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Sentenza

Cedu. Illegittimo sequestrare i dati dello smartphone riguardanti SMS ed e-mail tra cliente ed avvocato
Cedu. Illegittimo sequestrare i dati dello smartphone riguardanti SMS ed e-mail tra cliente ed avvocato
Corte europea diritti dell'uomo, sezione V, sentenza 17 dicembre 2020, n. 459/18
Pronunciandosi su un caso "norvegese" in cui si discuteva della legittimità della decisione dell'autorità giudiziaria di respingere i ricorsi proposto dal ricorrente che si era lamentato della violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza per essergli stato sequestrato un cellulare contenente una serie di messaggi con due suoi avvocati che lo assistevano in un procedimento penale, la Corte EDU, ha ritenuto (sentenza 17 dicembre 2020, n. 459/18), a maggioranza (sei voti contro uno), che vi fosse stata la violazione dell'art. 8 (diritto al rispetto della corrispondenza), della Convenzione EDU. Il caso era stato originato dalla contestata violazione del privilegio avvocato-cliente e da una controversia giuridica sullo smartphone che era stato oggetto di perquisizione e sequestro da parte della polizia nel contesto di un'indagine penale contro due persone che intendevano ucciderlo. La polizia voleva perquisire il telefono al fine di far luce su possibili contrasti tra i sospettati e il ricorrente. Il ricorrente aveva sostenuto che il suo telefono conteneva corrispondenza e-mail e SMS con due avvocati che lo difendevano in un altro procedimento penale, in cui il ricorrente era sospettato, procedimento conclusosi con la sua assoluzione nel 2019. Nonostante le rassicurazioni che, prima della copia informatica, i dati dovevano essere verificati dall'autorità giudiziaria e quelli protetti dal "privilegio professionale" legale, dovevano essere rimossi prima che la polizia procedesse all'accertamento del contenuto, i "patti" non erano stati rispettati. Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente si era perciò lamentato del fatto che il procedimento relativo alla perquisizione ed al sequestro dei dati dal suo smartphone, che aveva reso possibile l'accesso alla corrispondenza intercorsa tra lui ed i suoi avvocati, aveva violato i suoi diritti, in particolare ai sensi dell'articolo 8 (diritto al rispetto della corrispondenza) della Convenzione europea. La Corte nell'accogliere le doglianze del ricorrente, ha ritenuto violato l'art. 8 CEDU, osservando come la mancanza di prevedibilità nel caso di specie, dovuta alla mancanza di chiarezza del quadro giuridico e alla mancanza di garanzie procedurali relative concretamente alla tutela del c.d. privilegio legale professionale, era già al di sotto dei requisiti derivanti dal criterio che l'ingerenza deve essere conforme alla legge ai sensi dell'articolo 8 § 2 della Convenzione, non essendo quindi necessario per la Corte il controllo del rispetto degli altri requisiti previsti da tale disposizione.
di Alessio Scarcella - Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

Il caso

Il caso, deciso il 17 dicembre u.s., traeva origine da un ricorso (n. 459/18) contro la Norvegia, presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo, ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione e.d.u., da Mohammed Imran Sabre, un cittadino norvegese residente ad Oslo.

Il caso riguardava il c.d. privilegio avvocato-cliente, originato da una controversia legale sullo smartphone del ricorrente che era stato perquisito e che aveva portato al sequestro dell'apparato da parte della polizia. Lo smartphone del ricorrente, in particolare, era stato sequestrato dalla polizia il 23 novembre 2015 nel contesto di un'indagine penale contro due persone sospettate di aver posto in essere un piano per ucciderlo. La polizia voleva svolgere alcuni accertamenti sul telefono al fine di far luce su possibili contrasti tra i sospettati e il ricorrente.

Il ricorrente aveva però precisato che il suo telefono conteneva corrispondenza e-mail e SMS con due avvocati che lo stavano difendendo in un altro procedimento penale, in cui era sospettato (procedimento che si era concluso con la sua assoluzione nel 2019). La polizia e il ricorrente avevano quindi concordato che prima che i dati fossero copiati dal suo telefono, avrebbero dovuto essere controllati dall'autorità giudiziaria e che tutti i dati protetti dal "privilegio professionale legale" dovevano essere rimossi prima che la polizia potesse accedere al telefono per eseguire gli accertamenti.

Il tribunale di Oslo aveva quindi provveduto a far eseguire la cernita dei dati contenuti nel telefono, nonostante il disaccordo sulle modalità con le quali tribunale avrebbe potuto occuparsene in termini pratici, ivi inclusa la questione se l'autorità giudiziaria potessero o meno chiedere assistenza alla polizia per tali operazioni. Nelle more, però, il tribunale aveva abbandonato la procedura di cernita e selezione perché la Corte suprema aveva nel frattempo pronunciato una decisione - estranea al caso che vedeva coinvolto il ricorrente – nella quale aveva stabilito che in effetti avrebbe dovuto essere incaricata la polizia.

Tutti i suoi successivi appelli, fino all'ultimo grado di giudizio tenutosi davanti alla Corte Suprema nel giugno 2017, erano stati vani.

La copia dei dati del telefono del ricorrente era stata restituita alla polizia per gli accertamenti e la polizia aveva pubblicato, in tale contesto, una relazione il 9 novembre 2017.

Il ricorso e le norme violate

Rivolgendosi alla Corte di Strasburgo, basandosi, in particolare, sull'articolo 8 (diritto alla segretezza della corrispondenza) della CEDU, il ricorrente si era lamentato del fatto che il procedimento relativo alla perquisizione e al sequestro dei dati contenuti nel suo smartphone, che aveva agevolato l'accesso alla corrispondenza intercorsa tra lui ed i suoi avvocati, aveva violato i suoi diritti, in particolare quello al rispetto della corrispondenza, tutelato dall'art. 8 della Convenzione europea.

Il ricorso era stato presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo il 27 dicembre 2017.

La decisione della Corte di Strasburgo

La Corte si è occupata della questione centrale, ossia di giudicare se l'aver consentito alla polizia di effettuare un accertamento sui dati contenuti nel suo smartphone al fine di operare una cernita e una selezione di quelli che potevano essere esclusi dal sequestro in quanto coperti dal c.d. privilegio professionale legale, comportasse o meno una violazione dell'articolo 8 della Convenzione.

Il Governo ha ammesso che la perquisizione e il sequestro dello smartphone del ricorrente avevano costituito un'interferenza con il diritto al rispetto della sua corrispondenza ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione. Riguardo al fatto che l'interferenza fosse stata conforme alla legge, il Governo sosteneva che la perquisizione e il sequestro erano consentiti dal Codice di procedura penale e che la normativa era stata accessibile ed era prevedibile per il ricorrente. Le disposizioni pertinenti del codice di procedura penale erano state formulate con sufficiente precisione. Sebbene la legislazione pertinente non fosse stata applicata, come avvenuto nel caso di specie, fino alla decisione della Corte suprema del 16 gennaio 2017 resa in un procedimento che aveva interessato persona diversa dal ricorrente, i principi affermati in tale decisione non avevano contraddetto alcuna precedente sentenza della Corte suprema.

L'interpretazione giuridica si era sviluppata attraverso la giurisprudenza ed era essenziale che i tribunali nazionali fossero in grado di facilitare tale sviluppo al fine di garantire che la legge fosse applicata correttamente ai casi non specificamente trattati nella legislazione pertinente. Ciò era particolarmente vero in un caso come quello attuale, in cui la legislazione non aveva affrontato la questione in esame a causa di sviluppi tecnologici non previsti dai legislatori. Inoltre, il Governo ha sostenuto che la perquisizione e il sequestro dello smartphone del ricorrente avevano perseguito l'obiettivo legittimo di prevenire disordini e crimini ed erano stati necessari per ottenere prove nell'indagine penale in cui il ricorrente era la parte lesa. Il Governo aveva anche evidenziato che il codice di procedura penale conteneva adeguate ed efficaci salvaguardie contro gli abusi in materia di perquisizione e sequestro.

La cernita e selezione preliminare e la cancellazione dei dati coperti dal privilegio professionale legale erano stati effettuati da un agente di polizia che non era stato coinvolto nelle indagini sul caso in esame.

Il ricorrente aveva tuttavia sostenuto che la decisione della Corte Suprema nel caso di specie rappresentava una deviazione dalla prassi consolidata in termini di selezione e cernita dei dati soggetti a tale guarentigia, in modo tale che egli non poteva prevedere in misura ragionevole le conseguenze, né la normativa gli era stata resa accessibile. Inoltre, il ricorrente aveva sostenuto che la misura contestata non era necessaria in una società democratica perché la legislazione e la prassi pertinenti non gli avevano assicurato garanzie adeguate ed efficaci contro gli abusi. Il ricorrente aveva infine sostenuto che il caso non riguardava l'autorizzazione giudiziaria prima di un sequestro, ma la procedura relativa al sequestro di una serie di dati, in parte costituiti da informazioni esenti da sequestro, e come selezionare tali informazioni.

La Corte di Strasburgo ha osservato, anzitutto, che tra le parti era stato raggiunto un accordo sul fatto che la "copia speculare" del contenuto dello smartphone del ricorrente conteneva la corrispondenza intercorsa tra lui ed i suoi avvocati. Ha rilevato anche che il codice di procedura penale non contemplava alcuna disposizione espressa, originariamente finalizzata a stabilire la procedura per situazioni analoghe a quella in esame in cui poteva essere in gioco il c.d. privilegio legale professionale. C'era tuttavia un'intesa comune inizialmente raggiunta tra la polizia e il ricorrente la quale prevedeva che, al fine di garantire che tale privilegio non fosse compromesso, i dati informatici contenuti nella copia forense dovevano essere preliminarmente verificati dal tribunale e che quelli coperti dal privilegio professionale legale avrebbero dovuto essere rimossi prima che la polizia potesse verificare il contenuto dello smartphone.

La base giuridica per tale procedura era costituita dall'applicazione analogica dell'articolo 205 § 3 del codice di procedura penale. Il tribunale aveva quindi condiviso questa soluzione ed aveva proceduto di conseguenza al fine di eseguire l'operazione di selezione e cernita dei dati. Tuttavia, in assenza di regole espresse e specifiche in materia, vi era stato un successivo disaccordo su come il tribunale potesse agire in termini pratici, ivi inclusa la questione se potesse chiedere assistenza alla polizia.

Senonchè, mentre il tribunale stava procedendo a vagliare i dati coperti dal predetto "privilegio" nel caso che interessava il ricorrente, la Corte Suprema aveva adottato una decisione in un caso del tutto indipendente in cui il ricorrente non aveva avuto alcun ruolo, indicando che avrebbe dovuto essere– contrariamente all'ipotesi del ricorrente, della polizia e del tribunale - in effetti la polizia stessa a dover eseguire le selezione e la cernita dei dati, apparentemente perché la Corte Suprema aveva riscontrato che un'altra analogia, rispetto a quella fino ad allora ritenuta corretta nel caso di specie, era più pertinente, vale a dire l'applicazione analogica delle procedure relative ai dati di sorveglianza.

Dopo aver acquisito le opinioni delle persone coinvolte nel caso che vedeva coinvolto il ricorrente riguardo a quella nuova decisione, il tribunale aveva dunque concluso che, a causa delle nuove indicazioni della Corte Suprema, avrebbe dovuto revocare la propria decisione con cui aveva disposto la procedura di selezione e cernita dei dati, e inviare la copia informatica alla polizia affinché procedesse direttamente. Cosa che successivamente la polizia aveva eseguito, esaminandone il contenuto, come descritto nella relazione del 9 novembre 2017.

Alla luce di quanto sopra, la Corte EDU ha, in primo luogo, preso atto della circostanza che i procedimenti relativi alla cernita e selezione di dati coperti dal c.d. privilegio professionale legale in casi come quello in esame mancavano, ab origine, di una base giuridica certa nel codice di procedura penale, ciò che li rendeva passibili di controversie come quella che aveva fatto seguito alla decisione della Corte Suprema del 16 gennaio 2017. In secondo luogo, la forma effettiva del procedimento poteva difficilmente essere prevedibile per il ricorrente - nonostante gli fosse permesso di opporsi giudizialmente – tenuto conto del mutamento giurisprudenziale intervenuto che aveva comportato l'adozione di una diversa procedura in seguito alla decisione del 16 gennaio 2017. In terzo luogo, e soprattutto, la Corte EDU ha ritenuto che il Governo non avesse adeguatamente confutato l'affermazione del ricorrente secondo cui, successivamente alle conclusioni cui era pervenuta la Corte suprema nella decisione del 16 gennaio 2017, la polizia doveva esaminare essa stessa i supporti in cui erano contenuti dati in casi come quello in esame.

Decisione di applicare tali indicazioni al caso in corso di trattazione che vedeva coinvolto il ricorrente, diventata definitiva con la decisione della Corte Suprema del 30 giugno 2017. Ciò significava che non esistevano garanzie procedurali chiare e specifiche per impedire che il privilegio professionale legale venisse compromesso dalla verifica del contenuto della copia informatica del suo telefono.

La Corte Suprema non aveva dato alcuna istruzione su come la polizia avrebbe dovuto svolgere il compito di selezionare i dati ricompresi del privilegio professionale legale, a parte l'indicazione generica che i termini impiegati per la ricerca dovevano essere decisi previa consultazione con l'avvocato. Anche se la domanda presentata per preservare i dati coperti dal privilegio professionale legale, nel caso di specie, era in quanto tale indiscutibilmente valida, la copia informatica del contenuto dello smartphone era stata effettivamente restituita alla polizia per essere esaminata senza alcuno schema procedurale pratico a tale scopo. Per quanto riguarda la relazione del 9 novembre 2017, la stessa descriveva i dati cancellati nel caso del ricorrente, ma non indicava nemmeno una base o una forma chiara per la procedura. In questo contesto la Corte EDU ha sottolineato di aver rilevato come il Governo avesse effettivamente indicato le garanzie procedurali in atto relative alle perquisizioni e ai sequestri in generale.

La preoccupazione della Corte di Strasburgo si è, tuttavia, focalizzata sulla mancanza di un quadro stabilito per la protezione dei dati coperti dal privilegio professionale legale, in casi come quello in esame. Sul punto, la Corte ha osservato, per inciso che la Corte Suprema, nella sua decisione del 16 gennaio 2017, aveva anche sottolineato la mancanza di disposizioni adeguate per quelle situazioni in cui i dati coperti dal privilegio professionale legale fanno parte di file di dati archiviati digitalmente, ed aveva altresì indicato che sarebbe naturale disciplinare lo specifico problema sollevato nel caso di specie mediante disposizioni formali di legge.

La Corte EDU ha quindi rilevato che la questione sollevata nel caso in esame non era, in quanto tale, dovuta alle constatazioni della Corte suprema in quella causa, bensì derivava dalla mancanza di una regolamentazione adeguata, come sottolineato da tale supremo giudice.

Sebbene nel caso del ricorrente non fosse in vigore alcuna regolamentazione ad hoc, la Corte EDU ha ritenuto di non aver alcuna base per decidere se il privilegio legale professionale fosse stato effettivamente compromesso nel caso in esame, né il ricorrente aveva sostenuto che lo fosse stato. A giudizio della Corte, tuttavia, la mancanza di prevedibilità nel caso di specie, dovuta alla mancanza di chiarezza del quadro giuridico e alla mancanza di garanzie procedurali relative concretamente alla tutela dei dati coperti dal privilegio professionale legale, era già al di sotto dei requisiti derivanti dal criterio che l'ingerenza deve essere conforme alla legge ai sensi dell'articolo 8 § 2 della Convenzione. Dopo aver tratto tale conclusione, non ha quindi ritenuto necessario il controllo del rispetto degli altri requisiti previsti da tale disposizione. Alla luce di quanto sopra, la Corte ha conclusivamente rilevato che vi era stata una violazione dell'art. 8 CEDU.

I precedenti ed i possibili impatti pratico-operativi

Di particolare interesse la sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo nel caso in esame, con cui i giudici europei dei diritti umani sono stati chiamati a pronunciarsi su una questione di rilievo, attinente la legittimità dell'applicazione analogica delle regole previste dal codice di procedura penale per le operazioni ordinarie di perquisizione e sequestro a quelle operazioni rese necessarie dalle nuove acquisizioni tecnologiche, che oggi impongono sovente le c.d. perquisizioni informatiche di smartphone, tablet, dispositivi di memoria esterna, etc. Il caso esaminato dalla Corte EDU riguardava, come dianzi illustrato, l'esecuzione di operazioni di perquisizione e sequestro dei dati contenuti nella copia informatica di uno smartphone, tra cui ve ne erano alcuni che dovevano rimanere riservati in quanto contenenti corrispondenza (SMS ed e-mail) intercorsa tra il ricorrente e i suoi legali che lo difendevano in un procedimento penale che lo vedeva persona offesa.

Tra il ricorrente e la polizia era stato raggiunto un accordo di massima, basato sulla giurisprudenza applicabile fino a quel momento, secondo cui le operazioni di cernita e selezione dei dati contenuti nella copia informativa dello smartphone dovevano essere eseguite dal tribunale, essendovi contrasti circa la possibilità di delegare tali operazioni alla polizia. Nelle more, però, era intervenuta una decisione della Corte Suprema che, mutando la giurisprudenza fino a quel momento applicata in materia, aveva ritenuto che l'operazione di verifica dei dati informatici dovesse essere svolta dalla polizia, ciò che aveva determinato i giudici che si occupavano del caso del ricorrente, a revocare il provvedimento iniziale ed a delegare la polizia a tale incombenza.

La Corte, valutando complessivamente la questione, ha ritenuto che la incerta base giuridica su cui era stata eseguita l'attività di verifica del contenuto dei dati contenuti nella copia informatica dello smartphone, incertezza conseguente all'applicazione analogica della normativa in tema di "sorveglianza" con conseguente mutamento giurisprudenziale, a prescindere dalla prova effettiva della violazione del c.d. privilegio professionale legale, aveva determinato la violazione dell'art. 8 § 2 CEDU, che come è noto, stabilisce che "Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui".

La questione presenta indubbi profili di interesse anche per il nostro ordinamento, in cui il tema delle c.d. perquisizioni informatiche è affidato a norme processuali emanate nel 1989, che ovviamente non potevano tener conto di uno sviluppo tecnologico quale quello che ha caratterizzato negli ultimi anni il settore informatico.

Nelle more è poi intervenuta la Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica, ratificata con l. n. 48/2008, che ha modificato sostanzialmente il panorama italiano che non veniva aggiornato in materia di criminalità informatica dalla l. n. 547/1993, ratifica entrata in vigore il 5 aprile 2008, a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Tale normativa ha apportato modifiche ad alcuni articoli del codice penale (art. 491 bis, documenti informatici) e del codice di procedura penale (artt. 244, casi e forme delle ispezioni; 247, casi e forme delle perquisizioni; 248, richiesta di consegna; 254, sequestro di corrispondenza telematica; 254-bis, sequestro di dati informatici di traffico; 256, dovere di esibizione; 259, custodia delle cose sequestrate; 260, sigillo elettronico o informatico e copia dei dati; 352, perquisizioni; 353, corrispondenza telematica; 354, accertamenti urgenti e sequestro). Rilevanti sono, poi, in materia alcune deliberazioni del Garante della Privacy che sono state emesse e che hanno importanza per l'informatica forense, quali la n. 46/2008 (trattamento dei dati ad opera dei consulenti tecnici) e la n. 60/2008 (trattamento dei dati durante lo svolgimento di investigazioni). In giurisprudenza è peraltro pacifico che costituisce sequestro probatorio l'acquisizione, mediante estrazione di copia informatica o riproduzione su supporto cartaceo, dei dati contenuti in un archivio informatico visionato nel corso di una perquisizione legittimamente eseguita ai sensi dell'art. 247 c.p.p., quando il trattenimento della copia determina la sottrazione all'interessato della esclusiva disponibilità dell'informazione (In motivazione, la Corte ha osservato che le disposizioni introdotte dalla legge 48/2008 riconoscono al "dato informatico", in quanto tale, la caratteristica di oggetto del sequestro, di modo che la restituzione, previo trattenimento di copia, del supporto fisico di memorizzazione, non comporta il venir meno del sequestro quando permane, sul piano del diritto sostanziale, una perdita autonomamente valutabile per il titolare del dato: Cass. pen., Sez. 6, n. 24617 del 10/06/2015, R., CED Cass. 264093; conf., Cass. pen., Sez. 3, n. 38148 del 21/09/2015, C., CED Cass. 265181; Cass. pen., Sez. 5, n. 25527 del 23/05/2017, S., CED Cass. 269811). Va peraltro ricordato che le Sezioni Unite della S.C. hanno affermato (Cass. pen., Sez. U, n. 40963 del 7/09/2017, Andreucci, CED Cass. 270497) che è ammissibile il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer o di un supporto informatico, nel caso in cui ne risulti la restituzione previa estrazione di copia dei dati ivi contenuti, sempre che sia dedotto l'interesse, concreto e attuale, alla esclusiva disponibilità dei dati.

Per quanto, invece, riguarda la giurisprudenza della Corte EDU, la Corte EDU osserva anzitutto che la perquisizione di uno smartphone e/o della copia forense comporta un'ingerenza nel diritto al rispetto della corrispondenza ai sensi del primo comma dell'articolo 8 della Convenzione (vedere ad esempio, mutatis mutandis: Corte EDU, Laurent c. France, 24 maggio 2018, n. 28798/13, § 36). Per quanto riguarda la questione se l'interferenza è conforme alla legge ai sensi del secondo paragrafo di tale disposizione, la Corte EDU è solita osservare che le decisioni relative alla perquisizione in quanto tale, e in definitiva qualsiasi sequestro di dati di uno smartphone, normalmente hanno una base formale nella legge, vale a dire nelle disposizioni sulle perquisizioni e in quelle sui sequestri del codice di procedura penale. Il punto cruciale è, tuttavia, quello di verificare se la normativa in questione abbia una qualità sufficiente e offra garanzie sufficienti per garantire che il privilegio legale professionale non sia stato compromesso durante la procedura di perquisizione e sequestro.

In questo senso, ad esempio, il nostro art. 103, c.p.p., prevede espressamente che "6. Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. 7. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati.

Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta".

Orbene, in tale contesto, la Corte EDU è solita affermare che l'articolo 8 § 2 della Convenzione richiede che la legge in questione sia "compatibile con lo stato di diritto". Nel contesto delle perquisizioni e dei sequestri, il diritto interno deve fornire una certa protezione all'individuo contro interferenze arbitrarie con i diritti dell'articolo 8. Pertanto, il diritto interno deve essere sufficientemente chiaro nei suoi termini per fornire ai cittadini un'indicazione adeguata delle circostanze e delle condizioni alle quali le autorità pubbliche sono autorizzate a ricorrere a tali misure. Inoltre, perquisizione e sequestro rappresentano una seria interferenza con la vita privata, la casa e la corrispondenza e devono pertanto essere basati su una "legge" particolarmente precisa. È essenziale disporre di regole chiare e dettagliate sull'argomento (Corte EDU, Sallinen e altri c. Finlandia, 27 settembre 2005, n. 50882/99, §§ 82 e 90). Inoltre, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto l'importanza di specifiche garanzie procedurali quando si tratta di proteggere la riservatezza degli scambi tra avvocati e clienti (si veda, inter alia, Corte EDU, Sommer c. Germania, 27 aprile 2017, n. 73607/13, § 56, e Corte EDU, Michaud c. Francia, 6 dicembre 2012, n. 12323/11, § 130). La Corte EDU ha sottolineato che il segreto professionale è alla base del rapporto di fiducia esistente tra un avvocato e il suo cliente e che la tutela del segreto professionale è in particolare il corollario del diritto del cliente di un avvocato di non autoincriminarsi, il che presuppone che le autorità devono cercare di dimostrarne la responsabilità senza ricorrere a prove ottenute attraverso metodi di coercizione, in barba alla volontà della "persona accusata" (vedere, ad esempio, Corte EDU, André ed altri c. Francia, 24 luglio 2008, n. 18603/03, § 41). Tuttavia, nella sua giurisprudenza, la Corte ha distinto tra la questione se l'articolo 8 sia stato violato in relazione alle misure investigative e la questione delle possibili ramificazioni di una conclusione in tal senso sui diritti garantiti dall'articolo 6 (si veda, ad esempio, tra le altre, Corte EDU, Dragoș Ioan Rusu c. Romania, 31 ottobre 2017, n. 22767/08, § 52; e Corte EDU, Dumitru Popescu c. Romania (n. 2), 26 aprile 2007, n. 71525/01, § 106, con ulteriori riferimenti). Inoltre, la Corte ha sottolineato che è chiaramente interesse generale che chiunque desideri consultare un avvocato sia libero di farlo a condizioni che favoriscano una discussione piena e disinibita e che è per questo motivo che il rapporto avvocato-cliente è, in linea di principio, privilegiato. Non ha limitato tale considerazione alle sole questioni relative a controversie pendenti e ha sottolineato che, sia nel contesto dell'assistenza per contenzioso civile o penale o nel contesto della ricerca di una consulenza legale generale, le persone che consultano un avvocato possono ragionevolmente attendersi che la loro comunicazione sia privata e confidenziale (vedere, ad esempio, Corte EDU, Altay c. Turchia (n. 2), 9 aprile 2019, n. 11236/06, §§ 49-51, e i riferimenti ivi contenuti).

Esito del ricorso:

Accolto

Precedenti giurisprudenziali:

Corte e.d.u., Laurent c. France, 24 maggio 2018

Corte e.d.u. Sallinen e altri c. Finlandia, 27 settembre 2005

Corte e.d.u. Sommer c. Germania, 27 aprile 2017

Corte e.d.u. Michaud c. Francia, 6 dicembre 2012

Corte e.d.u. André ed altri c. Francia, 24 luglio 2008

Corte e.d.u. Dragoș Ioan Rusu c. Romania, 31 ottobre 2017

Corte e.d.u. Dumitru Popescu c. Romania (n. 2), 26 aprile 2007

Corte e.d.u. Altay c. Turchia (n. 2), 9 aprile 2019

Riferimenti normativi:

Art. 8 (violazione) Convenzione e.d.u.
Avv. Antonino Sugamele

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