione.
6.2. Il secondo motivo nuovo attiene alle consulenze trascrittive e alle captazioni, posto che il giudice del rinvio non si è confrontato con il contenuto dell'unica trascrizione rimasta utilizzabile e dal contenuto favorevole alla difesa, così come non si è confrontata con le altre che danno conto dell'estraneità del ricorrente.
6.3. Il terzo motivo nuovo lamenta l'illogicità della motivazione nella parte concernente l'omicidio di N., in quanto la sentenza impugnata ricade nella contraddittorietà interna rilevata dalla sentenza di annullamento.
7. La Quinta Sezione penale di questa Corte, con ordinanza del 4 giugno 2021, ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite in relazione alla questione contenuta nel primo motivo nuovo proposto dalla difesa, in parte anticipato in uno dei passaggi del secondo motivo del ricorso.
La Quinta Sezione condivide la soluzione interpretativa che il giudice di rinvio ha offerto alla questione, con l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali della coimputata nel frattempo deceduta, pur essendo consapevole che tale soluzione si pone in contrasto con il principio di diritto enunciato dalle Sez. U, Dasgupta, che sembra non ammettere deroghe al divieto di "ribaltamento" delle sentenze assolutorie, nemmeno quando la prova dichiarativa non può essere rinnovata per irreperibilità, infermità o morte del soggetto da sentire, principio questo che il Collegio rimettente non condivide.
Pertanto, al fine di prevenire un potenziale contrasto all'interno della giurisprudenza di legittimità, considerato che lo stesso legislatore del 2017 con l'inserimento nell'art. 603 c.p.p. del comma 3-bis - si è posto in una prospettiva di continuità rispetto al quadro dei principi stabiliti dalle Sez. U, Dasgupta, l'ordinanza in esame, avvertita l'esigenza di salvaguardare "la garanzia della funzione nomofilattica del giudice di legittimità sottesa alla previsione di cui all'art. 618 c.p.p., comma 1-bis", ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
8. Con decreto del 20 luglio 2021 il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando l'udienza del 30 settembre 2021 per la trattazione in pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: "se, in caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado, fondata su una diversa valutazione delle dichiarazioni ritenute decisive, l'impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa a causa del decesso del soggetto da esaminare precluda, di per sè sola, il ribaltamento del suddetto giudizio".
2. Prima di affrontare le tematiche connesse alla questione oggetto di rimessione, appare utile esaminare il primo motivo di ricorso, con cui si deduce, tra l'altro, la violazione dell'art. 512 c.p.p. e la conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni di S.M., di cui è stata data lettura.
Si assume, da parte della difesa, che il giudice del rinvio ha disposto l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rese da S.M. sull'erroneo presupposto della imprevedibilità del suo decesso, evento questo che, invece, era del tutto prevedibile, considerando che alla coimputata, affetta da un male incurabile, i medici avevano dato pochi mesi di vita, tanto è vero che già nel corso del giudizio di primo grado era stata sentita presso la clinica dove era ricoverata per la grave malattia e che la stessa difesa di S.M., dinanzi alla richiesta del Procuratore generale di esaminarla nuovamente, aveva prodotto una certificazione attestante le sue gravi condizioni cliniche, di cui peraltro dà atto la stessa sentenza impugnata.
Il motivo è manifestamente infondato.
L'ordinanza di rimessione ha osservato come la valutazione sulla imprevedibilità dell'evento, che impedisce la ripetizione dell'atto assunto nelle indagini preliminari e ne legittima la lettura, trova il suo fondamento in un giudizio di prognosi postuma, che deve far riferimento alle circostanze note o conoscibili al momento in cui la parte interessata avrebbe potuto chiedere l'incidente probatorio, secondo un criterio di ragionevolezza (ex plurimis, Sez. 5, n. 4945, del 20/01/2021, T., Rv. 280669; Sez. 6, n. 50994, del 26/03/2019, D., Rv. 278195; Sez. 1, n. 45862, del 17/10/2011, Albano, Rv. 242712), mentre la difesa ha individuato il momento in cui operare la "prognosi postuma" nel giudizio di rinvio, anzichè collocarlo al tempo in cui si sarebbe potuto richiedere l'incidente probatorio, cioè entro i termini di chiusura delle indagini.
L'osservazione è corretta, tuttavia l'infondatezza del motivo trova la sua ragione soprattutto in considerazione del fatto che, sebbene lo stesso giudice del rinvio richiami l'art. 512 cit., nel caso di specie si è al di fuori dell'ambito applicativo di tale disposizione.
Innanzitutto, va sottolineato che le dichiarazioni predibattimentali di S.M. erano già state "ripetute", essendo stata la coimputata escussa nel contraddittorio dibattimentale. Come è noto, le letture previste dal codice di rito, tra cui quelle cui si riferisce l'art. 512, consentono agli atti formati fuori del giudizio, in presenza di determinati presupposti previsti dalla legge, di essere acquisiti ufficialmente al fascicolo dibattimentale e, quindi, di divenire legittimamente valutabili come prove ai fini della decisione: in ogni caso alla lettura si può procedere solo quando un esame dibattimentale è mancato e, nel caso in questione, non si è verificata questa situazione, perchè, come si è detto, la coimputata S. è stata esaminata in dibattimento nel corso del primo giudizio.
Come si vedrà il recupero di tali dichiarazioni non si giustifica attraverso il ricorso al citato art. 512, bensì sotto il profilo dei poteri officiosi che vanno riconosciuti al giudice nella presente fattispecie.
3. La questione sottoposta all'esame di questo Collegio si riferisce alle censure proposte nel ricorso con cui si contesta l'operazione compiuta dalla Corte di assise di appello, quale giudice di rinvio, censure formulate nel primo motivo del ricorso e ribadite nei motivi nuovi, che hanno formato oggetto delle articolate note di udienza presentate dall'Avvocato Generale. Secondo la difesa, non potendo ottemperare a quanto stabilito dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione, che aveva indicato la necessità di riaprire l'istruttoria dibattimentale in appello per risentire S.M., nel frattempo deceduta, la Corte territoriale avrebbe dovuto fare applicazione del principio di diritto contenuto nella decisione delle Sezioni Unite Dasgupta peraltro richiamata dalla sentenza di annullamento -, che ha espressamente affrontato il caso della "impossibilità" di rinnovare la prova dichiarativa per irreperibilità, infermità o morte del soggetto, escludendo in queste ipotesi ogni possibilità di superamento della sentenza assolutoria in appello, quindi stabilendo che in appello, se non è possibile rinnovare la prova dichiarativa, non è consentito ribaltare il verdetto assolutorio.
L'interpretazione offerta dalla difesa renderebbe superfluo l'esame dei motivi del ricorso circa la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla credibilità della coimputata e condurrebbe alla conferma della sentenza assolutoria di primo grado.
4. Il tema attiene all'obbligo di rinnovazione istruttoria in appello in caso di overturning sfavorevole all'imputato, così come configurato prima dalla giurisprudenza - Europea e nazionale - e successivamente dal legislatore.
E' noto il percorso della giurisprudenza sul tema del "ribaltamento" della sentenza assolutoria di primo grado, sicchè è sufficiente in questa sede farvi solo brevi cenni, finalizzati all'inquadramento della questione.
Gli oneri motivazionali gravanti sul giudice di appello in caso di riforma della pronuncia di primo grado sono stati puntualmente delineati già con le Sez. U, Mannino (sent. n. 33748, del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; v., anche, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226093) secondo cui, qualora all'assoluzione segua in appello una decisione di colpevolezza dell'imputato, sul giudice incombe l'onere di dimostrare, con una rigorosa analisi, "l'incompletezza o l'incoerenza" della decisione appellata, "non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma".
Successivamente la giurisprudenza si è mostrata particolarmente sensibile nel recepire le indicazioni interpretative provenienti dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo che, con il leading case rappresentato da Corte EDU, 05/07/2011, Dan c. Moldavia, ha sostenuto che, in caso di superamento di una sentenza assolutoria, il giudice di appello deve procedere all'esame diretto dei testimoni, per valutarne l'attendibilità e così assicurare l'equo processo.
4.1. Con questa decisione la Corte EDU ha riconosciuto la violazione del diritto ad un processo equo, ai sensi dell'art. 6 CEDU, nel caso di overturning sfavorevole senza rinnovazione dell'istruttoria: più precisamente, è stata esclusa l'equità del processo se, dopo un'assoluzione in primo grado, intervenga una condanna nel giudizio di appello senza che le prove dichiarative, poste a base del primo pronunciamento, siano state nuovamente formate davanti al secondo giudice. L'equità del processo impone che l'imputato si possa sempre confrontare con i testimoni davanti al giudice che dovrà decidere, confronto che avviene con la pubblica accusa, nel contraddittorio che diventa l'elemento essenziale del processo equo. Si tratta di un orientamento presente anche in decisioni precedenti (v., Corte EDU, 08/03/2007, Danila c. Romania) e ribadito successivamente con sentenze in cui si è affermata la prevalenza dell'oralità e della sua necessaria applicazione ogni qual volta il giudice di appello intenda riformare in pejus una sentenza assolutoria in base ad una rivisitazione della prova dichiarativa, puntualizzando che l'onere di esaminare direttamente i testimoni prescinde da un formale atto di impulso delle parti (cfr., Corte EDU, 26/02/2012, Gaitaranu c. Romania; Corte EDU, 05/03/2013, Manolachi c. Romania; Corte EDU, 04/07/2013, Hanu c. Romania; Corte EDU, 09/04/2013, Flueras c. Romania).
4.2. Sono state le Sez. U, Dasgupta a sigillare un legame strettissimo con l'orientamento della Corte di Strasburgo, affermando che il giudice di appello per riformare la sentenza assolutoria e riconoscere la responsabilità penale dell'imputato deve procedere, anche d'ufficio, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni decisive sui fatti del processo nel corso del giudizio di primo grado, precisando che qualora il "ribaltamento" della decisione avvenga solo sulla base di una diversa valutazione delle prove dichiarative, ritenute decisive, la sentenza è affetta da vizio di motivazione, seppur connesso ad una carenza istruttoria del giudizio di appello.
In questi casi la Corte di cassazione non si limita a richiedere una motivazione rafforzata, ma stabilisce che il giudice di appello non può condannare il prosciolto sulla base di una valutazione diversa delle prove dichiarative se non disponendone la rinnovazione. Le Sezioni Unite hanno quindi chiarito che l'omessa rinnovazione produce effetti sulla tenuta logica della sentenza di condanna, in quanto fondata sul materiale cartolare controverso, con la conseguenza che la mancata rinnovazione realizza la violazione della regola posta dall'art. 533 c.p.p., secondo cui la condanna è sempre subordinata al superamento di ogni ragionevole dubbio. Tale omissione è rilevabile anche d'ufficio, in tutti i casi in cui i profili della responsabilità sono portati alla cognizione della Corte di cassazione attraverso il vizio di motivazione.
La regola Dasgupta è stata confermata anche in relazione al ribaltamento della pronuncia assolutoria emessa nel giudizio abbreviato (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785), è stata estesa alle dichiarazioni rese dal perito o dal consulente tecnico nel corso del dibattimento (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112), nonchè all'annullamento, ai soli fini civili, della sentenza assolutoria di primo grado (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228), mentre la sua applicazione è stata esclusa nell'ipotesi in cui la riforma riguarda una sentenza di condanna in primo grado (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430).
La sentenza Dasgupta ha anche affrontato il problema oggetto della questione rimessa e cioè quello dell'applicabilità della regola della necessaria rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei casi in cui l'esame del dichiarante sia divenuto impossibile, perchè, ad esempio - per restare al caso di specie - medio tempore deceduto, sostenendo che, quando la rinnovazione in appello della prova dichiarativa si riveli impossibile per irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare, "non vi sono ragioni per ritenere consentito un ribaltamento del giudizio assolutorio ex actis".
Tuttavia le Sezioni Unite precisano che è dovere del giudice accertare "sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva della nuova audizione sia che la sottrazione all'esame non dipenda dalla volontà di favorire l'imputato o da condotte illecite poste in essere da terzi, essendo in tal caso il giudice legittimato a fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni".
Anche rispetto ai soggetti c.d. vulnerabili (minori, soprattutto se vittime di reati) si è sostenuto che "non sussistono valide ragioni per ritenere inapplicabile la preclusione di un ribaltamento ex actis del giudizio assolutorio", ma in questo caso la sentenza puntualizza che "è rimessa al giudice la valutazione circa l'indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le opportune cautele, a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell'impugnazione proposta avverso la sentenza assolutoria" (Sez. U, n. 27620 del 2016, Dasgupta).
Dunque, le Sez. U, Dasgupta pongono una regola tendenzialmente rigida, in quanto ritengono che in presenza di una sentenza assolutoria di primo grado, rafforzativa del principio di presunzione di non colpevolezza, il ribaltamento in appello può avvenire solo attraverso una riedizione della prova nel contraddittorio delle parti, essendo questo l'unico metodo processuale per superare l'oltre ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato. Tuttavia, la regola del "se non è possibile rinnovare la prova non è consentito ribaltare il verdetto assolutorio" non sembra espressa in termini assoluti, dal momento che, soprattutto con riguardo al teste vulnerabile, le stesse Sezioni Unite introducono un fattore di flessibilità, affidando al giudice la valutazione circa l'insuperabile necessità della reiterazione dell'atto istruttorio e, inoltre, sembrano ammettere casi residui in cui il giudice può decidere su "precedenti dichiarazioni".
5. Nella presente fattispecie occorre tenere presente che il quadro normativo di riferimento è mutato per effetto dell'introduzione del comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p. ad opera della L. 23 giugno 2017, n. 103, successiva sia alla sentenza della Corte di appello oggetto di annullamento, sia alla decisione della Corte di cassazione.
La legge citata non ha previsto alcuna disposizione transitoria, sicchè si pone la questione preliminare circa l'applicazione del nuovo comma 3-bis nel celebrato giudizio di rinvio e nel presente procedimento.
In tema di successione di leggi processuali nel tempo, con riferimento alla materia delle impugnazioni, le Sezioni Unite n. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537, hanno stabilito che ai fini dell'individuazione del regime applicabile, in assenza di disposizioni transitorie, deve farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell'impugnazione. Per superare il conflitto tra disposizioni processuali che si succedono nel tempo, la sentenza suindicata ha evidenziato la necessità che si individui correttamente l'actus cui fare riferimento per fissare il corretto parametro intertemporale, parametro che, con specifico riferimento al campo processuale, è costituito dall'art. 11 preleggi, comma 1. Si è così precisato che l'atto "va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo", non potendosi accogliere una nozione indifferenziata di atto processuale. Ed infatti le Sez. U, Lista hanno, in via esemplificativa, individuato alcune specie di atti, rispetto ai quali il parametro intertemporale finisce per essere diversamente modulato: "l'atto con effetti istantanei, che si esaurisce nel suo puntuale compimento"; l'atto ad esecuzione istantanea che però "presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga", ancorato ad un altro atto che definisce la catena procedimentale divenendone centrale; l'atto "strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento", che realizza una fattispecie processuale complessa. La diversa tipologia di atti processuali finisce necessariamente per condizionare la regola tempus regit actum.
Il principio affermato dalle Sez. U, Lista si riferisce all'atto di impugnazione in senso stretto, che consente il passaggio al successivo grado di giudizio, ricompreso nella tipologia degli atti con effetti istantanei, con riferimento a questo tipo di actus, con funzione "autoreferenziale", si giustifica la regola posta dalla sentenza citata, secondo cui, come si è visto, il regime dell'atto di impugnazione viene determinato con riferimento alla normativa in vigore al momento della pronuncia della sentenza impugnata, in quanto "è in rapporto a quest'ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla" (così, Sez. U, Lista).
Ma nella fattispecie in esame la situazione è del tutto diversa.
La nuova disciplina dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, non è intervenuta a regolamentare in modo innovativo l'atto di impugnazione in quanto tale ovvero il regime stesso dell'impugnazione, ma ha introdotto una nuova regola processuale sulla istruttoria in appello, peraltro ponendosi in linea di continuità con la giurisprudenza delle Sez. U, Dasgupta.
In questo caso, proprio seguendo quanto affermato dalle Sez. U, Lista circa la necessità di individuare l'actus per definire il corretto parametro intertemporale, deve riconoscersi che la regola posta dall'art. 603 cit., comma 3 bis riguarda una regola procedimentale del giudizio di appello, che viene ad operare nel caso di ribaltamento della precedente decisione assolutoria, regola che è posta in relazione alla presunzione costituzionale di non colpevolezza e al paradigma dell'oltre ogni ragionevole dubbio e che deve trovare immediata applicazione ai sensi del citato art. 11 preleggi, comma 1. Non vi è alcun atto processuale che si sia già perfezionato e abbia prodotto i propri effetti prima dell'entrata in vigore della nuova legge; la rinnovazione dell'istruttoria, cui si riferisce il nuovo comma 3-bis, costituisce un'attività procedimentale complessa, che è stata posta in essere successivamente all'entrata in vigore della L. n. 103 del 2017.
Si tratta di una questione di diritto intertemporale che non riguarda un singolo atto che abbia esaurito i propri effetti, quale quello di impugnazione, bensì un procedimento ricompreso nel giudizio di impugnazione, ancora non esaurito, rispetto al quale il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento in cui l'atto complesso del procedimento stesso viene ad essere compiuto (in questo senso, Sez. 5, n. 32011 del 11/06/2019, Romano, Rv. 277250; Sez. 6, n. 16860 del 19/03/2019, Cuppari, Rv. 275934; Sez. 6, n. 10260 del 14/02/2019, Cesi, Rv. 275201).
Il principio affermato dalle Sez. U, Lista, pienamente giustificato in rapporto all'atto di impugnazione, produrrebbe effetti irragionevoli applicato al caso in esame, perchè avrebbe come conseguenza che in tutti i procedimenti pendenti di impugnazione non troverebbero mai applicazione le nuove disposizioni processuali, in contrasto con la regola generale dell'art. 11 preleggi, comma 1.
Peraltro, la nuova disciplina, in quanto ius superveniens, costituisce un limite anche al vincolo del giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento (ex plurimis, Sez. 4, n. 35680 del 24/06/2009, Pangallo, Rv. 245777; Sez. 2, n. 1635 del 08/05/2003, dep. 2004, Stati, Rv. 227797).
6. Il legislatore del 2017 si è posto "in una prospettiva di sostanziale continuità rispetto al quadro dei principi" stabiliti dalle Sez. U, Dasgupta, tuttavia la ellittica formulazione della norma potrebbe portare a letture divergenti rispetto al sistema creato dalla giurisprudenza.
Infatti, il nuovo art. 603 c.p.p. ha giustificato interpretazioni secondo cui la rinnovazione doverosa in appello avrebbe trasformato il giudizio di secondo grado avverso una pronuncia di proscioglimento in un "secondo primo giudizio" di merito, allontanandosi dal modello della revisio prioris instantiae.
Nel rinnovato quadro - inizialmente di origine giurisprudenziale e oggi anche normativo - la tesi dell'eccezionalità della rinnovazione istruttoria in appello è stata comunque messa in dubbio. L'originaria eccezionalità di questo istituto era dovuta ad una esegesi che circoscriveva al giudizio di primo grado la formazione della prova, attribuendo all'appello la costruzione definitiva della motivazione di merito, ma oggi si assiste ad una rinnovazione che in alcuni casi può essere letta a favore di una configurazione dell'appello come un "nuovo giudizio".
Così, si è ritenuto che il nuovo caso di rinnovazione avesse natura obbligatoria, nel senso di precludere al giudice ogni margine di scelta in ordine al se e al quando procedere alla rinnovazione, epilogo questo che prescinderebbe anche dalla richiesta della parte; inoltre, riguardo ai caratteri che deve presentare la prova da riassumere in appello, si è escluso che debba manifestare i tratti della decisività.
Queste prospettive ermeneutiche non appaiono condivisibili. Invero, occorre ribadire che l'istituto dell'appello, come delineato anche a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 103 del 2017, resta un mezzo di controllo della decisione assunta in primo grado.
Su tali aspetti sono intervenute le Sezioni Unite, che hanno chiarito come, anche dopo l'introduzione del comma 3-bis nell'art. 603, il giudice di appello non è obbligato a disporre una rinnovazione "generale e incondizionata" dell'attività istruttoria svolta in primo grado e hanno precisato che l'attività probatoria va "concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello" (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, Troise). Inoltre, questa stessa giurisprudenza ha circoscritto l'ambito applicativo della nuova rinnovazione, affermando che essa deve consistere nella "previsione di una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice di appello "decisive" ai fini dell'accertamento della responsabilità" (Sez. U, Troise, cit.), con la conseguenza che il concetto di decisività si ricava in rapporto alla rilevanza e utilità della prova stessa, in vista della decisione.
L'implementazione della rinnovazione finisce per ridefinire gli spazi concessi al contraddittorio, inteso come insieme di oralità e immediatezza, ma non modifica il modello di impugnazione.
In ogni caso, la valorizzazione della rinnovazione può essere messa in relazione anche con la modifica dell'art. 111 Cost., soprattutto là dove garantisce all'imputato il diritto di acquisire "ogni altro mezzo di prova a suo favore", non essendovi dubbio che le regole del giusto processo si applichino anche in appello.
Tuttavia, lo stesso art. 111 Cost., comma 5, prevede una deroga al principio del contraddittorio stabilendo che "nei casi regolati dalla legge la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita".
Occorre allora verificare se tali eccezioni al contraddittorio si riflettano sulla regola della rinnovazione in caso di overturning così come affermato dalla Dasgupta. In altri termini, il problema non è tanto quello di verificare, come sembra chiedere la difesa, se sia consentito utilizzare l'art. 512 c.p.p. in caso di ribaltamento in appello, quanto di accertare se la preclusione tendenzialmente rigida di overturning sfavorevole, posta dalla regola Dasgupta, sia compatibile con il quadro di riferimento costituzionale.
La questione riguarda il contemperamento tra le esigenze di rinnovazione nella prospettiva del ribaltamento in appello del proscioglimento e l'impossibilità di riassunzione del dichiarante, per morte, infermità o irreperibilità.
Se, come si è detto, in appello vale il principio del contraddittorio nella formazione della prova stabilito dall'art. 111 Cost., non possono non trovare applicazione le relative eccezioni previste espressamente nel comma 5 della stessa norma costituzionale. D'altra parte, le disposizioni processuali vigenti non stabiliscono alcun divieto di "ribaltare" l'assoluzione quando vi siano condizioni oggettive che impediscano la rinnovazione della prova, sicchè in presenza di disposizioni che non contengano divieti di esclusioni probatorie non può trovare applicazione una regola di origine giurisprudenziale non riprodotta dalla legge.
Infatti, ritenere che l'impossibilità di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva per oggettiva impossibilità impedisca sempre e comunque il ribaltamento del proscioglimento in assenza della rinnovazione, porterebbe alla configurazione di una vera e propria regola di esclusione probatoria, sul tipo di quella prevista dall'art. 526 c.p.p., comma 1-bis (Sez. U, n. 27918 del 25/11/2010, dep. 2011, D., Rv. 250197). Ma di tale tipo di regola di esclusione non vi è traccia nel codice di rito, nè può desumersi dall'art. 111 Cost. che, invece, nel comma 5 consente, come si è visto, la deroga al principio del contraddittorio nei casi di accertata impossibilità di natura oggettiva, tra i quali può rientrare la sopravvenuta morte del dichiarante. Come correttamente evidenziato dall'ordinanza di rimessione, l'impossibilità della riassunzione dell'istruttoria dibattimentale per la morte del dichiarante che ha reso dichiarazioni "decisive" è un'evenienza che va ricondotta "nell'ambito di quella che viene indicata come la "clinica" della giurisprudenza, ossia della definizione degli standards cognitivi e motivazionali del giudice".
7. Insomma il dato testuale dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, nel caso in cui la rinnovazione si riveli impossibile, non esclude il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado e del resto va ribadito che le stesse Sez. U, Dasgupta, sebbene prevedano la preclusione di un overturning ex actis, nell'ipotesi in cui il dichiarante sia un soggetto vulnerabile, affidano al giudice la valutazione sulla necessità di sottoporlo ad un ulteriore stress per verificare la fondatezza dell'appello contro la sentenza di assoluzione: in questo contesto il giudice viene chiamato a realizzare una sorta di ponderazione degli "interessi" contrapposti.
Questo ruolo di regolatore degli "interessi" in campo, riconosciuto al giudice, lo ritroviamo anche nella giurisprudenza della Corte EDU. Con la sentenza Dan c. Moldavia la Corte EDU, preso atto che "la valutazione dell'attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate", ha riconosciuto che "vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perchè, per esempio, è deceduto". La stessa decisione che cristallizza la regola della rinnovazione della prova in caso di ribaltamento in appello dell'esito assolutorio, pone, nello stesso tempo, una significativa riduzione della rigidità del principio affermato, riconoscendo casi in cui può ammettersi una deroga e, così, riconducendo la regola nel quadro generale della valutazione globale dell'equità della procedura.
Tale approccio, ispirato ad una applicazione flessibile della regola, rappresenta un vero e proprio orientamento della giurisprudenza Europea: lo ritroviamo in una delle prime pronunce che hanno applicato i principi della sentenza Dan c. Moldavia all'Italia, in cui viene ribadito come il decesso del dichiarante costituisca un'ipotesi di deroga alla regola per cui "la valutazione dell'attendibilità di un testimone è un'attività complessa che, normalmente, non può essere svolta mediante una semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni di quest'ultimo, come riportate nei verbali delle audizioni" (Corte EDU, 29/06/2017, Lorefice c. Italia).
Nello stesso senso, in maniera ancor più esplicita, si è espressa la Corte EDU proprio con riferimento al caso di un teste non risentito dal giudice di appello, in quanto nelle more deceduto: in tale fattispecie ha censurato la decisione che aveva statuito il ribaltamento non per il mero utilizzo delle pregresse dichiarazioni, ma solo in quanto l'affidamento su tali dichiarazioni avrebbe dovuto essere accompagnato da adeguate garanzie (Corte EDU, 10/11/2020, Dan c. Moldavia, nota come Dan 2).
Va evidenziato come quest'ultima sentenza abbia richiamato le due note pronunce della Grande Camera della Corte di Strasburgo, ossia la sentenza del 15/12/2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito e la sentenza del 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania, che "hanno ritenuto compatibile con le garanzie convenzionali la condanna fondata su dichiarazioni decisive assunte in via unilaterale, ogni volta che il sacrificio del diritto di difesa (ovvero l'impossibilità di interrogare direttamente il teste fondamentale) sia bilanciato da "adeguate garanzie procedurali"".
Così, la sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito ha affermato che una condanna basata esclusivamente sulla dichiarazione di un testimone assente non comporta automaticamente una violazione dell'art. 6 CEDU, in quanto tale disposizione impone di valutare l'equità complessiva dei giudizi penali.
A sua volta, la sentenza della Grande Camera, 15 dicembre 2015, Schatschaschwili c. Germania ha rimarcato come l'entità dei fattori di "controbilanciamento" necessari affinchè la prova del testimone assente possa essere presa in considerazione dipenda dal "peso" della prova di detto testimone, ribadendo, comunque, la centralità dell'accertamento dell'imprevedibilità del mancato esame nel processo del teste assente. Inoltre, ha indicato tre canoni processuali da verificare: a) l'esistenza di un valido motivo giustificativo dell'assenza del testimone, quale presupposto dell'ammissione delle dichiarazioni precedenti; b) l'accertamento che la dichiarazione cartolare sia stata determinante per la condanna; c) la presenza di sufficienti garanzie procedurali compensative, idonee a bilanciare le difficoltà causate alla difesa in conseguenza dell'ammissione di dette prove, al fine di garantire l'equità del processo.
La più recente giurisprudenza della Corte EDU ha dunque ridimensionato il rigore interpretativo della regola basata sulla prova determinante, introducendo un elemento di flessibilità rappresentato dal valore della equità complessiva del processo, affidando al giudice di apprezzare la consistenza di tutti quei contrappesi in grado di compensare, globalmente, le restrizioni delle prerogative difensive causate dall'utilizzazione di una prova non verificata in contraddittorio, prova capace di incidere sull'esito del giudizio. Si è, quindi, precisato che i fattori compensativi, funzionali a far apprezzare l'equità del giudizio, sono in relazione con il valore riconosciuto alla prova dichiarativa non assunta, nel senso che più la prova ha carattere di decisività, maggiore deve essere la pregnanza dei fattori compensativi. Inoltre, si è rilevato che per determinare l'equità del processo assume rilievo centrale l'accertamento dell'imprevedibilità del mancato esame del teste (cfr., Corte EDU, 23/06/2016, Ben Moumen c. Italia; nello stesso senso, di recente v., Corte EDU, 16/07/2019, Iulius Por Sigur Porsson c. Islanda, e Corte EDU, 09/11/2021, Ignat c. Romania).
E' evidente come questo orientamento, che punta su una valutazione complessiva dell'equità nel processo, finisce per riconoscere al giudice il delicato compito di accertare quali siano le concrete modalità in grado di riequilibrare la mancanza di contraddittorio.
8. Proprio la menzionata giurisprudenza Europea ha contribuito a riconsiderare parzialmente l'orientamento delle Sez. U, n. 27918 del 25/11/2010, D., Rv. 250199, secondo cui le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorchè legittimamente acquisite, non possono fondare in modo esclusivo o significativo l'affermazione della responsabilità penale, perchè ciò violerebbe le garanzie convenzionali.
Infatti, le Sez. U, Troise, nel richiamare gli approdi della giurisprudenza della Corte EDU, hanno ribadito che la condanna che si fondi unicamente o in misura determinante su una testimonianza resa in fase di indagini da un soggetto che l'imputato non sia stato in grado di interrogare nel corso del dibattimento integra una violazione dell'art. 6 CEDU, ma solo se il pregiudizio così arrecato ai diritti della difesa non sia stato controbilanciato da elementi sufficienti o da solide garanzie processuali in grado di assicurare l'equità del processo nel suo complesso. Si tratta di un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità che da ultimo ha ribadito come "le dichiarazioni predibattimentali acquisite ai sensi dell'art. 512 c.p.p. possono costituire, conformemente all'interpretazione espressa dalla Grande Camera della Corte EDU con le sentenze 15 dicembre 2011, Al Khawaja e Tahery c. Regno Unito e 15 dicembre 2015, Schatschaachwili c. Germania, la base "esclusiva e determinante" dell'accertamento di responsabilità, purchè rese in presenza di "adeguate garanzie procedurali", individuabili nell'accurato vaglio di credibilità dei contenuti accusatori, effettuato anche attraverso lo scrutinio delle modalità di raccolta, e nella compatibilità della dichiarazione con i dati di contesto, tra i quali possono rientrare anche le dichiarazioni dei testi indiretti, che hanno percepito in ambiente extra-processuale le dichiarazioni accusatorie della fonte primaria, confermandone in dibattimento la portata" (Sez. 2, n. 15492 del 05/02/2020, C., Rv. 279148, che in motivazione ha precisato che ciò che rafforza la credibilità della dichiarazione predibattimentale non è il contenuto omologo e derivato della dichiarazione de relato, quanto la circostanza che il dichiarante assente abbia riferito ad altri i contenuti accusatori introdotti nel fascicolo del dibattimento attraverso l'art. 512 c.p.p.; nello stesso senso cfr., Sez. 6, n. 43899 del 28/06/2018, Tropeano, Rv. 274278; Sez.6, n. 50094 del 26/03/2019, D., Rv. 278195; Sez. 2, n. 19864 del 17/04/2019, Mellone, Rv. 276531).
9. Sul tema delle garanzie procedurali, che devono controbilanciare la mancanza di contraddittorio, si registra, come si è visto, una formidabile convergenza della giurisprudenza nazionale con quella Europea. La Corte di cassazione, come la Corte EDU, alla fine giustifica l'oggettiva restrizione subita dalla difesa, a causa dell'utilizzazione di una prova sottratta alla garanzia del confronto, solo in presenza di elementi di riscontro che possano corroborare i contenuti dichiarativi unilateralmente acquisiti: l'obiettivo è l'equità del processo, più precisamente del giusto processo cui si riferisce l'art. 111 Cost..
Sebbene nelle decisioni di legittimità che si sono citate non si ponga il tema dell'overturning, esse tuttavia indicano una linea di azione rilevante anche per la questione in oggetto, nella misura in cui individuano la necessità di un bilanciamento in presenza di decisioni che si fondano su prove unilaterali.
Invero, la presente fattispecie, rispetto ai casi cui si riferisce la giurisprudenza citata, si connota per il fatto che, oltre alla carenza del contraddittorio, dipendente dalla impossibilità di ripetizione della prova dichiarativa già assunta in primo grado nel contraddittorio fra le parti, vi è la presenza di una decisione assolutoria intervenuta in primo grado che ingenera il dubbio sul reale fondamento dell'accusa. In questa situazione l'assoluzione di primo grado, che si fonda non solo sulla mancanza della prova della colpevolezza, ma sul ragionevole dubbio dell'innocenza dell'imputato, opera un rafforzamento della presunzione di non colpevolezza in appello che, secondo quanto prevede oggi l'art. 603, comma 3-bis, può essere superata solo attraverso l'instaurazione del contraddittorio come metodo di costruzione della prova orale. Tuttavia, nella impossibilità oggettiva di dar luogo alla rinnovazione istruttoria, il ribaltamento dell'esito assolutorio può avvenire, ma solo in presenza di idonee e rafforzate garanzie procedurali.
Innanzitutto, rafforzata deve essere la motivazione che deve colmare il deficit del mancato riascolto (in questo senso già, Sez. U, Troise).
In questo caso il "rafforzamento" delle argomentazioni motivazionali deve essere particolarmente incisivo e, in primo luogo, avere ad oggetto la dichiarazione "decisiva", resa in primo grado e non potuta replicare, attraverso un esame e una valutazione di tutti gli elementi riguardanti la credibilità del soggetto e l'attendibilità del suo narrato, per poi procedere alla falsificazione della stessa prova dichiarativa per verificarne le disarmonie logiche e argomentative, nonchè per evidenziare il fondamento erroneo dei fatti e rapporti valorizzati dal primo giudice sulla base di un eventuale travisamento probatorio.
Ma, soprattutto, il rafforzamento deve avvenire non solo su basi "argomentative", bensì sulla base di ulteriori elementi che siano idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, elementi che il giudice ha l'onere di ricercare e acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all'art. 603 c.p.p., comma 3.
In questa opera di riqualificazione del quadro probatorio devono essere cercati e verificati gli elementi di riscontro in grado di corroborare la prova dichiarativa non "ripetibile" per ragioni oggettive, elementi di riscontro con sicura valenza confermativa, in modo da riconoscere alla dichiarazione stessa una capacità conoscitiva tale da giustificare il ribaltamento; ove necessario possono essere disposte d'ufficio dal giudice, attivando i poteri ex art. 603, comma 3 cit., prove in origine ritenute superflue che, invece, nella situazione particolare che si è determinata, si rivelino ora necessarie; così come non può escludersi che possa rendersi necessaria una perizia finalizzata ad accertare, sul piano tecnico scientifico, fatti oggetto della dichiarazione non rinnovabile per cause oggettive.
Insomma, il deficit probatorio che si verifica per effetto della impossibilità di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa "decisiva" e in presenza di una sentenza assolutoria di primo grado determina la necessità di prevedere tutte quelle garanzie procedimentali in grado di reintegrare il quadro probatorio, al fine di dimostrare la illogicità della originaria valutazione che di quelle prove ha fatto il primo giudice.
Nell'ambito dei poteri officiosi del giudice di appello, attivabili nella oggettiva impossibilità di riascoltare il dichiarante, rientra anche la possibilità di lettura degli atti assunti nel procedimento, come del resto ha fatto, nel caso in esame, la Corte di appello di Bologna nel giudizio di rinvio, al fine di accertare la credibilità della coimputata deceduta e saggiare l'attendibilità e la coerenza del suo narrato attraverso la ricostruzione dei suoi apporti conoscitivi. In questo caso, il ricorso alle letture si giustifica in base al combinato disposto dell'art. 598 c.p.p. e art. 603 c.p.p., comma 3, e quindi, come si è anticipato, si è fuori dall'ambito applicativo proprio dell'art. 512 c.p.p..
Le garanzie procedimentali che possono giustificare sia il superamento della presunzione di innocenza rafforzata legata all'intervenuta assoluzione, sia la mancanza del contraddittorio, possono anche non operare cumulativamente, nel senso che spetta alla discrezionalità del giudice, in rapporto alle necessità di integrazione probatoria, valutare se sia necessario o meno ricorrere ad una rinnovazione anche officiosa dell'istruzione dibattimentale, oppure sia sufficiente una motivazione rafforzata con gli opportuni riscontri.
Nel caso di rinnovazione istruttoria, soprattutto quando particolarmente estesa in funzione della necessità di ricomporre il quadro probatorio, il giudizio di appello fatalmente si avvicina ad una forma di novum iudicium: quanto più vasta è l'istruttoria dibattimentale in appello, tanto maggiore è la trasfigurazione del giudizio d'appello in novum iudicium, che trova la sua ragione di essere nella necessità di dover superare la mancanza del contraddittorio insieme alla presunzione rafforzata di innocenza per effetto della preesistente pronuncia assolutoria.
10. Può quindi formularsi il seguente principio di diritto:
La riforma, in appello, della sentenza di assoluzione non è preclusa nel caso in cui la rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, oggetto di discordante valutazione, sia divenuta impossibile per decesso del dichiarante; tuttavia, la motivazione della sentenza che si fondi sulla prova non rinnovata deve essere rafforzata sulla base di elementi ulteriori, idonei a compensare il sacrificio del contraddittorio, che il giudice ha l'onere di ricercare ed eventualmente acquisire anche avvalendosi dei poteri officiosi di cui all'art. 603 c.p.p., comma 3.
11. Sulla base del principio di diritto formulato - che può essere esteso anche ai casi di irreperibilità o infermità del dichiarante - devono ritenersi infondati i motivi con cui il ricorso censura la sentenza per aver operato il ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado e affermato la responsabilità dell'imputato ex actis, attraverso il recupero delle precedenti dichiarazioni rese da S.M., una volta constatata l'impossibilità di risentirla perchè nel frattempo deceduta.
Infatti, la Corte di assise di appello ha posto in essere proprio quelle garanzie procedurali alle quali sopra si è fatto riferimento, garanzie rappresentate, nella specie, dalla rinnovazione parziale dell'istruttoria con il recupero, attraverso le letture, delle dichiarazioni acquisite nelle indagini preliminari, sottoposte poi ai necessari riscontri nell'ambito di una rafforzata motivazione che ha preso in considerazione in maniera puntuale e completa le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, nonchè quelle delle parti, per giungere a ritenere l'attendibilità della coimputata, attendibilità confermata attraverso l'individuazione dei necessari riscontri.
12. Il primo giudice ha ritenuto inattendibile S.M., interessata ad accusare D.S. per distogliere da sè ogni responsabilità o meglio per limitare il ruolo svolto nell'omicidio di M.: a riprova di questa lettura è stato evidenziato che le sue prime dichiarazioni autoaccusatorie risalgono al 29 aprile 2014, rese dopo che D., qualche giorno prima (23 aprile 2014), aveva reso un'ampia confessione anche in relazione all'omicidio di M., coinvolgendo anche S., che a questo punto si sarebbe decisa a "parlare solo perchè stavano per schiudersi a lei le porte del carcere e non per sincero pentimento".
Questa ricostruzione è stata sottoposta ad attenta critica dal giudice del rinvio che ha dimostrato l'erroneità e l'illogicità della prospettiva contenuta nella sentenza di primo grado proprio attraverso l'acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni rese da S. nel corso delle indagini, collocate in una corretta sequenza temporale rispetto ai fatti e alle stesse deposizioni di D..
Attraverso la rinnovazione parziale dell'istruttoria ai sensi dell'art. 603 c.p.p., commi 3 e 3-bis, il giudice del rinvio ha ricostruito la successione cronologica delle diverse deposizioni della fonte d'accusa, ne ha verificato l'attendibilità e la coerenza intrinseca e valutato, infine, la genesi della chiamata in correità, tema questo oggetto di specifiche doglianze, di opposto tenore, sia da parte del pubblico ministero appellante, che della difesa dell'imputato.
Infatti, è risultato che a rivelare particolari essenziali e determinanti per le indagini è stata proprio S.M., prima delle dichiarazioni rese da D.: nell'interrogatorio reso al pubblico ministero nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 ha raccontato della presenza del minorenne, R.R., appositamente giunto a (OMISSIS) per partecipare ai delitti, circostanza omessa da D. nelle precedenti dichiarazioni confessorie dell'omicidio di N.L.. Il 14 aprile 2014 S. ha rivelato, nell'interrogatorio davanti al pubblico ministero, le modalità con cui M. è stato attirato da lei e da D. a (OMISSIS) per ottenere informazioni su N.L.. Nello stesso interrogatorio ha indicato la zona della (OMISSIS), dove venne trasportato il corpo di M.. Sempre S. ha rivelato come, d'accordo con D., utilizzò il cellulare di M. inviando messaggi per allacciare i contatti con N.L. e fissare l'appuntamento alla stazione di (OMISSIS), dove poi quest'ultima venne uccisa. Il giorno successivo all'interrogatorio accompagnerà gli investigatori nelle adiacenze della cava abbandonata del (OMISSIS) dove poi è stato ritrovato il cadavere di M..
Si tratta di circostanze che, secondo la Corte di assise di appello, non erano note agli investigatori e che contraddicono quanto sostenuto nella prima sentenza laddove si nega la spontaneità delle dichiarazioni e l'intento collaborativo da parte di S..
Solo dopo le dichiarazioni di quest'ultima e il sopralluogo presso la cava sopralluogo che aveva avuto un'eco mediatica - D., consapevole che ormai gli inquirenti hanno collegato la scomparsa di M. con l'omicidio di N., già oggetto di confessione, chiede di essere interrogato e confessa anche l'omicidio di M., ma lo riconduce ad una reazione impulsiva, determinata da gelosia, senza rivelare una serie di circostanze rilevanti, tra cui l'acquisto di un coltello, delle manette, del nastro adesivo e dei guanti, tutti oggetti strumentali alla consumazione dell'omicidio, nonchè la partecipazione di D.S. e del minorenne ai delitti e infine il luogo in cui avvenne l'uccisione, che colloca nei pressi del "(OMISSIS)" anzichè all'interno dell'appartamento di (OMISSIS), dove effettivamente venne uccisa la vittima.
La Corte di assise di appello evidenzia come sia stata ancora S.M., nell'interrogatorio del 29 aprile 2014, a fornire la dettagliata descrizione dei preparativi e delle modalità cruente poste in essere per uccidere M., confessando la propria partecipazione e quella degli altri imputati, compreso D., inoltre riferendo, per la prima volta, dell'acquisto del coltello, delle manette e degli altri oggetti da parte di tutti i concorrenti nel delitto, dell'appartamento in cui sarebbe avvenuto l'omicidio, del trasporto del cadavere fino alla cava mediante l'utilizzo di due auto.
La sentenza impugnata ha offerto una logica risposta alle obiezioni sulla attendibilità di S., obiezioni basate sul fatto che avrebbe mentito nell'indicare D.S. come colui che mise le manette a M., essendo risultato dalle intercettazioni e dalla sentenza emessa nei confronti del minorenne R., che invece fu lei a compiere tale operazione. La Corte non ha recepito le argomentazioni contenute nella sentenza citata e ha spiegato, con coerenza logica, che la conversazione intercettata tra S. e D. in data 12 maggio 2014, valorizzata a sostegno della tesi dell'inattendibilità, altro non era se non una raccomandazione di D. a non rivelare l'acquisto delle manette e del restante materiale per scongiurare la contestazione della premeditazione. La sentenza impugnata ha, inoltre, spiegato le ragioni per le quali il contenuto della citata conversazione non smentisce quanto affermato dalla S., che infatti ammette che D. le consegnò le manette intimandole di metterle a M., precisando però che lei "era rimasta ferma, impalata sulla porta", sicchè era intervenuto D.S. che, prese le manette, le applicava a M..
In base al riposizionamento, confronto e approfondimento critico delle dichiarazioni predibattimentali di S.M. e alla analisi puntuale delle conversazioni intercettate - che hanno consentito di superare anche la ricostruzione che di tali dichiarazioni ha fatto il Maresciallo C. all'udienza del 21 settembre 2015 -, il giudice del rinvio evidenzia l'illogicità degli argomenti utilizzati dalla Corte di assise di Rimini nel sostenere l'intrinseca inattendibilità di S.M. e del suo presunto interesse a coinvolgere D.S., attribuendogli condotte che sarebbe stata lei a porre in essere, per distogliere da sè ogni responsabilità. Alla data del 29 aprile 2014, rispetto al quadro probatorio emerso fino a quel momento, non vi era alcuna necessità nè utilità per chiamare in causa falsamente D., dal momento che nessuno prima di lei aveva fatto riferimento alle modalità di uccisione di M., all'uso di manette e al trasporto del cadavere. Ed in effetti, attraverso la corretta sequenza temporale delle dichiarazioni, appaiono logiche e coerenti le conclusioni cui approda il giudice del rinvio che esclude ogni strategia difensiva nel comportamento di S., la quale con le dichiarazioni rese nell'aprile del 2014, in cui fornisce una ricostruzione dettagliata dei fatti e delle fasi preparatorie dei due omicidi, vede aggravarsi pesantemente la sua posizione nella misura in cui descrive un disegno premeditato, di cui ella è partecipe sin dalle prime fasi; ricostruzione profondamente diversa da quella iniziale di D. che, come si è detto, riconduceva entrambi gli omicidi a sue improvvise reazioni d'impeto determinate da attacchi di gelosia.
Una volta fatto cadere l'argomento principale sostenuto nella prima sentenza circa l'inattendibilità di S.M. e il suo interesse ad accusare D.S. per limitare la sua responsabilità nell'omicidio M. e verificato che dalle sue confessioni rese il 14 e il 29 aprile 2014 non poteva trarne alcun vantaggio processuale, correttamente la Corte di appello l'ha ritenuta intrinsecamente credibile, anche considerando che tale confessione è stata confermata nel corso dell'esame dibattimentale del 24 luglio 2015, reso quando S.M. era ricoverata a causa di una grave malattia che l'avrebbe di lì a poco condotta alla morte, in una situazione, dunque, in cui, secondo i giudici, non avrebbe potuto trarre alcuna utilità ad accusare falsamente D..
Questo giudizio finale di credibilità non può essere intaccato, secondo la sentenza, dagli atteggiamenti tenuti all'inizio delle indagini, quando cioè la coimputata ha tentato una linea difensiva diversa, seguendo le indicazioni di D..
In sostanza, il giudice del rinvio, attraverso la lettura dei verbali acquisiti, rivalutati anche in relazione al contenuto delle conversazioni intercettate e alle dichiarazioni rese da D., ha escluso l'esistenza di "scaltre strategie difensive" da parte della S., pervenendo ad una ricostruzione della genesi della "testimonianza" della coimputata che appare logica e coerente: infatti, in sentenza si prende atto che inizialmente S. ha seguito le indicazioni frutto degli accordi presi con D., secondo cui la sua partecipazione ai delitti doveva apparire come del tutto passiva, una conseguenza delle minacce di D. - per consentire che la donna, evitando il carcere, potesse prendersi cura dei minori S. e D.C. -, ma allo stesso tempo si spiega che la donna, anche in considerazione degli sviluppi delle indagini, matura la convinzione di dover rivelare circostanze fondamentali per la completa ricostruzione dei fatti, confessando la sua piena partecipazione e il suo ruolo attivo sia nell'omicidio di M., sia in quello di N.. Le prime dichiarazioni sono considerate dai giudici il "frutto di un ordinario atteggiamento difensivo iniziale di prudenza", assolutamente non in grado di svalutare le successive deposizioni. Del resto, in materia di valutazione probatoria della chiamata in correità, l'esclusione dell'attendibilità limitata ad una parte del racconto non implica, per il principio di frazionabilità della valutazione, un giudizio di inattendibilità con riferimento alle altre parti che risultano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrabili (Sez. 6, n. 35327 del 18/07/2013, Arena, Rv. 256097; Sez. 1, n. 40000 del 10/07/2013, Pompita, Rv. 256917; Sez. 6, n. 25266 del 03/04/2017, Polimeni, Rv. 270153). Insomma, l'atteggiamento iniziale di S.M. non ha compromesso la sua credibilità e l'attendibilità delle sue successive dichiarazioni che risultano adeguatamente riscontrate.
13. La Corte di assise di appello ha, infatti, individuato i necessari riscontri alla chiamata in correità di S.M..
Innanzitutto, il coinvolgimento di D. nei due delitti di sangue viene spiegato ricostruendo la ragione del progetto omicidiario di D.: il tradimento di N.L. con il cugino, D.K., durante il soggiorno in (OMISSIS) nell'(OMISSIS), aveva disonorato D. e la sua famiglia, compresa quella dello zio D.S., sicchè l'offesa doveva essere vendicata con l'uccisione di colei che aveva tradito, disonorando tutto il "clan". La sentenza riporta la testimonianza di K.A., responsabile dell'associazione nazionale degli (OMISSIS) in Italia, il quale ha riferito che il tradimento del marito da parte della moglie, secondo antiche e ataviche tradizioni che si riferiscono ad un codice consuetudinario (OMISSIS) (c.d. (OMISSIS)), costituisce un'offesa di tale gravità da legittimare l'uccisione della donna, precisando che, se commesso con un familiare, ha ripercussioni sull'intera famiglia: ebbene, secondo i giudici del rinvio la condotta di N.L., in quel contesto familiare ancorato ad ancestrali e inconcepibili codici di onore, aveva provocato la reazione dell'intera famiglia di D., tra cui lo zio, D.S., che dopo quell'episodio ha interrotto ogni rapporto con il fratello, cioè con il padre di K., rimproverandogli di non aver preso provvedimenti nei confronti del figlio (interrogatorio del 30.4.2014). Del resto, risulta che D., una volta appreso del tradimento, si recò in (OMISSIS) per effettuare una "spedizione punitiva" nei confronti del cugino, che venne aggredito, con l'aiuto di R.Z. - fratello di R. che poi parteciperà agli omicidi commessi in Italia -, aggressione che determinò l'arresto in (OMISSIS) di D..
In questa ricostruzione la Corte di assise di appello individua una reazione vendicativa che coinvolge la famiglia di D., reazione a cui partecipa anche D.S., cioè lo zio che viveva anch'egli in Italia; in questo progetto vendicativo partecipano i fratelli R., anch'essi pienamente coinvolti, ed infatti la sentenza riferisce che D. venne fermato per un controllo alla stazione di (OMISSIS) l'(OMISSIS) in compagnia di D.S. e di R.Z., il (OMISSIS) venne sottoposto ad un controllo di polizia mentre si trovava, assieme a S.M., presso la stazione di (OMISSIS) in attesa di R.R..
Numerosi sono i riscontri presi in considerazione dalla sentenza di appello circa il pieno coinvolgimento di D..
Dai tabulati acquisiti risulta che il cellulare di D. "agganciò" le celle della zona in cui si trovava il negozio ove vennero acquistati coltello, manette, guanti e nastro adesivo, in concomitanza con i cellulari degli altri concorrenti, a dimostrazione della loro contestuale presenza nel predetto posto.
I giudici del rinvio menzionano la conversazione intercettata tra D. e D. sulla linea difensiva da seguire, soprattutto in relazione al cellulare che quest'ultimo aveva lasciato a bordo dell'auto di S., ulteriore grave indizio sul suo pieno coinvolgimento all'intero progetto criminoso.
A conferma del coinvolgimento di D.S. nella intera programmazione dei delitti, la sentenza cita la sua partecipazione, accertata, all'occultamento del cadavere di M..
Del resto, è lo stesso imputato ad aver ammesso la partecipazione al trasporto del cadavere del M., avvolto in un tappeto, dall'abitazione in cui venne ucciso al (OMISSIS), dove poi venne occultato.
Riscontri sono ritenuti anche due conversazioni oggetto di intercettazione: la prima nel carcere di (OMISSIS) tra D. e D. (17.5.2014), in cui il primo fa presente che S.M. ha raccontato tutto, anche di quanto accaduto nella spedizione a (OMISSIS); la seconda, sempre nel carcere, in cui D., parlando con il compagno di cella, gli confida che S.M. "ha detto tutto, punto per punto, tutto" (28.7.2014).
Una valenza di riscontro viene attribuita alla missiva inviata da D. ai suoi genitori (26 agosto 2014) in cui li rassicura di aver mantenuto il silenzio su D. e su R., rammaricandosi del fatto che, invece, S.M. aveva parlato ("io non ho detto niente dello zio e di R., ma l'ha detto quella donna, M.. Quella che è in carcere con me"): evidente la preoccupazione di comunicare alla famiglia che non era stato lui ad accusare il parente e gli amici che avevano partecipato con lui alle azioni criminose.
Sempre a conferma del pieno inserimento di D. nel progetto delittuoso, la sentenza ha dato rilievo anche ad una conversazione intercettata nel carcere di (OMISSIS), in data 18 aprile 2014, tra D. e D., in cui i due si scambiano informazioni circa la pulizia delle tracce lasciate nella casa di (OMISSIS) - sul letto, sui muri e sul tappeto - dopo l'omicidio di M..
Tuttavia, l'elemento di riscontro davvero significativo alla chiamata in correità è costituito dalla partecipazione dell'imputato alla fase immediatamente precedente l'omicidio di M., quando vennero acquistate le manette e il nastro adesivo, utilizzati per infierire contro M., nonchè il coltello, con cui sarà uccisa N..
Secondo la ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata tali acquisti vennero fatti nel pomeriggio del (OMISSIS) dal gruppo composto da D., S., R. e D. che, a bordo della Lancia Y10 di quest'ultimo, si erano recati nel centro di (OMISSIS), nel negozio situato nei pressi di (OMISSIS). S.M. ha riferito della fermata nei pressi del negozio e dell'acquisto fatto da D. che, tornato in auto, mostrò a D. il sacchetto con il suo contenuto e tale circostanza, che dimostra la presenza di D., è stata confermata da R. nel corso dell'esame eseguito all'udienza del 15 marzo 2017 nell'ambito del primo giudizio di appello; peraltro, lo stesso D. ha affermato di aver acquistato, quello stesso pomeriggio, il coltello.
Che nel pomeriggio del (OMISSIS) D. si trovasse in compagnia di D. e degli altri due complici la Corte di assise di appello lo desume anche da un ulteriore riscontro, costituito dall'analisi dei tabulati telefonici da cui risulta che D. e D., verso le 17, si trovavano nella stessa zona.
La sentenza si preoccupa di rispondere alle obiezioni difensive che, per smentire una tale ricostruzione, hanno richiamato le dichiarazioni rese dal maresciallo C., dichiarazioni motivatamente ritenute imprecise, frutto di una errata lettura dei tabulati.
Allo stesso modo, la sentenza fornisce una compiuta e logica indicazione in ordine alla inattendibilità della dichiarazione resa da M.C., figlio di S.M., secondo cui D. sarebbe rimasto l'intero pomeriggio del (OMISSIS) nella sua abitazione di (OMISSIS), assieme ai suoi figli, N., S. e A., in quanto è risultato accertato che quel giorno A. si trovava in (OMISSIS).
Le obiezioni difensive con cui si sottolinea che D. non partecipò ai sopralluoghi per individuare dove occultare il corpo di M., nè fu coinvolto negli stratagemmi ideati da D. per attirare M. nell'appartamento attraverso il contatto telefonico con S. sono state ritenute inidonee a indebolire il quadro probatorio su indicato con motivazione ampia e logica.
Infondate sono anche le doglianze contenute nel ricorso e nei motivi aggiunti con cui si sostiene la mancata considerazione in sentenza di una serie di conversazioni intercettate tra D. e D. ovvero tra quest'ultimo e il suo compagno di cella contenenti affermazioni che dimostrerebbero l'estraneità di D. ai fatti contestati. Infatti, la sentenza, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, ha preso in considerazione le conversazioni oggetto di intercettazione - ad esclusione di quella espunta dalla sentenza della Prima Sezione della Corte di cassazione - evidenziando che "si trattava di versioni difensive" concordate con lo zio e inoltre sottolineando che D., consapevole di essere intercettato, inseriva "nelle proprie conversazioni riferimenti palesemente falsi a favore dello zio". Peraltro, ottemperando a quanto indicato dalla sentenza di annullamento, la Corte di assise di appello ha individuato le conversazioni intercettate da cui desumere la consapevolezza di D. di essere intercettato e la sua scelta strategica di introdurre nelle conversazioni argomenti tendenti a favorire la posizione dello zio, che sin dall'inizio ha cercato di non coinvolgere nella vicenda (la sentenza impugnata, nella pagine 30 e 31, si riferisce alle conversazioni del 28 luglio 2014 e del 20 settembre 2014). Inoltre, sempre al fine di ottemperare alle indicazioni della sentenza di annullamento, i giudici hanno fissato nel colloquio del 17 maggio 2014, tra D. e D., il momento in cui tra i due è intervenuta l'intesa sulla versione da rendere per escludere la partecipazione dello zio al primo omicidio; in una successiva conversazione (n. 23039) D. racconta al compagno di cella che dopo l'uccisione di M. aveva chiamato lo zio al telefono "senza ottenere risposta perchè lui era a casa che dormiva": circostanza che è risultata del tutto falsa, in quanto i giudici hanno potuto accertare che dai tabulati telefonici non risulta che vi sia mai stato un tale contatto e che, quindi, conferma la strategia di D. volta ad inserire nelle conversazioni elementi di fatto inveritieri per favorire la posizione dello zio.
D'altra parte, va tenuto presente che il giudice del rinvio ha proceduto a riconsiderare i contenuti di alcuni brani di conversazioni oggetto di intercettazioni sulla base di un quadro probatorio in cui S.M. è ritenuta intrinsecamente credibile e del tutto attendibili le sue accuse nei confronti di D., del quale ha fornito, come si è visto, dettagliate indicazioni sul ruolo svolto.
14. Gli elementi probatori suindicati forniscono un puntuale riscontro alla chiamata in correità di S.M. e comunque dimostrano, in maniera autonoma, il coinvolgimento di D. nel programma omicidiario del nipote: la sua partecipazione alla fase preparatoria dell'omicidio di M., nonchè l'accertato contributo dato da D. nella fase finale dell'omicidio, conclusasi con l'occultamento del cadavere di M., giustificano la ritenuta attendibilità della ricostruzione dei fatti così come offerta da S.M., che ha ribadito, in tutte le sue dichiarazioni, che D. prese parte anche alla fase centrale dell'eliminazione di M..
In questo modo la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di chiamata in correità, rinvenendo i necessari riscontri, sia rappresentativi sia logici che, pur non avendo lo spessore di una prova autosufficiente, conferiscono dignità di prova alle dichiarazioni accusatorie della coimputata attraverso un percorso dimostrativo che ha accertato che quella dichiarazione resa da un soggetto attendibile è a sua volta attendibile (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv. 255145; Sez. U, n. 15653 del 21/10/1992, Marino, Rv. 192465).
La sentenza ha dimostrato che nell'appartamento di (OMISSIS), dove S. condusse con l'inganno M., era presente anche D.S., assieme a D. e al minorenne R. e tutti (muniti di guanti di lattice, di manette, di nastro adesivo e di oggetti atti ad offendere), presero parte prima alle violenze e poi all'uccisione, secondo la dettagliata descrizione di S.: M. venne ammanettato, denudato, minacciato e costretto a chiamare con il proprio cellulare N.L. per prendere con lei un appuntamento per il giorno dopo; dopodichè gli fu messo il nastro adesivo sulla bocca, strangolato con un cavo della televisione tirato da una parte e dall'altra da D. e dal minorenne, mentre D. gli teneva ferme le gambe; venne poi rivestito, avvolto in un tappeto e trasportato nel bagagliaio della Y10 di proprietà di D., con cui venne portato alla cava ispezionata qualche giorno prima; il gruppetto si mosse con due automobili, la Lancia Y10 condotta da D., con a bordo S., seguita dalla Fiat Punto guidata da D. con a fianco il minorenne; l'occultamento del cadavere nella cava fu eseguito dai tre uomini, mentre S.M. rimaneva fuori in attesa; infine, sotto la supervisione di D. venne "ripulito" l'appartamento per far sparire le tracce del delitto.
15. Correttamente la sentenza, una volta riconosciuta la partecipazione all'omicidio di M., ha attribuito a D. anche la responsabilità a titolo di concorso delle altre condotte delittuose contestate che hanno accompagnato l'azione, tra cui la rapina aggravata del telefono cellulare (capo A) e la violenza privata (capo B), poste in essere materialmente da D. che si è impossessato con volenza e minaccia del cellulare di M., costringendolo poi a telefonare a N.L..
Peraltro, in relazione a questi reati non sono stati proposti motivi specifici.
In ogni caso, il delitto di violenza privata non risulta prescritto, in quanto al termine ordinario di sette anni e sei mesi va aggiunto il periodo di sospensione, pari a sessanta giorni, conseguente al rinvio dell'udienza del 3 giugno 2021 per legittimo impedimento del difensore.
16. Infondato è il motivo con cui si contesta la ritenuta aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 4, richiamato dall'art. 577 c.p., comma 1, n. 4: secondo la difesa, l'autopsia ha riscontrato la rottura dell'osso ioide, il che presuppone l'esercizio di una notevole forza, che dimostrerebbe che la determinazione di uccidere M. non sarebbe compatibile con l'intenzione di infliggergli sofferenze ulteriori.
Come è noto la giurisprudenza ritiene che la circostanza aggravante dell'avere agito con crudeltà, avente natura soggettiva, è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive, che esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole, precisando che l'atteggiamento interiore va accertato considerando le modalità della condotta posta in essere nonchè tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle riguardanti le note impulsive del dolo (così, Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267629).
Il giudice del rinvio ha sottolineato le modalità dello strangolamento e la durata dell'esecuzione, che si è protratta per circa dieci minuti, causando sofferenze indicibili alla vittima, che ha perduto sangue dalla bocca, desumendo da tali modalità delle condotte la volontà comune dei coimputati, tutti con un ruolo attivo nell'azione omicidiaria, di infliggere sofferenze esorbitanti rispetto al normale processo di causazione dell'evento. La sentenza, per evidenziare l'agonia inflitta a M., riporta un colloquio di D. con il compagno di cella al quale racconta che la vittima "faticava a morire e che si era messo a piangere quando gli avevamo messo lo scotch sulla bocca".
Si ritiene che correttamente, nel rispetto dei principi indicati dalla giurisprudenza citata, i giudici di merito hanno considerato sussistente l'aggravante in questione.
17. Per quanto riguarda l'omicidio di N.L. la partecipazione dell'imputato viene dimostrata dalla Corte di appello innanzitutto sulla base di un ragionamento logico induttivo.
Viene infatti richiamato il contesto familiare in cui si sono consumati i delitti, originati dal "tradimento" della donna, compagna e madre dei figli di D., e dalla reazione alla "offesa" che, come si è visto, ha coinvolto la famiglia di D. e, in primo luogo, lo zio D., cioè il parente che viveva anch'egli in Italia, nonchè i fratelli R., individuando il movente, condiviso da D., nella necessità di punizione, offrendo il suo aiuto all'azione del nipote.
Inoltre, la sentenza impugnata ha posto in relazione strumentale l'eliminazione di M.S. e l'uccisione di N.L., nel senso che il primo omicidio costituisce l'antecedente necessario per portare a compimento la punizione nei confronti della donna: i giudici hanno evidenziato come la "cattura" di M. è servita per stabilire un contatto con N.L., ottenuto il quale M. è stato eliminato per evitare che potesse avvisare la donna del pericolo e, soprattutto, fornire elementi di prova agli inquirenti. Ne consegue, nel ragionamento contenuto nella sentenza, che il pieno coinvolgimento di D. nei piani del nipote e la sua accertata partecipazione all'omicidio M. sono funzionali e si spiegano con l'obiettivo finale, condiviso dall'imputato, di rintracciare e punire N.L..
Attraverso l'esame dei tabulati è emerso che D., subito dopo aver ucciso N., appena salito sull'automobile condotta da S. per allontanarsi dal luogo dell'omicidio, telefonò per due volte a D. per brevi conversazioni e subito dopo a R.Z. (la persona con cui aveva compiuto l'aggressione nei confronti di D.K.), che si trovava in (OMISSIS): con queste telefonate, valorizzate dai giudici di merito, D. ha comunicato al parente e all'amico in (OMISSIS) la compiuta vendetta.
Il ragionamento induttivo compiuto dai giudici, logico e fondato su solidi argomenti, viene completato, correttamente, da precisi elementi di carattere storico che contribuiscono a confermare il pieno coinvolgimento, non solo morale, di D. nell'uccisione di N..
Infatti, l'elemento più significativo a sostegno del contributo, anche materiale, offerto da D. nell'omicidio in esame è rappresentato dall'aver messo a disposizione del nipote la propria autovettura Lancia Y10, con cui D., accompagnato da S. e dal minorenne, si recò all'appuntamento con N.L., a (OMISSIS), per ucciderla. La sentenza supera le obiezioni difensive secondo cui l'auto era già nella disponibilità di D., precisando che si tratta della stessa autovettura utilizzata la sera prima dell'omicidio per recarsi alla (OMISSIS) dove venne occultato il cadavere di M., sicchè deve ritenersi che D. anzichè riprendere il possesso del mezzo, come avveniva ogni fine settimana, "la lasciò consapevolmente e deliberatamente al D., che il giorno seguente l'avrebbe utilizzata per il viaggio a (OMISSIS)".
La sentenza si preoccupa di esaminare anche l'argomento in base al quale il primo giudice ha ritenuto insussistente l'elemento soggettivo nel concorso di D. nell'omicidio di N., fondato su uno stralcio di una conversazione intercettata nel carcere di (OMISSIS) in data 18 aprile 2014, da cui viene desunto che l'imputato non sapeva che il nipote sarebbe andato a (OMISSIS) con la sua auto. La Corte di assise di appello demolisce la valenza dimostrativa di tale colloquio, sottolineando come dalla completa lettura dell'intercettazione emerge in realtà che i due si stavano scambiando informazioni per organizzare una linea difensiva, in un momento in cui non ancora si conosceva il luogo in cui M. era stato ucciso: in quell'occasione D. chiedeva a D. se avesse ripulito l'abitazione dalle tracce lasciate dopo l'esecuzione brutale - pulizia del letto e del materasso, dei muri e del tappeto - e suggeriva allo zio la versione da riferire agli inquirenti qualora gli avessero chiesto di riferire come mai il suo telefono cellulare era stato rinvenuto nella Lancia Y10 all'atto del sequestro, circostanza questa che avrebbe potuto significare la consapevolezza di D. circa l'utilizzo della sua autovettura da parte del nipote per recarsi a (OMISSIS).
18. Anche il motivo sulla aggravante della premeditazione deve ritenersi infondato alla luce della complessiva ricostruzione dei fatti operata nella sentenza impugnata.
La giurisprudenza è consolidata nella definizione degli elementi costitutivi di questa aggravante soggettiva, che vengono individuati in un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso e la ferma risoluzione criminosa perdurante, senza soluzioni di continuità, nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine, dovendosi escludere la premeditazione solo quando l'occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, tale cioè da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione del reato (in questi termini, Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, Antonucci, Rv. 241575; Sez. 5, n. 42576 del 03/06/2015, Procacci, Rv. 265149). La sua sussistenza è assoggettata alle normali regole di valutazione stabilite nel codice di rito e può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, in base ad esempio agli indizi ricavabili dalle modalità del fatto, dalle circostanze di tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente, mentre si esclude che sia necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l'accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari siano gravi, precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione (cfr., Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, Esposito, Rv. 275415).
Nel caso in esame la sentenza impugnata ha correttamente applicato la fattispecie di cui all'art. 577 c.p., comma 1, n. 3, nel rispetto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, in relazione ad entrambi gli elementi, quello cronologico e quello ideologico, che caratterizzano la premeditazione come azione ispirata da una particolare intensità del dolo, che si traduce in una fredda e perdurante determinazione a commettere il reato senza ripensamenti e senza soluzione di continuità.
La volontà premeditata di uccidere N.L. appartiene inizialmente al solo D. che, non appena venuto a conoscenza del tradimento, medita la vendetta, ma questo stato soggettivo si estende anche a D.S., sebbene non abbia partecipato all'originaria deliberazione volitiva, in quanto ne acquista immediata consapevolezza, apprezzandone la valenza proiettata a riparare l'offesa che riguarda l'intera famiglia, consapevolezza che precede il suo contributo all'evento e che matura in un tempo tale da consentire che lo sviluppo del proposito criminoso prevalga sui motivi inibitori, così come prescrive la giurisprudenza, che ammette esplicitamente che la premeditazione possa estendersi anche al concorrente nel reato quando risulti provata la conoscenza effettiva e la volontà adesiva al progetto da parte di costui, cosicchè egli faccia propria la particolare intensità dell'altrui dolo (cfr., Sez. 6, n. 56956 del 21/09/2017, Argentieri, Rv. 271952; Sez. 5, n. 4977 del 08/1072009, Finocchiaro, Rv. 245581).
Che la premeditazione per entrambi i delitti riguardi anche D., il giudice del rinvio lo desume anche dalle condotte materiali poste in essere, individuate nella partecipazione all'acquisto delle manette durante il pomeriggio del (OMISSIS), che serviranno nel corso dell'esecuzione di M.S., e nella messa a disposizione della propria autovettura utilizzata per raggiungere N.L. a (OMISSIS), circostanze indicative della piena condivisione da parte dell'imputato dell'intero piano progettato da D., che aveva come obiettivo ultimo l'uccisione di N., per la cui realizzazione si doveva attrarre M. in una trappola per poi eliminarlo.
Rispetto a questi elementi la circostanza della mancata partecipazione di D. ai sopralluoghi per individuare dove occultare il cadavere di M., su cui insiste la difesa per escludere l'aggravante, non viene ritenuta significativa dalla sentenza impugnata che motiva correttamente la sussistenza della premeditazione prendendo in esame la complessiva condotta dell'imputato.
La difesa per escludere l'aggravante in esame utilizza l'ulteriore argomento secondo cui D. non avrebbe mai ucciso N.L. - di cui era innamorato - se questa avesse deciso di ritornare a casa con lui. Invero, si tratta di affermazione che non trova alcun riscontro nelle condotte di D. e del suo clan familiare, anzi risulta smentita dalla contrapposta ricostruzione fornita dalla sentenza impugnata, secondo cui tutto viene organizzato per arrivare alla eliminazione fisica della donna.
Nè può assumere significato, per escludere la premeditazione, il fatto che, sempre secondo la difesa, D. non si sarebbe dimostrato particolarmente scaltro e accorto nelle sue azioni, avendo disseminato una serie di tracce che hanno consentito di risalire a lui e a S. come gli autori delle telefonate fatte a M., in quanto tali defaillance non possono certo valere ad annullare l'aggravante in questione.
Infine, la tesi secondo cui non può parlarsi di premeditazione, perchè le reazioni violente di D. sarebbero state determinate dalla inaspettata visione di foto e video di N.L. in atteggiamenti intimi con il M., trova una puntuale smentita - secondo quanto sottolineato più volte dalla Corte di assise di appello - nell'acquisto che il gruppo fece nel pomeriggio del (OMISSIS) delle manette e, soprattutto, nel sopralluogo eseguito qualche giorno prima presso la (OMISSIS), dove poi il corpo di M. venne effettivamente occultato.
Per quanto riguarda la ritenuta predeterminazione dell'omicidio di N., oltre quanto si è già detto, la sentenza mette in evidenza l'acquisto del coltello con cui poi la donna verrà uccisa.
Infine, il tentativo difensivo con cui si nega la volontà predeterminata di uccidere solo perchè D., prima di scendere dall'auto per recarsi all'appuntamento-trabochetto, disse a S. e a R. come si sarebbero dovuti disporre sui sedili della Lancia Y10 una volta tornato con L., non consente di escludere affatto la determinazione di uccidere la donna, che rimane l'obiettivo finale sia di D. che di D..
19. Anche riguardo alla sussistenza dell'aggravante del nesso teleologico la sentenza è immune da censure.
Le deduzioni difensive contenute nel ricorso, secondo cui l'uccisione di M. non era necessaria al fine di commettere l'omicidio di N.L., non tengono conto della motivazione che, come si è detto, sottolinea da un lato l'utilizzo strumentale di M. per arrivare a N., dall'altro la premeditazione e la successiva uccisione dell'uomo per evitare che potesse avvisare la donna e allo stesso tempo fornire informazioni agli inquirenti. Sul punto il motivo si limita ad una mera e apodittica contestazione.
20. Infine, infondato è anche il motivo con cui si censura la sentenza per non aver concesso le circostanze attenuanti generiche.
Sul punto la motivazione, con argomenti logici, spiega le ragioni per cui non si è ritenuto di applicare l'attenuante: condividendo il giudizio che il primo giudice ha dato alla condotta di D., la Corte di appello lo estende anche a D., con riferimento alla estrema gravità e disumanità dei fatti commessi e alla sua partecipazione materiale all'omicidio di M., eliminato con indicibili sofferenze e con una estrema indifferenza, considerato "uno strumento necessario per rintracciare N., da eliminare subito dopo l'uso, al fine di evitare intralci alla realizzazione dell'obiettivo primario".
Viene preso in considerazione anche l'atteggiamento processuale dell'imputato, improntato a reticenza ed ambiguità, valutazione che deve ritenersi legittima ai fini del giudizio sull'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto, fermo restando che il pieno esercizio del diritto di difesa giustifica sia il silenzio che la menzogna dell'imputato, ciò non autorizza a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento (Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, Biondi, Rv. 253152).
Si tratta di una valutazione di merito che ha portato la Corte di rinvio a negare le circostanze attenuanti generiche sulla base di un giudizio che in questa sede non merita le censure dedotte nel ricorso, in quanto adeguatamente motivato sulla base di differenti profili, nel rispetto dei parametri legislativi come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità.
21. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali e la conferma delle statuizioni civili.
Inoltre, D.S. va condannato anche al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, M.B., M.S. e R.E., ammesse al patrocinio a spese dello Stato e assistite dall'avvocato Alessandro Buzzoni, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di assise d'appello di Bologna con separato decreto di pagamento, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 disponendo il pagamento in favore dello Stato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato e assistite dall'avvocato Alessandro Buzzoni, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di assise d'appello di Bologna con separato decreto di pagamento, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di R.R., ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 5.
Così deciso in Roma, il 30 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2022
08-04-2022 02:59
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