La Cassazione ribadisce: non esiste il danno esistenziale in re ipsa.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 5 marzo – 28 luglio 2020, n. 16039
Presidente Scoditti – Relatore Gorgoni
Rilevato che:
L.G. ricorre per la cassazione della sentenza n. 279/2018 della Corte d'Appello di Reggio Calabria, pubblicata il 26 aprile 2018, articolando due motivi, illustrati con ampia memoria in vista della odierna camera di consiglio.
Resiste con controricorso Zurich Insurance PLC.
Il ricorrente espone in fatto di avere convenuto in giudizio la Zurigo Assicurazioni e L.F. per chiederne la condanna solidale al risarcimento dei danni verificatisi il 28 settembre 1990, quando, mentre era intento a svolgere le sue mansioni nel piazzale antistante l'imbarco delle navi traghetto delle F.F.S.S., veniva urtato da l'auto Fiat Tipo di proprietà di L.F. , dal medesimo Condotta e assicurata per la responsabilità civile automobilistica da Zurigo Assicurazioni, riportando gravi lesioni personali.
La Compagnia assicuratrice, costituitasi in giudizio, eccepiva la mancanza in giudizio del proprietario dell'auto, la carenza di legittimazione attiva dell'attore, in quanto era stato risarcito dei danni riportati da parte dell'Inail.
Il Tribunale, con sentenza n. 677/2003, rigettava l'eccezione di mancata integrazione del contraddittorio e, accogliendo la domanda attorea, condannava Zurigo Assicurazioni al pagamento di Euro 93.940,00, al netto di rivalutazione ed interessi, ed al pagamento delle spese processuali.
La decisione veniva impugnata, in via principale, da Zurigo Assicurazioni S.p.A. che lamentava che non fosse stata dichiarata la mancata integrazione del contraddittorio, insisteva per l'accertamento dell'infondatezza della domanda, censurava la liquidazione del danno patrimoniale e del danno morale nonché l'indicazione dei criteri di calcolo degli interessi; ed, in via incidentale, da L.G. che criticava la mancata liquidazione del danno subito nella sua interezza per un totale, al netto degli oneri ed accessori, di Euro 415.356,57.
La Corte d'Appello, con la sentenza qui impugnata, accoglieva l'appello principale e condannava Zurigo Assicurazioni S.p.A., in solido con L.F. , a pagare a favore dell'odierno ricorrente la somma di Euro 93.940,00, oltre agli interessi computati sulla somma risultante dalla devalutazione dal momento dell'incidente e rivalutata anno per anno dal 29 settembre 1990, oltre agli interessi legali dal deposito della sentenza al saldo; rigettava l'appello incidentale;
compensava per due terzi le spese di lite e condannava l'appellante al pagamento del restante terzo a favore dell'appellato. Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza della Corte.
Considerato che:
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la "violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2054, 2056 e 2059 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ed ai precedenti giurisprudenziali (diritto vivente) in tema di risarcimento del danno non patrimoniale - erroneità ed iniquità delle somme conteggiate dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria; il danno conseguenza può essere provato, rimanendo esclusa la ipotesi del danno "in re ipsa", anche attraverso elementi presuntivi ricavabili da frammenti della concreta esperienza esistenziale, per dimostrare che è conseguenza pregiudizievole derivata, ex art. 1223 c.c. - inteso quale modificazione peggiorativa della qualità della vita, dovuta alle ridotte possibilità del ricorrente, di svolgere la propria individualità e personalità" (pp. -38).
Tutto l'apparato argomentativo del ricorrente è diretto a contestare il mancato riconoscimento del danno esistenziale ed a dimostrare che essendo esso Un danno ontologicamente in re ipsa la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenerlo logicamente sussistente.
Oggetto di censura sono infatti le seguenti statuizioni del giudice a quo: "non risulta in atti che il L.G. abbia sofferto tale tipo di danno, non avendone dato effettiva prova al di là di mere asserzioni non sostenute da fatti concreti" e "non è condivisibile la tesi (...) secondo cui il danno esistenziale debba ritenersi sussistente in re ipsa e che come tale vada riconosciuto, in quanto giurisprudenza costante di legittimità (…) è concorde nel ritenere che "in re ipsa e che come tale vada riconosciuto, in quanto giurisprudenza costante di legittimità (...) è concorde nel ritenere che “il danno non patrimoniale, anche nel caso di diitti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca”.
Il motivo, ad avviso di questo Collegio, è inammissibile ex art. 360 bis, n. 1: tutta la censura ruota intorno al mancato riconoscimento del danno esistenziale a fronte del riconoscimento del danno biologico e di quello morale.
L'orientamento di questa Corte è quello espresso da Cass. 27/03/2018, n. 7513 secondo cui "Non, dunque, che il danno alla salute "comprenda" pregiudizi dinamico-relazionali dovrà dirsi; ma piuttosto che il danno alla salute è un danno "dinamico- relazionale". Se non avesse conseguenze "dinamicorelazionali", la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile………. In presenza d'un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)".
Ad esso ha fatto seguito una giurisprudenza conforme e consolidata sulla non scindibilità di danno biologico e danno esistenziale (rectius dinamico-relazione) (cfr. Cass. 29/03/2019, n. 8755, secondo cui il danno riconosciuto e liquidato il danno esistenziale, essendo stato già riconosciuto e liquidato il danno biologico, inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali, non può essere liquidato perché costituirebbe una inammissibile duplicazione risarcitoria), mentre quello che ha un autonomo rilievo fenomenologico è il danno morale che nella specie è stato liquidato.
La sentenza impugnata si sottrae alle critiche mossele, perché essa non si è resa indisponibile alla liquidazione di una voce di danno ulteriore rispetto a quella avente fonte medicolegale, ma ha ritenuto con una motivazione che non può essere messa in discussione che non fosse stata provata la ricorrenza del danno richiesto, ‘giacché la relativa domanda si basava su asserzioni generiche non sostenute da fatti concreti. E tale valutazione non è scalfita dal motivo di ricorso che con una congerie di argomentazioni confuse e spesso non pertinenti - si va dalla contestazione della percentuale di danno biologico riconosciuta dal giudice a quo, alla invocazione della prova presuntiva, alla richiesta di riconoscimento del danno sessuale, all'esaltazione della equità, alla richiesta di attribuire un significato diverso all'enunciato "il danno è in re ipsa"- non ha dimostrato la ricorrenza della violazione di legge denunciata, attraverso specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina; ma ha preteso di allegare l'erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa: attività che inerisce alla tipica valutazione del giudicè di merito (Cass. 30/12/2015, n. 26110).
Nè lo ha fatto con la memori depositata in vista dell'odierna camera di consiglio, che, invocando il principio di effettività e quello di legittimità, pretende di dimostrare che gli enunciati di inammissibilità siano sentinelle di un formalismo procedurale con essi confliggenti, per poi rinviare a questa Corte la valutazione circa se rimettere, non ritenendola manifestamente infondata, alla Consulta la incostituzionalità sostanziale dell'art. 380 bis c.p.c., comma 1, nella parte in cui richiama l'art. 375, comma 1, n. 1, circa la definizione del giudizio di inammissibilità.
I numerosi argomenti offerti alla riflessione di questa Corte, nella parte in cui non ripropongono le tesi veicolate attraverso il ricorso, si dimostrano, per un verso, incapaci di misurarsi con i caratteri morfologici e funzionali del giudizio di legittimità, stretto tra il compito di assicurare l'esatta osservanza e l'esatta interpretazione delle leggi e quello di garantire l'unità del diritto nazionale, e perciò bisognoso di tecniche di self restraint, che permettano, senza portare il sistema al collasso, di fornire la regola di giudizio, di razionalizza e lo strumento del processo e di rafforzarne la configurazione i termini di servizio per la tutela del diritti; per altro verso, ripropongono la richiesta di riconoscimento di voci di danno che la giurisprudenza di questa Corte da tempo compattamente nega.
2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per "violazione dell'art. 1223 c.c., con riferimento all'art. 360, comma 1, n. 3, devalutazione da applicare solamente al danno biologico e al danno morale non anche al danno patrimoniale su cui si app icano la rivalutazione monetaria e gli interessi di legge" (p. 39).
La sentenza impugnata, nel riformare sul punto la sentenza di primo grado, ha dato espressamente atto della rivalutazione e degli interessi sulla somma liquidata a titolo di danno biologico e di danno morale rivalutata anno per anno previa dovuta devalutazione della stessa, essendo stata utilizzata una tabella successiva all'infortunio.
La sentenza d'appello risulta corretta in quanto la necessità della devalutazione nasce dalla esigenza della determinazione della somma capitale destinata alla reintegra della situazione patrimoniale del danneggiato con riferimento al momento dell'evento dannoso, là dove la somma capitale scaturente dall'applicazione delle tabelle utilizzate dal primo giudice, esprimeva, per come pacifico, valori riferiti a un momento successivo (sulla necessità di devalutazione con riferimento al momento dell'evento dannoso cfr.. Cass. 21/03/2011, n. 6357; Cass. 23/02/2005, n. 3747). La devalutazione monetaria serve a determinare il valore del danno al momento del verificarsi dello stesso, ciò al fine di applicare (successivamente) a quel valore gli interessi e la rivalutazione monetaria per far in modo che la cifra ottenuta come risarcimento danni sia attuale, ma che allo stesso tempo non vi sia una locupletazione o meglio un ingiusto arricchimento.
La necessità della devalutazione trova origine nella sentenza delle Sezioni Unite n. 1712 del 17/02/1995. In essa è stabilito un principio cardine secondo il duale la rivalutazione monetaria dovuta al passare degli anni tra il verificarsi dell'evento da cui scaturisce il danno e il momento successivo in cui il danneggiato ottiene il ristoro non deve costituire una locupletazione, ovvero non deve creare un ingiusto arricchimento di una parte a scapito dell'altra, per questo motivo il tasso di interesse legale non può essere applicato alla somma integralmente rivalutata, ma solo sulle somme annualmente rivalutate a partire dalla data del fatto produttivo del danno.
Deve essere rilevato che la Corte d'Appello niente ha detto con riferimento alla somma liquidata a titolo di danno patrimoniale, pur avendo devalutato anche la somma spettante a tale titolo.
Nondimeno, il ricorrente si è limitato ad affermare assertivamente che le retribuzioni non percepite sono state determinate secondo il valore Corrispondente a quelle percepite alla data del sinistro e per differenza rispetto alla perdita di retribuzione subita dal ricorrente, senza alcun supporto a sostegno di tale affermazione e senza riscontri nella sentenza impugnata.
Il motivo, pertanto, è inammissibile, perché non soddisfa il principio di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6 (su cui cfr. anche di recente Cass., Sez. un., 27/12/2019, n. 34469) e perché non è consentito a questa Corte di sopperire alle lacune dell'atto.
3. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
4. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza de presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 2500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 èd agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
04-08-2020 14:55
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