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Sentenza

Il risarcimento del danno nel caso di morte, ferimento e maltrattamento dell'animale di compagnia.
Il risarcimento del danno nel caso di morte, ferimento e maltrattamento dell'animale di compagnia.
Animale d'affezione o di compagnia: profili sociali e tutela giuridica ( da Guida al Diritto Sole 24 ore)
Nella coscienza sociale il ruolo rivestito dagli animali accanto all'uomo può ormai essere riconosciuto come "familiare", cioè sempre più intimo e profondo, ricco di valenze similari a quelle normalmente attribuite a un parente o a un congiunto. Ciò va di pari passo con la progressiva consapevolezza che l'animale non è solo uno strumento nelle mani e al servizio dell'uomo, ma possiede un proprio valore intrinseco soggettivo, che nella relazione si esprime congiuntamente a una innegabile personalità individuale e, in quanto tale, merita tutela. Ma anche con la richiesta, da parte dell'uomo, che tale tutela sia estesa anche a chi, avendone goduto in qualità di compagno di una vita, di questo valore dovesse essere, ingiustamente, privato. Ovvero il proprietario dell'animale che dovesse vederselo "strappato". 

L'opinione comune, insomma, è sempre meno disposta ad accettare passivamente che l'animale subisca un danno e che questo resti impunito, soprattutto quando trattasi di animale familiare, e pretende anzi che, qualora il danno produca oltre alla lesione a carico dell'animale anche la rottura del legame affettivo con l'uomo, anche quest'ultimo sia salvaguardato insieme all'animale stesso. Si comprende, dunque, come sempre più spesso si avanzino richieste di riconoscere una ipotesi di risarcimento in capo a colui il cui sentimento per l'animale venga concretamente leso. 

A seguito di morte, di maltrattamento o di un danno recante gravi ripercussioni invalidanti, l'uomo vive il senso della perdita dell'animale o almeno della possibilità di rapportarsi con esso nel modo che gli era consueto, con il convincimento di aver subito a sua volta una lesione incidente, se non sulla sua integrità psico-fisica, almeno sulla sua qualità di vita. 

Vedremo, quindi, in che modo l'ordinamento risponde a tale istanza.
Definizione di animale d'affezione o compagnia nell'ordinamento sovranazionale e interno 

Nel trattare l'argomento è necessario premettere, a livello metodologico, l'aspetto definitorio della nozione di animale d'affezione e di compagnia, concetto a elevato contenuto etico, e in quanto tale suscettibile delle più disparate interpretazioni in funzione delle sensibilità di coloro che di volta in volta si trovano a occuparsene. 

Le norme più significative in materia di animali in genere e, in particolare, di animali d'affezione, si rinvengono, anzitutto, a livello europeo. 

In tale sede, il primo atto di rilievo che si incontra è rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti degli animali, firmata a Parigi presso l'Unesco, il 15 ottobre 1978, che dopo aver proclamato in modo sintetico, ma chiarissimo, una serie di diritti di tutti gli animali (quali il diritto a una esistenza dignitosa, a non essere sottoposti a maltrattamenti e a vivere in modo consono alle proprie attitudini) aggiunge: «ogni animale che l'uomo ha scelto per compagno ha diritto a una durata della vita conforme alla sua naturale longevità» (art. 6). In questa definizione risiede la base fondamentale della definizione dell'animale d'affezione, per quello che interessa ai fini della presente trattazione: ovvero un essere vivente destinato, cioè, a essere non una cosa posseduta dall'uomo e a questi tuttalpiù utile come strumento di lavoro o mezzo di nutrimento, ma a divenire il co-protagonista di un rapporto di natura propriamente affettiva con l'essere umano, tendenzialmente destinato a protrarsi per l'intera durata delle vita. 

Qualche anno dopo, il 13 novembre 1987, un ulteriore passo avanti fu fatto attraverso la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, di cui l'Italia fu uno dei primi firmatari (per poi però attuarla, come vedremo, con oltre vent'anni anni di ritardo). La convenzione, dopo aver affermato «l'importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società», definisce tale genere di animale come «ogni animale tenuto, o destinato a essere tenuto dall'uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per suo diletto e compagnia» (art. 1), che presenta alcuni diritti fondamentali, tra cui il diritto a non subire inutilmente «dolori, sofferenze o angosce» e quello a non essere abbandonato (art. 3); la persona che se ne occupi è considerata «responsabile della sua salute e del suo benessere», dovendo all'uopo fornire all'animale-compagno, oltre al sostentamento, anche «cure e attenzione» (art. 4). 
L'ultimo dato normativo europeo cui è necessario accennare è il Trattato di Lisbona (che modifica il trattato sull'Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea del 13 dicembre 2007). Tale trattato ha significativamente definito gli animali in termini di «esseri senzienti» (art. 13 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). 

Anche in ambito nazionale non sono mancati interventi normativi di rilievo sul tema in esame, peraltro inquadrabili in una corrente culturale progressivamente sempre più attenta alla complessità del delicato rapporto tra uomo e animali. 

Tra gli elementi significativi di tale sviluppo normativo, si veda, anzitutto, l'art. 1 della legge 14 agosto 1991, n. 281 (legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, cui ha fatto seguito una significativa normativa anche di livello regionale), secondo cui «lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti e il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente». Si rammenti, poi, la legge 20 luglio 2004, n. 189 (disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate), che ha introdotto nel c.p. il titolo IX bis , significativamente intitolato «dei delitti contro il sentimento per gli animali» e ha previsto, altresì, le fattispecie criminose di uccisione e maltrattamento di animali (artt. 544 bis e 544 ter c.p.), oltre a una nutrita serie di significative ulteriori norme in materia. A essa ha fatto, infine, seguito la legge 4 novembre 2010, n. 201, recante ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, normativa di attuazione che è intervenuta ulteriormente sulla disciplina penale e amministrativa della materia in esame. 

Tirando le somme di quanto si è venuto sin qui esaminando, e alla luce delle linee interpretative che sono emerse, può definirsi "animale d'affezione" quel particolare tipo di animale idoneo a instaurare con l'uomo un rapporto "comunitario" ovverosia consistente in uno scambio affettivo biunivoco, che non esclude risvolti di natura lavorativo/professionale; avente, in considerazione di ciò, durata indeterminata e tendenzialmente ricollegata al ciclo vitale dei protagonisti del rapporto stesso. Un rapporto che, per le sue caratteristiche, l'ordinamento considera giuridicamente rilevante. 
Giurisprudenza e dottrina anteriori al 2008 

Orbene, l'aspetto patrimoniale del pregiudizio subito dall'uomo in caso di perdita o maltrattamento dell'animale d'affezione in esame sembra generare davvero pochi problemi: il valore dell'animale defunto, la mancanza di prestazioni patrimoniali attese da quello ucciso o gravemente lesionato, le spese incontrate per assicuragli cure mediche ecc., sono voci delle quali si tende istintivamente ad ammettere il ristoro, posto che si ricollegano al tradizionale concetto di animale quale res e al rapporto di proprietà/utilità che lo lega all'uomo/proprietario. Viceversa è ben più complesso il ragionamento relativamente al pregiudizio non patrimoniale lamentato dall'uomo per la perdita o la grave lesione del proprio animale sotto un profilo morale/esistenziale. 

In particolare, tale pregiudizio, prima delle pronunzie di legittimità a Sezioni Unite del 2008 di cui si dirà più avanti, appariva, ai più, danno pacificamente risarcibile. 

La dottrina e la giurisprudenza che si erano occupate del tema, pur non frequentemente riscontrabile all'interno delle aule di giustizia nostrane, risultavano, infatti, orientate in senso favorevole alla sua ammissione, anche se con argomentazioni a volte difformi, con riferimento, in particolare, alla individuazione della voce di danno alla quale ascrivere il pregiudizio indicato. 

D'altronde, trattavasi di tematica da tempo esaminata, con risposta affermativa, dalle Corti di altri Paesi, europei e non, e si riteneva, pertanto, scontato che anche da noi la soluzione dovesse essere in linea con quella offerta in ordinamenti con i quali si tende a riscontrare analogia di vedute nel settore del danno non patrimoniale. 
Una prima, isolata, nonché lontana decisione si rinviene proprio nella giurisprudenza della Suprema Corte, in ambito penale, nella quale si afferma che «La uccisione di alcuni animali da cortile da parte di un cane determina oltre che un danno patrimoniale anche un danno morale risarcibile» (Cass. pen. 17 ottobre 1968, n. 824). Diversi anni dopo, la Pretura di Rovereto, anch'essa sempre nell'ambito di un giudizio penale, statuisce che «L'atto illecito che determina la malattia o la morte di un animale di compagnia è fatto produttivo di danni morali nei confronti di chi lo accudiva e ne aveva cura, in ragione del coinvolgimento in termini affettivi che la relazione tra l'uomo e l'animale domestico comporta, dell'efficacia di completamento e arricchimento della personalità dell'uomo e quindi dei sentimenti di privazione e di sofferenza psichica indotti dal comportamento illecito» (Pretore di Rovereto 15 giugno 1994). La fattispecie sottoposta all'esame del giudicante riguardava, in questo caso, il procedimento instauratosi nei confronti di un soggetto che, in considerazione di pregressi litigi di ambito familiare, aveva, volontariamente, investito e ucciso l'animale della nipote. La decisione appare pregevole anche laddove affronta il tema legato alla individuazione del soggetto legittimato al risarcimento del danno. Nel dictum, infatti, il danno viene riconosciuto in favore della ragazza che, seppur non iscritta come tale alla anagrafe canina, era colei che si era da sempre occupata dell'animale. Si afferma, in particolare, che la qualità di proprietario di un animale d'affezione debba essere ricercata sulla base di indici di natura concreta in grado di evidenziare l'esercizio da parte di una o più persone di un potere di governo e delle relative cure; non risultando, pertanto, decisiva, al fine di individuare il titolare di un diritto reale sul cane, la registrazione dello stesso presso la cosiddetta "anagrafe canina". 

A distanza di un anno, affronta nuovamente il tema il giudice conciliatore di Udine (Conciliatore di Udine 9 marzo 1995). Il giudice onorario si trova a esaminare il caso di una gattina deceduta a seguito dell'investimento da parte di una vettura avvenuto nel cortile interno dell'abitazione della sua padrona. Il decidente accoglie la domanda di rifusione del pregiudizio. Lo stesso, peraltro, per tentare di arginare le strette maglie del danno morale, ritiene che il pregiudizio patito dalla donna sia riconducibile al danno biologico, che liquida, seppur in maniera equitativa e, come dallo stesso giudicante ammesso, simbolica, in lire 50.000. Le conclusioni raggiunte dal Pretore trentino vengono ribadite nel 2001 dalla stessa Cassazione (Cass. civ., Sez. III, 3 agosto 2001, n. 10679). 

Con altra più nota decisione, il Tribunale di Roma (chiamato a esaminare l'ipotesi di uno yorkshire che, incappato in una rissa con ben due pitbull, aveva perso la vita) aveva negato ingresso al risarcimento, affermando, tuttavia, la indubbia rilevanza del danno esistenziale, non risarcito solo in considerazione della totale assenza di allegazioni sul punto (Trib. Roma 17 aprile 2002). Si legge in particolare che «la relazione affettiva con/per l'animale può avere rilevanza sul piano della tutela aquiliana, potendo richiedere che questa si estenda al risarcimento del danno non patrimoniale patito in conseguenza della perdita di un affetto che può essere annoverato tra i beni della personalità. Come è stato osservato in dottrina, la rilevanza autonoma della relazione affettiva può separare la posizione risarcitoria del proprietario da quella del "padrone" dell'animale: nel caso di uccisione di animali senza valore, nulla può essere dovuto al proprietario, ma molto può essere dovuto al "padrone" dell'animale. Le conclusioni raggiunte, del resto, non sono nuove in giurisprudenza, anche se la lesione subita per effetto della rottura del legame affettivo con l'animale è stata per quanto consta ricondotta, con qualche forzatura, nell'ambito del danno morale o di quello biologico». 

Anche la dottrina che si è occupata del tema in data antecedente alla decisione delle Sezioni Unite del novembre 2008, appariva anch'essa orientata in senso favorevole alla ammissione di detta voce di danno, seppur con argomentazioni a volte difformi, con riferimento, in particolare, alla individuazione della voce alla quale ascrivere il pregiudizio indicato. 

Più in dettaglio, si era osservato: che le critiche di stampo moralistico alle pronunce che riconoscevano tale forma di danno venivano superate dal numero sempre crescente di animali da compagnia e dal mutato atteggiamento in genere nei confronti degli esseri non umani; che il diritto e la giurisprudenza si erano evoluti per quanto riguarda i rapporti interpersonali diversi da quelli tradizionali; che la concessione del risarcimento per danni affettivi per l'uccisione di un animale non avrebbe aperto la strada a un analogo diritto al risarcimento in caso di danneggiamento o distruzione di un oggetto particolarmente caro, atteso che la relazione affettiva tra uomo e animale nasceva da un rapporto bilaterale con un essere sensibile, essendo quindi molto diversa dalla relazione con una cosa. 
Sotto il profilo della responsabilità civile, poi, si rilevava che il danno de quo era risentito per la perdita di un affetto da annoverarsi tra i beni della personalità. Tale rilevanza veniva quindi a separare la posizione risarcitoria del proprietario da quella del padrone dell'animale: non il primo, ma il secondo, che instaura la relazione con l'animale, aveva quindi diritto a ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. 

Ancora, si è osservato come il danno fosse necessariamente di tipo non patrimoniale, ma altresì non biologico; derivante, cioè, dal generico stato di angoscia della vittima, riconducibile alla perdita, senza rinvio alla sussistenza di alcuna specifica patologia. All'alba della decisione delle Sezioni Unite, quindi, non solo la giurisprudenza, ma anche la dottrina che si era occupata della tematica non aveva dubbi nel riconoscere la risarcibilità del pregiudizio in esame. 
Pronunzie a Sezioni Unite del 2008
e negazione del danno non patrimoniale 

La temperie appena sopra descritta subisce già una prima battuta d'arresto nel 2007, con una pronunzia del Supremo Collegio che, in relazione al danno causato a una coppia proprietaria di un cavallo deceduto in seguito a un incidente stradale, così affermava: «la perdita del cavallo in questione, come animale da affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta. La parte che domanda la tutela di tale danno, ha l'onere della prova sia per l' an che per il quantum debeatur , e non appare sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa , con il generico riferimento alla perdita delle qualità della vita. Inoltre la specifica deduzione del danno esistenziale impedisce di considerare la perdita, sotto un profilo diverso del danno patrimoniale (già risarcito) o del danno morale soggettivo e transeunte» (Cass. civ., Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14846). 

Tale mutato atteggiamento viene poi compiutamente espresso con ben quattro sentenze gemelle, pronunziate dalla Corte nomofilattica a Sezioni Unite l'11 novembre 2008, note come le decisioni di San Martino: gli ermellini, pronunziandosi sul danno riconducibile alla sofferenza umana patita a seguito della perdita dell'animale d'affezione, sono infatti giunti alla negazione, totale, di tale forma di danno, ritenuto di natura c.d. bagatellare (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975). 

La Corte, in particolare, individua tre ipotesi nelle quali, a suo avviso, il danno non patrimoniale può trovare ingresso nell'ordinamento: 

a. in ipotesi di fatto costituente reato, atteso il tradizionale collegamento della norma di cui all'art. 2059 c.c. con quella di cui all'art. 185 c.p.; 

b. in caso di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non patrimoniale; 

c. in presenza di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. 

In tale ultima ipotesi, peraltro, la selezione del danno viene a essere svolta dal giudice, con valutazione che non può prescindere dalla individuazione della sussistenza degli elementi strutturali dell'art. 2043 c.c., condotta, danno e nesso causale. 

Proprio nella consapevolezza del potere discrezionale del giudice nella individuazione di tali diritti, e in particolare, nella consapevolezza della capacita` dilatatoria delle previsioni di cui all'art. 2 della Costituzione, la Corte, dopo aver censurato l'indiscriminato riconoscimento di tutela concesso sia dai giudici di merito, sia dalle stesse sezioni semplici, connesso al riconoscimento di un non riconoscibile e non tutelabile diritto alla felicità, ha precisato quali siano i confini entro i quali il giudice, nell'esercizio del detto potere debba attenersi. 

Si afferma, così, che il diritto debba essere inciso oltre una certa soglia minima, come tale in grado di cagionare un serio pregiudizio e che la lesione ecceda una soglia minima di offensività. Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. 
Viene precisato, pertanto, che ogni pregiudizio di tipo esistenziale risulta risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno, mentre non risulta possibile riconoscere tutela risarcitoria se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona. 

In particolare, per quel che attiene ai danni, tradizionalmente individuati come bagatellari, la Corte afferma espressamente che «Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, e a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal blackout elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia». 

Orbene, siffatta autorevole e inequivoca lettura della questione da parte delle Sezioni Unite è stata conseguentemente recepita da buona parte della giurisprudenza di merito che, conformandosi al dictum degli ermellini, ha coerentemente applicato ai vari casi concreti il principio secondo cui la lesione dell'interesse d'affezione per il proprio animale non sarebbe riconducibile all'offesa di alcun diritto inviolabile della persona costituzionalmente garantito, né vincerebbe il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno posto quale limite per l'applicazione dell'art. 2059 c.c. (Tribunale di Rieti, civ., 4 maggio 2019, n. 347; Trib. Milano 30 giugno 2014, Trib. S. Angelo dei Lombardi 12 gennaio 2011, Trib. Milano 20 luglio 2010). 

In tal senso, si è di recente pronunciata anche la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale evidenzia che non è riconducibile ad alcuna categoria di danno non patrimoniale risarcibile la perdita di un animale di affezione a seguito di un fatto illecito, in quanto essa non è qualificabile come danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, non potendo essere sufficiente, a tal fine, la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita della qualità della vita. (Cassazione civ., ord. 23 ottobre 2018, n. 26770)

Premesso pertanto, che, quanto meno per quel che attiene alla morte ovvero al maltrattamento dell'animale da affezione riconducibile a fatto reato ex art. 544 bis e ter c.p., vi e` una indubbia copertura normativa, atta, pertanto, a ricondurre la risarcibilità nei limiti di cui all'art. 2059 c.c., occorre interrogarsi circa la residua possibilità di individuare un fondamento di tutela per quel che attiene alla morte o maltrattamento non riconducibile a fatto reato. 
Recupero della prospettiva di danno non patrimoniale nell'orientamento minoritario della giurisprudenza 

Come appena visto, quindi, dal 2008 in poi il danno non patrimoniale da morte o maltrattamento dell'animale d'affezione non derivante da reato non è più stato considerato risarcibile. All'interno di tale ridisegnato quadro, le Sezione Unite hanno perciò stabilito che il rapporto tra uomo e animale è privo, nell'attuale assetto ordinamentale, di copertura costituzionale. Conseguentemente sembra essersi verificato un vuoto di tutela rispetto a pregiudizi che, secondo l'odierna coscienza sociale, invece la meriterebbero. Proprio sulla spinta di questo sentire comune, si sono parallelamente attestate diverse pronunzie in senso difforme. 

Già in data immediatamente successiva alle sentenze di San Martino, lo stesso Supremo Collegio, seppur a sezione semplice, pone in dubbio il principio affermato dalle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. III, 25 febbraio 2009, n. 4493). 

In particolare la Corte, trovatasi a statuire sulla richiesta risarcitoria del padrone di un gattino deceduto a seguito dell' inadempiente prestazione professionale svolta da una clinica veterinaria, conferma la decisione di merito che aveva riconosciuto all'attore il danno non patrimoniale da questi patito, utilizzando un escamotage. In particolare, il ricorso era svolto avverso una decisione del giudice di pace pronunciata secondo equità. Afferma la Corte che «Nel giudizio secondo equità rimesso dal comma 2 dell'art. 113 c.p.c. al giudice di pace, venendo in rilievo l'equità c.d. "formativa" o "sostitutiva" della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, prevista dall'art. 2059 c.c., sia pure nell'interpretazione costituzionalmente corretta di tale disposizione. Ne consegue che il giudice di pace, nell'ambito del solo giudizio d'equità, può disporre il risarcimento del danno non patrimoniale anche fuori dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti, sempre che il danneggiato abbia allegato e provato (anche attraverso presunzioni) il pregiudizio subito, essendo da escludere che il danno non patrimoniale rappresenti una conseguenza automatica dell'illecito». 
Tale decisione è, quindi, decisamente eversiva non soltanto perché ammette la risarcibilità di un simile danno, ma perché riconosce al giudice di pace la facoltà di decidere, nell'ambito del giudizio equitativo, senza tener conto della lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. che, come visto, rappresenta senza possibilità di equivoci un principio informatore della materia al quale il giudicante deve attenersi anche nelle cause di modesto valore. 

Non solo. Non sono mancate diverse pronunce di merito che hanno disatteso l'indirizzo dettato dalla Corte Nomofilattica a Sezioni Unite, affermando, anche se in modi diversi, la piena rilevanza costituzionale della relazione uomo-animale d'affezione. 

Così, ad esempio, Tribunale di Monopoli 22 novembre 2011, giunge a garantire protezione al rapporto sopra citato per il tramite della tutela riconosciuta dalla Carta Fondamentale al diritto di proprietà (art. 42 Costituzione), di cui la relazione uomo-animale altro non sarebbe se non una particolare espressione. 

Osserva il decidente che «il danno maggiore che patisce il proprietario di un cane con il quale v'è un rapporto affettivo consolidato, che emerga nel corso del processo, non è certo quello legato alla perdita del valore commerciale dello stesso, o alle spese veterinarie eventualmente sostenute, bensì quello relativo alla perdita di godimento del cane in termini affettivi». 

Ancora, Tribunale di Rovereto 18 ottobre 2009, ha sottoposto ad aperto vaglio critico le conclusioni delle sentenze di San Martino, valorizzando il richiamo alla lesione del diritto inviolabile della persona allo svolgimento della propria personalità, ai sensi dell'art. 2 Costituzione, in armonia con i contenuti della legge quadro in materia di animali di affezione (legge 14 agosto 1991, n. 281). Decisione, questa, cui ha fatto eco, di recente, Tribunale di Reggio Calabria 6 giugno 2013, secondo cui «appare arduo sostenere che il rapporto d'affetto tra uomo e animale, alla luce del mutato contesto sociale, non abbia copertura costituzionale (…) il rapporto con l'animale non può essere paragonato a quello con una cosa, trattandosi di una relazione con un essere vivente che dà e riceve affetto (…) il rilievo attribuito alla dimensione degli affetti, qualificata come attività realizzatrice della persona, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 13 Costituzione, ben possa portare al riconoscimento e al risarcimento del danno riconducibile alla perdita dell'animale d'affezione ogniqualvolta si alleghi e si provi in giudizio che il leso proprio attraverso la cura dell'animale veniva a realizzare la propria esistenza». 

Un serie di pronunzie succesive, pongono, poi, pone l'accento sul coordinamento e la coerenza con il quadro normativo sovranazionale e con le novità legislative interne. In tal senso Tribunale di Varese decreto 7 dicembre 2011, a mente del quale: «Il sentimento per gli animali ha protezione costituzionale e riconoscimento europeo cosicché deve essere riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo all'animale da compagnia; diritto che, quindi, va riconosciuto anche in capo all'anziano soggetto vulnerabile dove, ad esempio, tale soggetto esprima, fortemente, la voglia e il desiderio di continuare a poter frequentare il proprio cane anche dopo il ricovero in struttura sanitaria assistenziale. Il giudice tutelare deve garantire la tutela e il riconoscimento del rapporto tra l'anziano e l'animale». A cui ha fatto eco Tribunale di Milano decreto 13 marzo 2013, secondo cui: «un'interpretazione evolutiva e orientata delle norme vigenti, impone di ritenere che l'animale non possa essere più collocato nell'area semantica concettuale delle "cose", secondo l'impostazione tralaticia ma debba essere riconosciuto come "essere senziente" (v. Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull'Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007). Non essendo l'animale una "cosa" (v. ad esempio, art. 923 c.c.), bensì un essere senziente, è legittima facoltà dei coniugi quella di regolarne la permanenza presso l'una o l'altra abitazione e le modalità che ciascuno dei proprietari deve seguire per il mantenimento dello stesso». 

In conformità con tale orientamento, si è di recente pronunciata parte della giurisprudenza di merito, secondo la quale il danno derivante dal dolore per la perdita dell'animale da compagna è risarcibile in quanto il rapporto tra padrone ed animale d'affezione è, di fatto, una relazione tra esseri viventi che, in particolare, costituisce occasione di completamento e sviluppo della personalità individuale e, quindi, come vero e proprio bene della persona, tutelato ex art. 2 Cost. (Tribunale di La Spezia, civ., 31 dicembre 2020, n. 660; Tribunale di Brescia, Sez. II civ., 22 ottobre 2019, n. 2841).
 Considerazioni conclusive 

Tirando le fila di questo excursus sulla considerazione riservata dalla giurisprudenza all'animale d'affezione, con riferimento alla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di morte o maltrattamento, si evidenzia un sorprendente quanto inspiegabile contrasto tra l'orientamento espresso dai giudici di legittimità e le più recenti posizioni sostenute, invece, dai giudici di merito. In un contesto in cui il dictum del Supremo Collegio pare, ancora oggi, non ammettere interpretazioni difformi, l'azione della giurisprudenza di merito, anche se non unanimemente, sembra quindi fungere da importante e crescente input per un autorevole ripensamento da parte della Corte Nomofilattica, idoneo a smentire interpretazioni riduttive in tema di rapporto tra uomo e animale di affezione.
Avv. Antonino Sugamele

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