Il Consiglio Nazionale Forense interviene sul rapporto tra giudicato penale e sospensione del procedimento disciplinare
Consiglio Nazionale Forense, sentenza 15 giugno – 16 dicembre 2019, n. 171
Presidente Picchioni – Segretario Masi
Fatto
L'Avv. [RICORRENTE] veniva coinvolto il 15/03/09 in un incidente stradale dal sig. [TIZIO],
che lo seguiva con un altro veicolo, che se ne assumeva la responsabilità sottoscrivendo
il modello di constatazione amichevole di incidente; risarcito solo parzialmente dall'assicurazione,
agiva in giudizio nei confronti della compagnia assicurativa [ALFA] Assicurazioni, assistito
dall'Avv. [MEVIA], collaboratrice esterna del suo studio (della quale si serviva per sostituzioni
di udienza, attività di cancelleria, redazione di alcuni atti giudiziari standard e procedimenti
civili in cui l'incolpato era in mandato congiunto con l'Avv. [CAIA] del Foro di Padova)
chiamando in causa il [TIZIO] quale litisconsorte necessario. La compagnia rilevava che nella
comparsa di risposta dell'11/03/11 il sig. [TIZIO] risultava difeso dall'Avv. [CAIA] e che quest'ultima
aveva eletto domicilio in [omissis], presso lo studio (o abitazione, non sembra
chiaro dalla ricostruzione dei fatti) dell'attore, Avv. [RICORRENTE], e segnalava la circostanza
al COA di Padova, presentando un esposto nei confronti della professionista. E' da precisare
che con detta comparsa di risposta il difensore del [TIZIO] riconosceva la piena responsabilità
del proprio cliente e chiedeva che venisse "acclarata la fondatezza della domanda
svolta da parte attrice". Il COA di Padova notiziava la professionista, la quale sporgeva denuncia-
querela presso la procura di Venezia nei confronti dell'Avv. [RICORRENTE], per i reati
di cui agli artt. 481 e 485 c.p. (falsità in scrittura privata e falsità ideologica), negando di es -
sere l'autrice della comparsa di risposta, non essendo a conoscenza dell'esistenza della causa,
e disconoscendo le firme riconducibili a suo nome, anche quella della procura alle liti. Il
2
COA di Padova archiviava il procedimento disciplinare nel 2013, considerando i fatti privi di
rilevanza disciplinare e il Giudice di Pace di Chioggia, con sentenza N° [omissis] del 2011,
accertava la responsabilità del sig. [TIZIO] per il sinistro occorso.
Veniva avviato un procedimento penale nei confronti dell'Avv. [RICORRENTE] (RGNR
[omissis]/11) dalla Procura della Repubblica di Venezia, nell'ambito del quale venivano
sentite le persone informate dei fatti:
L'Avv. [CAIA] riferiva: di non avere contezza del procedimento, per il quale era stata utilizzata
una vecchia cartellina; che l'Avv. [RICORRENTE] aveva svolto la pratica forense in
passato nel suo studio, negli anni 2003-2004, e che collaborava con lui occasionalmente; di
conoscere il sig. [TIZIO] perché aveva assistito la sua compagna.
Il Sig. [TIZIO] riferiva dell'amicizia con l'indagato ma non ricordava chi lo aveva assistito
nella causa civile.
L'Avv. [MEVIA] riferiva di collaborare con l'Avv. [RICORRENTE] e di non aver mai parlato
con l'Avv. [CAIA] specificamente in relazione al procedimento in questione, ma di aver predisposto
bozza di comparsa di costituzione e risposta, poi inviata all'Avv. [RICORRENTE]
che assisteva direttamente.
L'indagato riferiva di aver depositato personalmente la comparsa, predisposta e sottoscritta
dall'Avv. [CAIA]. Precisava poi, con memoria difensiva ex art. 415-bis c.p.p. del
02/08/12, di non essere l'autore delle sottoscrizioni, che l'Avv. [CAIA] conosceva perfettamente
il sig. [TIZIO] in quanto lo aveva assistito con successo in un procedimento penale ed
aveva piena contezza del procedimento civile in questione pendente davanti al Giudice di
Pace di Chioggia.
Nei confronti dell'Avv. [RICORRENTE] veniva esercitata l'azione penale per tre capi di imputazione:
1) formazione di un mandato falso in favore dell'Avv. [CAIA], con firma falsificata;
2) falsificazione della firma nella comparsa di risposta;
3) falsificazione della delega a sostituto processuale in favore di altro collega per l'udienza
del 15/04/11 di escussione dei testi.
Nel corso dell'udienza preliminare, il [omissis]/02/13, l'imputato precisava come spesso
si scambiava gli atti con l'Avv. [CAIA] senza firmarli, ma venivano poi siglati da ciascuno di
3
loro, con le iniziali dell'altro, non avendo il tempo di farli firmare. Nel corso del giudizio l'Avv.
[CAIA] rimetteva la querela e con sentenza dell'[omissis]/16 l'Avv. [RICORRENTE] veniva
assolto dal capo 1 perché il fatto non sussiste e dai capi 2 e 3 perché non più previsti dalla
legge come reato.
Nel contempo, il COA di Venezia, avuta notizia del procedimento penale pendente nei
confronti del professionista, lo sospendeva in via cautelare in data 01/07/13;
l'Avv. [RICORRENTE] proponeva ricorso al CNF avverso il provvedimento, che veniva
annullato con sentenza [omissis]/14 per mancanza del requisito dello strepitus fori; la decisione,
impugnata dal COA di Venezia, veniva confermata dalla Cassazione con sentenza
[omissis]/15. L'Avv. [RICORRENTE] pativa, nelle more, sette mesi e tredici giorni di sospensione.
Nel frattempo, con comunicazione del 27/05/14, il COA di Venezia apriva procedimento
disciplinare nei suoi confronti e trasmetteva il fascicolo al CDD nel 2015, che inviava la comunicazione
di avvio della fase istruttoria preliminare il 09/10/15 e lo convocava per il
16/11/15 per rendere chiarimenti.
L'incolpato depositava deduzioni il 02/11/15, chiedendo l'archiviazione del procedimento
preliminare e, in subordine, la sospensione in attesa della definizione del procedimento penale,
l'acquisizione delle deposizioni testimoniali rese nell'ambito del giudizio penale, e precisava
che la perizia del CTU nel procedimento penale aveva escluso che le sottoscrizioni disconosciute
fossero a lui riconducibili.
L'Avv. [CAIA], nella seduta del 21/12/15, confermava la sua versione dei fatti.
L'Avv. [RICORRENTE], con memoria del 05/05/16, ribadiva il contenuto delle proprie difese
ed evidenziava la strumentalità dell'iniziativa della collega [CAIA], che l'aveva denunciato
solo perché era stato presentato esposto nei confronti della stessa, commettendo peraltro
calunnia e dicendo il falso in ordine: alla mancata conoscenza del cliente [TIZIO], alla mancata
conoscenza dell'indirizzo ove era domiciliata (lo studio del [RICORRENTE]) e del procedimento
civile per il risarcimento del danno da circolazione stradale. Precisava che non vi era
necessità di coinvolgere l'Avv. [CAIA] nel giudizio civile, perché il convenuto [TIZIO] poteva
anche non costituirsi nel procedimento, ma aveva intenzione di farlo e conosceva quali legali
– oltre all'odierno ricorrente – solo l'Avv. [MEVIA], difensore del [RICORRENTE] e sua colla-
4
boratrice (anche se il ricorrente ritiene solo occasionale) e l'Avv. [CAIA], che l'aveva difeso in
un precedente giudizio.
Con deliberazione del 22/07/16 la sezione del CDD disponeva la citazione a giudizio dell'incolpato
per il 02/12/16 per i seguenti capi di incolpazione:
A) Violazione art. 88 c.p.c. e doveri di lealtà e correttezza, dignità e decoro di cui all'art. 9,
co. 1 e art. 24 CDF (conflitto di interessi), per aver provveduto a gestire tramite l'attività del
proprio studio professionale sia la propria posizione personale di attore, sia quella del sig.
[TIZIO], pur essendo parti contrapposte dello stesso sinistro, avvenuto il 15/03/09, avendo
assunto così – di fatto – la difesa anche della controparte, solo formalmente assistita dall'Avv.
[CAIA], nella causa pendente davanti al Giudice di Pace di Chioggia;
B) Violazione artt. 7 e 19 CDF per aver utilizzato il nome dell'Avv. [CAIA], che solo formalmente
appariva essere il difensore del convenuto, mentre i relativi atti erano predisposti
dalla sua collaboratrice Avv. [MEVIA];
C) Violazione art. 63 CDF, per aver fatto costituire in giudizio il sig. [TIZIO] per aggravare
gli oneri processuali a carico dell'assicurazione del medesimo.
Nel corso della seduta il CDD sentiva:
- l'Avv. [CAIA], che confermava il contenuto dell'esposto e negava di aver apposto firme
sul mandato, sull'atto e sulla delega per sostituzione in udienza; non ricordava precisamente
della causa, ma comunque non ne aveva saputo nulla;
- l'Avv. [MEVIA], che riferiva di collaborare per alcune cause, in maniera continuativa,
con l'incolpato, pur lavorando presso lo studio di altro professionista; di aver predisposto le
bozze degli atti dell'Avv. [CAIA], che aveva poi trasmesso al [RICORRENTE], in quanto non
ne aveva mai parlato specificamente con l'Avv. [CAIA], se non in passato in un'occasione, insieme
all'incolpato, prima di citare la compagnia assicurativa in giudizio; negava di aver depositato
l'atto né sapeva chi aveva provveduto a firmarlo;
- il sig. [TIZIO], che riferiva dei rapporti di amicizia con il [RICORRENTE], diceva – contrariamente
a quanto dichiarato ai carabinieri nel 2011 – che aveva contattato l'Avv. [CAIA] e
di averla incontrata insieme all'Avv. [MEVIA], e di aver consegnato la procura a persona
mandata dalla [CAIA] che non conosceva, recatasi presso la sua agenzia.
Nella seduta del 10/02/17 il CDD sentiva l'Avv. [RICORRENTE]. Ritenuto necessario ac-
5
quisire copia della sentenza penale N° [OMISSIS]/16 del Tribunale di Venezia, con attestato
di irrevocabilità del giudizio, il procedimento veniva rinviato al 10/03/17. Emergeva che: per il
capo 1) la sentenza di assoluzione era stata impugnata dal PM il 25/10/16, mentre per i capi
2) e 3) il proscioglimento era stato disposto perché il fatto non era più previsto dalla legge
come reato, a seguito di depenalizzazione.
All'esito dell'istruttoria, il CDD riteneva di prosciogliere l'incolpato dal capo C), non essendovi
alcuna prova. Lo riteneva responsabile delle violazioni di cui ai capi A) e B).
Da un lato, riteneva accertato che le firme apposte negli atti giudiziari della causa non
appartenevano all'Avv. [CAIA] (che aveva presentato denuncia-querela, e lo aveva ribadito
anche in sede disciplinare); riteneva, altresì, che si trattava di dichiarazioni pienamente attendibili
e precise nella descrizione dei fatti e costanti nel tempo, che trovavano conforto in numerosi
riscontri oggettivi rinvenibili negli atti (timbri e recapiti utilizzati facevano tutti riferimento
all'Avv. [RICORRENTE]) nonché dalle risultanze della perizia svolta in sede penale.
Dall'altro, evidenziava che l'Avv. [RICORRENTE] tramite il proprio studio aveva gestito
sia la propria posizione di attore che quella di convenuto, parti contrapposte dello stesso sinistro,
in base a numerose circostanze e dichiarazioni (cf. pagg. 12-13 della decisione); in particolare,
richiamava le dichiarazioni del sig. [TIZIO] e dell'Avv. [RICORRENTE], mutate nel
tempo e perciò contrastanti tra loro, quelle dell'Avv. [MEVIA], che aveva riferito di aver predisposto
bozza della comparsa di risposta.
Il CDD riteneva sussistente un conflitto di interessi anche se apparente, poiché l'Avv. [RICORRENTE]
aveva – di fatto – assunto la difesa di due soggetti portatori di interessi confliggenti.
Richiamava sul punto l'evoluzione della giurisprudenza, che ha riconosciuto la rilevanza
deontologica del conflitto potenziale proprio per assicurare al cliente un'adeguata difesa.
Respingeva al tempo stesso l'eccezione di prescrizione formulata dall'incolpato, non ritenendo
che il dies a quo potesse decorrere dal deposito della comparsa di risposta (10/11/10),
ma dalla sentenza del Giudice di Pace; in ogni caso, anche a prescindere dalla pendenza del
procedimento penale, rilevava che erano intervenuti numerosi atti interruttivi con effetti istantanei,
sia con l'apertura del procedimento, sia di natura propulsiva e probatoria (basti pensare
alla sospensione cautelare del 01/07/13 adottata successivamente all'audizione dell'incol-
6
pato del 26/06/13).
Per quanto concerne gli effetti del giudicato penale nel procedimento disciplinare, invocati
dal ricorrente, il CDD rilevava che il capo 1) della sentenza risulta impugnato dal PM, per
cui non può produrre alcun effetto di giudicato; per i capi 2) e 3) il proscioglimento è stato di -
chiarato per intervenuta depenalizzazione, per cui il fatto storico, nella sua materialità, doveva
ritenersi sussistente.
Valutata la gravità del comportamento, la natura degli atti oggetto di contestazione, nonché
il comportamento successivo dell'incolpato (mancata resipiscenza, tentativo di addossare
la responsabilità della vicenda sull'Avv. [CAIA], accusata di calunnia e di falso), il CDD lo
sanzionava con la sospensione dall'esercizio della professione per anni uno.
Avverso la decisione del CDD depositata il 10 maggio 2017 e notificata a mezzo pec lo
stesso giorno, l'odierno ricorrente proponeva impugnazione con ricorso regolarmente depositato
l'8 giugno 2017.
L'Avv. [RICORRENTE], con i motivi di ricorso, ha eccepito: una violazione di legge, eccesso
di potere e contraddittorietà della motivazione in ordine:
1. alla sussistenza dei fatti contestati (travisamento dei fatti; difetto di prova);
2. all'utilizzabilità e valutazione delle prove acquisite nel corso del procedimento disciplinare,
con relativa violazione del diritto di difesa;
3. al principio di presunzione di non colpevolezza;
4. alla dichiarata sussistenza del conflitto di interessi, in quanto solo potenziale;
5. alla prescrizione dell'azione disciplinare;
6. alla misura della sanzione irrogata.
Ha chiesto, quindi, di dichiarare illegittima e annullare, revocare o riformare la decisione
del CDD per difetto di prova, travisamento dei fatti, violazione del diritto di difesa e del principio
di presunzione di non colpevolezza e, in subordine, per insussistenza di responsabilità disciplinare
e/o prescrizione dell'azione disciplinare. In via estremamente subordinata, ha chiesto
l'applicazione della sanzione dell'avvertimento o della censura-
Diritto
1- Il ricorrente eccepisce la prescrizione degli illeciti contestati rilevando di essersi disinteressato
del giudizio civile dopo l'avvio dell'azione, non avendo partecipato ad alcuna udien-
7
za o compiuto attività, per cui, a suo avviso, il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione
corrisponderebbe alla data di deposito dell'atto di costituzione del sig. [TIZIO], avvenuto
in data 11/11/2010.
Censura, quindi, la decisione del C.D.D. che ha rigettato l'eccezione di prescrizione formulata
già nel corso del procedimento disciplinare, rilevando che le circostanze contestate in
sede disciplinare non hanno rilevanza penale, per cui il termine di prescrizione sarebbe decorso
dal giorno della consumazione del fatto non potendosi considerare decorrente dalla definizione
del processo penale; dall'altro lato, riferisce che il capo di incolpazione gli è stato
notificato solo in data 15/4/2016, per cui non si potrebbe tenere conto degli atti interruttivi
precedenti, i quali riguardavano una fattispecie del tutto diversa, sia dal punto di vista fattuale
che temporale, che coincideva col capo di imputazione contestato in sede penale.
Sostiene, ancora, il ricorrente, che la contestazione disciplinare coincideva con quella
penale solo nel procedimento conclusosi con la sospensione cautelare (successivamente dichiarata
illegittima), mentre in seguito risultava del tutto diversa.
L'eccezione è infondata.
Come ha precisato lo stesso ricorrente, recentemente la Corte Suprema ha confermato
che la nuova disciplina della prescrizione dettata dalla riforma professionale (art. 56, co. 3, L.
N° 247/12, che prevede che l'azione disciplinare si prescrive in sei anni dal fatto e che stabilisce
un termine massimo di prescrizione), non si applica agli illeciti commessi prima della sua
entrata in vigore (Cass. SS.UU., N° 9558/18). Di conseguenza, occorre considerare la vecchia
disciplina, in forza della quale il termine di prescrizione dell'azione disciplinare è di 5
anni (art. 51 R.D.L. N° 1578/33). Qualora il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti
anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale, la prescrizione decorre dal
momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della
sentenza penale (Cass. SS. UU, N° 29878/18; C.N.F. , N° 29/18), anche se il giudizio di -
sciplinare non è stato sospeso; la circostanza, infatti, può incidere solamente sulla validità dei
meri atti ma non sul termine iniziale della prescrizione (Cass. SS.UU., N° 26148/17).
E' lo stesso ricorrente a rilevare che il C.O.A. di Venezia ha aperto il procedimento disciplinare
nei suoi confronti il 27/5/2014, perciò sussiste, nel caso che ci occupa, un atto idoneo
ad interrompere la prescrizione con effetti istantanei, ai sensi dell'art. 51 R.D.L. N° 1578/33
8
(Cass. SS.UU., N° 21591/13); successivamente il fascicolo è stato trasmesso al C.D.D. ed il
procedimento disciplinare è proseguito, ma non iniziato ex novo, pur se la contestazione
sembrerebbe mutata.
Anche volendo seguire, quindi, la prospettazione del ricorrente, la prescrizione, ad avvi -
so del Collegio, non risulta maturata.
Al tempo stesso, si evidenzia che è consolidato il principio in base al quale il dies a quo
per la prescrizione dell'azione disciplinare va individuato nel momento della commissione del
fatto solo se questo integra una violazione deontologica di carattere istantaneo che si consuma
o si esaurisce nel momento stesso in cui viene realizzata; ove, invece, la violazione risulti
integrata da una condotta protrattasi e mantenuta nel tempo, la decorrenza del termine prescrizionale
ha inizio dalla data di cessazione della condotta (Consiglio Nazionale Forense,
sentenza del 19/12/2014, N° 191; Cass. Civ., Sez. Un. 26/11/2008, N° 28159; Cass. Civ.,
Sez. Un., 1/10/2003, N° 14620) che, nella fattispecie, è venuta meno solo con la cessazione
della situazione "antigiuridica".
2- Il ricorrente, ulteriormente, da un lato eccepisce che i fatti di cui al procedimento penale
conclusosi risultano differenti rispetto a quelli contestati in sede disciplinare; dall'altro lamenta
la violazione dell'art. 653 c.p.p., perché il C.D.D. avrebbe dovuto rispettare il giudicato penale
di assoluzione con formula piena.
Anche queste eccezioni sono infondate.
La ratio della norma, così come quella della disciplina previgente di cui all'art. 295 c.p.c.,
applicabile ai procedimenti davanti ai C.O.A. (ma non ai C.D.D.) - che imponeva la sospensione
del giudizio disciplinare in pendenza di procedimento penale per i medesimi fatti -, era
quella di evitare un contrasto di giudicati. La nuova disciplina di cui alla L. 247/12, applicabile
ai procedimenti celebrati dai C.D.D., amplia l'autonomia del procedimento disciplinare rispetto
a quello penale, prevedendo una sospensione di carattere facoltativo, mantenendo comunque
fermo il disposto di cui all'art. 653 c.p.p.-
La stessa giurisprudenza è costante nell'affermare che la sentenza penale di condanna
ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento del fatto, della sua illiceità
penale e della circostanza che l'imputato l'ha commesso; allo stesso tempo un giudicato
penale di assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso esclu-
9
de la possibilità di una valutazione disciplinare.
Diversa è la circostanza qualora il fatto non costituisca reato: il giudicato, in tale evenienza,
riconosce l'ontologia del fatto e l'affermazione che l'imputato lo ha commesso, ma ne
esclude l'illiceità penale (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 4/6/2009, N° 56: In tema
di rapporti tra giudizio penale e giudizio disciplinare, la sentenza irrevocabile pronunciata nel
primo ha efficacia di giudicato nel secondo quanto all'accertamento del fatto, alla sua eventuale
illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso. Qualora, tuttavia,
l'assoluzione sia stata pronunciata perché il fatto non sussiste, l'esclusione dell'ontologia del
fatto ne impedisce la valutazione anche disciplinare, mentre se essa è intervenuta perché il
fatto non costituisce reato, riconoscendone l'ontologia ed escludendo la sola rilevanza penale,
l'organo disciplinare può e deve valutarlo sotto il profilo deontologico).
Nel caso di specie, secondo quanto correttamente precisato dal C.D.D., il ricorrente era
stato sì assolto, ma sulla base di una depenalizzazione del comportamento contestatogli, per
cui il fatto non costituiva (più) reato, al contrario delle mere asserzioni del ricorrente secondo
cui lo stesso sarebbe stato assolto con formula piena.
3- Il ricorrente lamenta una violazione del diritto di difesa, poiché nel procedimento discipli -
nare il C.D.D. avrebbe considerato quali fonti di prova più rilevanti le deposizioni testimoniali
acquisite in via documentale (come le assunzioni di sommarie informazioni delle persone
coinvolte davanti agli organi di polizia giudiziaria), anziché dare maggiore rilievo alle deposizioni
testimoniali acquisite direttamente in dibattimento. Assume che le informative sono
spesso carenti del requisito della genuinità e ritiene che, ai sensi delle disposizioni di cui al
c.p.p., tali fonti di prova non potevano essere utilizzate (artt. 500 e 514 c.p.p.). Assume che le
dichiarazioni rese nel procedimento penale avevano uno scopo difensivo, ma non potevano
certo assumere natura confessoria; l'avvocato-imputato, infatti, ha il diritto di difendersi, come
tutti gli altri imputati.
Dette deduzioni sono infondate per le ragioni che qui di seguito vengono esplicitate.
Occorre precisare che al procedimento disciplinare, per quanto non specificamente disciplinato,
si applicano le norme del codice di procedura penale, in quanto compatibili (art.
59, co. 1, lett. n della L. 247/12). Si tratta, tuttavia, di giudizi di carattere diverso, con una fi -
nalità differente.
10
Il regolamento C.N.F. 2/14 disciplina le prove utilizzabili ai fini della decisione disciplinare,
sulla scorta dei dettami dell'art. 59 L. 247/12, e all'art. 23, co. 1, lett. b) indica anche gli atti formati e i documenti acquisiti nel corso della fase istruttoria e del dibattimento>, tra i
quali risultava la documentazione relativa al procedimento penale, che era stata acquisita
agli atti peraltro su insistenza dello stesso incolpato, il quale mirava a dimostrare la propria
estraneità ai fatti addebitati.
Di conseguenza, ad avviso del Collegio , non risulta violato il diritto di difesa dell'incolpato,
né possono considerarsi applicabili le norme del c.p.p., considerato che sussiste una disciplina
normativa specifica sul punto.
Pertanto, si evidenzia che il C.D.D. ha tenuto conto di tutto il materiale probatorio -e in
particolare quello del procedimento penale- al fine di valutare l'attendibilità dei testimoni e verificare
la concordanza delle loro dichiarazioni rispetto a quelle rese in precedenza.
4- Il ricorrente ritiene che la decisione del C.D.D. sia viziata sotto il profilo di una motivazione
carente e/o contraddittoria, anche in ragione di un travisamento dei fatti e di una grave mancanza
di prova riferita alle circostanze oggetto del capo di incolpazione. Tale carenza probatoria
avrebbe comportato, altresì, la violazione del principio di presunzione di non colpevolezza:
non essendoci certezza assoluta sui fatti, doveva -secondo gli assunti del ricorrente- essere
prosciolto.
Fornisce, quindi, una diversa ricostruzione dei fatti, sottolineando di aver rivestito unicamente
il ruolo di parte processuale, non di aver gestito l'intero processo con la partecipazione
solo formale delle colleghe [MEVIA] e [CAIA], essendosi successivamente disinteressato della
causa. Riporta numerosi stralci delle deposizioni dei testi sentiti dal C.D.D. che confermerebbero
la sua tesi. In particolare, censura la decisione nella parte in cui ha ritenuto attendibile
l'Avv. [CAIA], che avrebbe mentito e non potrebbe essere considerata attendibile, poiché
conosceva perfettamente il Sig. [TIZIO], avendolo difeso in precedenza, conosceva l'indirizzo
dove il medesimo ricorrente aveva il suo studio, perché vi si domiciliava spesso, e conosceva
anche il procedimento civile in questione per risarcimento del danno, avendo difeso il Sig.
[TIZIO]; peraltro, risultando difensore di fiducia, riceveva le notifiche relative al procedimento
tramite PEC grazie al sistema Polisweb.
Rammenta il Collegio che, secondo giurisprudenza costante, il C.N.F., quale giudice di
11
legittimità e di merito, in sede di appello, può apportare alla decisione le integrazioni che ritiene
necessarie, sopperendo così ad una motivazione inadeguata ed incompleta, anche riesaminando
le circostanze che hanno condotto il C.D.D. a ritenere l'odierno ricorrente responsabile
delle violazioni contestate (Cass. Sez. Un., sent. N° 15122/13; C.N.F., sent. N° 186/17).
Per quanto concerne il difetto di prova, giurisprudenza costante insegna che occorre un
adeguato riscontro probatorio per suffragare le dichiarazioni dell'esponente, in modo che l'attività
istruttoria sia correttamente motivata quando la valutazione disciplinare sia avvenuta
non solo sulla base delle dichiarazioni dell'esponente, ma altresì dalle risultanze documentali
acquisite agli atti (C.N.F., sent. N° 155/17).
Anche in sede disciplinare opera, peraltro, il principio del libero convincimento del giudice
disciplinare, che ha ampio potere discrezionale nel valutare la conferenza e rilevanza delle
prove acquisite, con la conseguenza che la decisione assunta in base alle testimonianze e
agli atti acquisiti in conseguenza degli esposti deve ritenersi legittima quando risulti coerente
con le risultanze documentali acquisite al procedimento (Cass. Sez. Un., sent. N° 961/17;
C.N.F., sent. N° 57/17).
Il C.D.D. ha ritenuto l'Avv. [RICORRENTE] responsabile degli addebiti contestati sulla
scorta delle dichiarazioni dell'Avv. [CAIA], che ha considerato attendibili in quanto precise
nella descrizione dei fatti e costanti nel tempo, in ragione di numerosi riscontri oggettivi rinvenibili
negli atti. Aveva, infatti, la predetta, presentato denuncia-querela, poiché era stato utilizzato
il suo nominativo come difensore in un procedimento rispetto al quale si dichiarava
estranea, non avendo mai firmato la procura, la comparsa di costituzione e risposta, né la delega
a sostituto in udienza; erano stati utilizzati timbri a lei non conosciuti e una cartellina del
suo studio, con correzioni a penna (con i recapiti di indirizzo e fax dell'odierno ricorrente); la
stessa perizia in sede penale aveva accertato che la firma non era autografa, e quindi non
apposta dall'Avv. [CAIA]. Al tempo stesso, l'Avv. [MEVIA], pur collaborando con altro studio e
non essendo inserita stabilmente nella struttura dell'Avv. [RICORRENTE], aveva sempre ammesso
di aver collaborato con lui, più che occasionalmente in realtà, ma sistematicamente;
era all'Avv. [RICORRENTE] che mandava copie degli atti del procedimento in questione, e
ammetteva di aver predisposto una bozza della comparsa di risposta.
La motivazione resa dal C.D.D. sul punto è, ad avviso del Collegio, esaustiva, logica e
12
pienamente condivisibile e, pertanto, gli assunti del ricorrente appaiono, anche sotto tali profili,
infondati.
5- Il ricorrente esclude la sussistenza di responsabilità disciplinare, poiché asserisce che non
aveva gestito l'intero processo, nel quale era parte costituita, assistita da una Collega, mentre
altra Collega assisteva il suo amico [TIZIO]. Al tempo stesso ritiene che debba farsi riferimento
non alle norme del nuovo C.D.F. bensì a quelle (e alla giurisprudenza disciplinare) del
vecchio C.D.F. Richiama, sul punto, la giurisprudenza più risalente che escludeva la rilevanza
disciplinare della violazione dell'art. 37 vecchio C.D.F. (oggi art. 24 nuovo C.D.F.) sul conflitto
di interessi qualora si trattasse di conflitto solo in via potenziale. Precisa, in ogni caso,
che anche qualora i fatti addebitati fossero veri, la sua posizione e quella del Sig. [TIZIO] non
erano affatto antitetiche o incompatibili, poiché le difese del convenuto-responsabile civile
erano adesive rispetto alle domande proposte dall'attore-danneggiato. Di conseguenza, non
vi erano controparti sostanziali ma solo formali.
Ritiene il Collegio di non condividere la tesi del ricorrente secondo cui, al caso di specie,
si applicano le norme del vecchio C.D.F. e non quelle del nuovo C.D.F.-
Sul punto, occorre precisare che, ai sensi dell'art. 65, co. 5, L. N° 247/2012, ai procedimenti
disciplinari in corso si applicano le norme del nuovo codice deontologico forense qualora
più favorevoli per l'incolpato (v. anche Cass. Sez. Un., N° 3023/2015).
Il C.D.D. ha ritenuto, nella fattispecie, sussistente un conflitto di interessi anche se apparente,
poiché l'Avv. [RICORRENTE] aveva -di fatto- assunto la difesa di due soggetti portatori
di interessi confliggenti. Richiama, sul punto, l'evoluzione della giurisprudenza, che ha da
tempo riconosciuto la rilevanza deontologica del conflitto potenziale proprio per assicurare al
cliente un adeguata difesa, a prescindere peraltro dall'effettiva produzione di un eventuale
danno.
La fattispecie che rileva è quella di cui all'art. 24 co. 5 nuovo C.D.F.- Occorre evidenziare
che la nuova formulazione della norma ha aggiunto anche gli avvocati che professionalmente in maniera non occasionale> oltre a quelli di una medesima società o associazione
professionale, o che collaborano nei medesimi locali. Il ricorrente rileva che l'Avv.
[MEVIA] non esercitava nei medesimi locali, bensì risultava una collaboratrice occasionale
(anche se davanti al C.D.D. questa ha dichiarato di collaborare stabilmente con l'incolpato).
13
Ritiene, inoltre, l'Avv. [RICORRENTE], che si debba escludere l'applicabilità della nuova
fattispecie.
Ritiene il Collegio di dover rammentare, in ogni caso, che nel vecchio sistema deontologico
non vigeva alcun principio di tipicità dell'illecito disciplinare, spettando agli organi disciplinari
individuare i comportamenti deontologicamente rilevanti; il nuovo sistema deontologico
risulta di tipo misto, non tipico ma improntato solo tendenzialmente alla tipicità, e quindi governato
dall'insieme delle norme, primarie (artt. 3 c.3 – 17 c. 1 e 51 c.1. della L. 247/2012) e
secondarie (artt. 4 c. 2, 20 e 21 del C.D.F.), che dettano principi utili per circoscrivere il peri -
metro ordinamentale all'interno del quale deve essere ricostruito l'illecito disciplinare non tipizzato
(C.N.F., sent. N° 137/15).
Ad avviso del Collegio, quindi, la rilevanza deontologica della condotta non corretta del ricorrente
è pienamente sussistente.
Così come priva di censura ed esaustiva appare la motivazione del C.D.D., laddove ha
ritenuto la esistenza di un conflitto di interesse, seppure apparente, da parte dell'Avv. [RICORRENTE].
Sul punto il Collegio ritiene di dover confermare i propri precedenti approdi giurisprudenziali,
che sostengono quanto segue: l'art. 37 C.D.F. (ora 24 N.C.D.F.) mira ad evitare situazioni
che possano far dubitare della correttezza dell'operato dell'avvocato e, quindi, perché si
verifichi l'illecito, è sufficiente che potenzialmente l'opera del professionista possa essere
condizionata da rapporti di interesse con la controparte. Peraltro, facendo riferimento alle categorie
del diritto penale, l'illecito contestato all'avvocato è un illecito di pericolo, quindi l'asserita
mancanza di danno è irrilevante perché il danno effettivo non è elemento costitutivo
dell'illecito contestato (C.N.F., sent. del 12/9/2018, N° 101; conformi: C.N.F., N° 38/18; N°
186/17; N° 394/16; 265/16; 110/14; 222/13; 90/13; 142/10).
Anche sotto questo profilo, quindi, il ricorso è infondato e va rigettato.
6- A questo punto, accertata la sussistenza degli elementi idonei a sanzionare disciplinarmente
la condotta del ricorrente, occorre determinarne la entità, considerando, a tal fine, che
agli organi disciplinari è riservato il potere di applicare la sanzione adeguata alla gravità ed
alla natura del comportamento deontologicamente non corretto (cfr. Cass. Sez. Un., sent. N°
13791/12).
14
La determinazione della sanzione disciplinare non è frutto di un mero calcolo matematico,
ma è conseguenza della complessiva valutazione dei fatti (art. 21 N.C.D.F.), avuto riguardo
alla gravità dei comportamenti contestati, al grado della colpa o all'eventuale sussistenza
del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell'incolpato precedente e successivo al fatto,
alle circostanze -soggettive e oggettive- nel cui contesto è avvenuta la violazione, all'assenza
di precedenti disciplinari, al pregiudizio eventualmente subìto dalla parte assistita e dal
cliente, nonché a particolari motivi di rilievo umano e familiare, come pure alla buona fede del
professionista (C.N.F., sentenza del 22/11/2018, N° 145; conformi: C.N.F. N° 148/18; N°
145/18; N° 133/18; N° 112/18; N° 101/18).
Tenuto conto di quanto sopra nonché della possibilità consentita dall'art. 22 C.D.F. co. 3
di ridurre nei casi meno gravi la sanzione della sospensione alla censura, ritiene questo Consiglio
di modificare la sanzione irrogata dal C.D.D. del Veneto di sospensione dall'attività per
anni uno e di ridurla alla sanzione della censura.
P.Q.M.
Visti gli artt. 24 – 21 e 22 comma 3 N.C.D.F.;
Il Consiglio Nazionale Forense, in parziale riforma della decisione emessa dal C.D.D. del Veneto
in data 14 marzo 2017 e depositata il 10 maggio 2017, nei confronti dell'Avv. [RICORRENTE],
nato a [omissis] il [omissis] ed in parziale accoglimento del ricorso, riduce la
sanzione della sospensione dall'attività per anni uno alla sanzione della censura.
Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di
informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica
sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati
riportati nella sentenza.
08-09-2020 14:57
Richiedi una Consulenza