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Sentenza

Come si valuta la menomazione della salute e come si liquida la perdita della vita?
Come si valuta la menomazione della salute e come si liquida la perdita della vita?
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 02-07-2019) 11-11-2019, n. 28985
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. SESTINI Danilo - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - rel. Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi A. - Consigliere -
Dott. SCRIMA Antonietta - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16306-2017 proposto da:
ISTITUTO TUMORI (OMISSIS) ISTITUTO DI RICOVERO E CURA A
CARATTERE SCIENTIFICO, in persona del suo Direttore Generale Dott.
D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24,
presso lo studio dell'avvocato MARCO GARDIN, rappresentato e difeso
dagli avvocati DONATO GARGANO, RAFFAELE GARGANO;
- ricorrente -
contro
SACE BT SPA, in persona del Direttore Generale Dott. P.V.,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. D'AREZZO 32, presso lo
studio dell'avvocato MATTEO MUNGARI, che la rappresenta e difende;
MEDIOLANUM ASSICURAZIONI SPA in persona del procuratore speciale
Dott. S.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. D'AREZZO 32,
presso lo studio dell'avvocato MATTEO MUNGARI, che la rappresenta e
difende;
D.R.R., Di.Re.Ra., D.R.G., tutti nella qualità di eredi di G.M.,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI, 51, presso lo
studio dell'avvocato BRUNO GENTILE, rappresentati e difesi
dall'avvocato SAVINO DI TRANI;
- controricorrenti -
e contro
UNIPOLSAI SPA GIA' FONDIARIA SPA, UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA
GIA' UNIPOL ASSICURAZIONI SPA E PRIMA AURORA ASS.NI;
- intimati -
avverso la sentenza n. 1362/2016 della CORTE D'APPELLO di BARI,
depositata il 28/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
02/07/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE
ALESSANDRO che ha concluso per l'accoglimento motivo 7;
udito l'Avvocato DONATO GARGANO;
udito l'Avvocato SAVINO DI TRANI;
udito l'Avvocato PROVVIDENZA ORNELLA PISA per Mediolanum e per
SACE.
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 3.9.2010 n. 2732 il Tribunale Ordinario di Bari
rigettava la domanda proposta da G.M. e da D.R.G. nei confronti di
Istituto Tumori (OMISSIS), avente ad oggetto la condanna al
risarcimento dei danni subiti dalla G. (mielopatia dorsale da
radioterapia) a causa delle eccessive dosi di irradiazione della terapia
radiante somministrata alla paziente affetta da "linfogranuloma di
Hodgking", in quanto: 1- nell'anno 1989 la mielopatia trasversa non era
annoverata tra le conoscenze scientifiche dei rischi che potevano
derivare dal trattamento radioterapico; 2- i medici che avevano
praticato la terapia avevano correttamente osservato i protocolli della
cura al tempo vigenti.
Il Tribunale rigettava, altresì, la domanda di risarcimento danni per
omessa acquisizione del consenso informato sui rischi del trattamento
terapeutico, essendo estinto il diritto per prescrizione.
In riforma della impugnata sentenza, la Corte d'appello di Bari, con
sentenza in data 28.12.2016 n. 1362: a) dichiarava inammissibili in
quanto tardive le domande nuove proposte dai danneggiati nei confronti
delle società coassicuratrici Mediolanum s.p.a., Aurora s.p.a., Sace
Surety s.p.a. e Fondiaria s.p.a., chiamate in garanzia dall'Istituto
oncologico convenuto; b) accertata la responsabilità per
inadempimento della prestazione sanitaria, in quanto il rischio di
mielopatia dorsale, se pure raro, risultava segnalato dalla dottrina
scientifica e, comunque, in quanto i risultati positivi già conseguiti dalla
G. all'esito del precedente trattamento chemioterapico non
giustificavano l'alto dosaggio di radiazioni somministrato, condannava
l'Ospedale al risarcimento del danno non patrimoniale, in favore di
entrambi i danneggiati, che liquidava sulla scorta delle tabelle milanesi;
c) accoglieva, altresì, la domanda di garanzia proposta dall'Istituto
oncologico nei confronti dei coassicuratori che condannava a manlevare
l'assicurato nei limiti del massimale di polizza e per le quote di rischi
rispettivamente assunte da ciascuna società.
La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione dall'Istituto
oncologico con sette motivi.
Resistono, con distinti controricorsi, D.R.G., in proprio, e unitamente a
Di.Re.Ra. e R., quali eredi di G.M.; SACE BT s.p.a., incorporante Sace
Surety s.p.a. (già L'Assicuratrice Edile s.p.a.); Mediolanum
Assicurazioni s.p.a..
Non ha svolto difese UNIPOL SAI s.p.a. (già Fondiaria SAI s.p.a. e già
UNIPOL Ass.ni s.p.a. incorporante Aurora Ass.ni s.p.a.) cui il ricorso è
stato ritualmente notificato, presso i difensori della società incorporate,
in data 21.6.2017.
La parte ricorrente e le parti resistenti hanno depositato memorie
illustrative ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
p. 1. Primo motivo: violazione artt. 1176, 2236 e 2043 c.c..
L'Istituto ricorrente contesta l'accertamento della responsabilità dei
medici compiuto dalla Corte d'appello, nonostante i sanitari avessero
osservato i protocolli terapeutici in vigore all'epoca e dovendosi
ravvisare nella specie la particolare difficoltà tecnica della prestazione,
non essendo stato, inoltre, indicato dai Giudici quale avrebbe dovuto
essere la esatta proporzione del dosaggio radio da somministrare.
1.1 Il motivo è inammissibile criticando la ricorrente non la violazione
di norme di diritto ma l'accertamento di fatto, in concreto compiuto
dalla Corte di merito, in tal modo venendo a richiedere una
inammissibile revisione delle risultanze probatorie.
Indipendentemente dalla novità della questione concernente la
"speciale difficoltà tecnica" dell'intervento terapeutico, che non risulta
eccepita nè discussa nei precedenti gradi di merito e rimane quindi
preclusa al sindacato di legittimità, si osserva che la Corte territoriale,
dopo aver escluso dall'oggetto del giudizio - non essendo stata investita
dai motivi di gravame delle parti - ogni questione relativa
all'accertamento del nesso eziologico tra la somministrazione
dell'elevato dosaggio della radioterapia e l'evento lesivo della salute
consistito nella "mielopatia dorsale trasversa", ha poi deciso la
controversia in base alla disciplina degli artt. 1218 e 2697 c.c., secondo
cui spetta al debitore della prestazione contrattuale fornire la prova
della non imputabilità per colpa dell'inadempimento, o dimostrando di
avere correttamente eseguito la prestazione, od indicando che l'evento
sopravvenuto non era in ogni caso prevedibile ed evitabile con la dovuta
diligenza.
La Corte d'appello al riguardo ha rilevato che tale prova liberatoria non
era stata fornita, ed anzi sussisteva al contrario la prova della colpa
professionale in relazione alla mancata osservanza della generale
regola di prudenza secondo cui, se il paziente deve essere sottoposto a
trattamenti invasivi, il medico deve tentare di coniugare la "misura" del
trattamento da somministrare (nella specie il dosaggio) con il risultato
che si intende conseguire, avendo specifico riguardo alle condizioni del
paziente ed alla reattività alla cura, ed evitando, quindi, una inutile e
dannosa sproporzione tra il mezzo impiegato e l'effetto da raggiungere,
sia quando non sono ancora bene noti e definiti i possibili effetti
indesiderati derivanti da un elevato dosaggio, e tanto più quando sono,
invece, noti i numerosi e possibili danni collaterali determinati da una
massiccia esposizione alla radioterapia (sentenza appello, in
motivazione, pag. 11 e 12).
Nella specie la colpa professionale è stata ascritta ai medici dell'Istituto,
in quanto le elevate dosi di energia radiante cui era stata sottoposta la
G., in relazione alle quali erano noti molteplici effetti negativi collaterali
(pur non essendo acquisito a livello statistico e di conoscenza
scientifica, come probabilisticamente certo, anche il rischio della
specifica patologia in concreto derivata), non potevano comunque
trovare giustificazione, avuto riguardo ai risultati positivi che erano stati
già conseguiti dalla paziente con il precedente ciclo di chemioterapia,
con la conseguenza che nel caso di specie rimaneva integrata la
violazione della generale regola di prudenza, non essendo
proporzionato il dosaggio rispetto alle condizioni di salute del soggetto.
1.2 Le considerazioni, svolte nel motivo, in ordine alla mancanza di
indicazioni certe nelle fonti scientifiche circa la corretta proporzione tra
dosaggio e risultato conseguibile ai fini della "definitiva remissione di
una patologia ad effetti mortali", non fanno altro che rimarcare la
assenza della prova liberatoria ex art. 1218 c.c. che l'Istituto sanitario
non è stato in grado di offrire, e cioè la prova che nella incertezza
scientifica indicata la somministrazione di un elevato dosaggio - anzichè
di un dosaggio mantenuto al di sotto della incidenza riscontrata per le
altre "complicanze" conosciute - rispondesse al canone della prudenza
cui è tenuto l'operatore sanitario.
Al riguardo deve essere ribadito il principio secondo cui nel giudizio di
responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all'art. 1218
c.c. non è sufficiente dimostrare che l'evento dannoso per il paziente
costituisca una "complicanza", rilevabile nella statistica sanitaria,
dovendosi ritenere tale nozione (indicativa nella letteratura medica di
un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente
prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui
ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo
ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a
colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare
gli estremi della causa non imputabile (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza
n. 13328 del 30/06/2015). Nella specie la Corte di merito ha ritenuto,
per un verso, che la complicanza di "mielopatia dorsale", se pure rara,
fosse stata rilevata dagli studi scientifici (il primo caso fu accertato nel
1941 come riportato negli Atti del XXIII Congresso AIRO 2013: cfr.
sentenza appello, in motivazione, pag. 10); per altro verso tenuto conto
dei rischi conosciuti derivanti dall'alto dosaggio di terapia radiante, ha
ritenuto comunque ininfluente la conoscenza della effettiva rilevanza
statistica della predetta complicanza, atteso che l'avere sottoposto la
paziente, senza una plausibile giustificazione fornita dal suo stato di
salute apprezzato all'esito della chemioterapia, ad un trattamento
(dosaggio superiore a 40 Gy) che comunque acuiva il rischio di gravi
effetti collaterali - in questo caso conosciuti: "polmonite, cardite,
ipertiroidismo, alterazioni ossee, sterilità, ipoplasia midollare, leucemia
acuta non linfoide" - integrava già di per sè la violazione della regola di
prudenza che impone la somministrazione di un trattamento
terapeutico proporzionato al risultato da perseguire in relazione alle
condizioni concrete sulle quali si intende intervenire.
1.3 All'accertamento in concreto della colpa generica e della non
assoluta imprevedibilità della indicata complicanza (in quanto rischio
possibile se pure non probabile), corrisponde la assenza della prova
liberatoria della responsabilità professionale, dovendo ritenersi esente
dal vizio denunciato la statuizione della sentenza di appello impugnata.
p. 2. Secondo motivo: violazione art. 2395 c.c. (recte: 2935) e art.
2043 c.c. (in relazione all'accertamento diritto risarcitorio per mancato
consenso informato); violazione artt. 1223 e 2043 c.c. (in ordine al
nesso causale).
Terzo motivo: violazione art. 2943 c.c. (in relazione agli atti interruttivi
della prescrizione del 18.2.1991 e del 2.2.1996).
L'Istituto ricorrente deduce:
con il secondo motivo, che, sia le norme della Unione Europea (art. 3,
comma 2, primo alinea della Carta dei diritti fondamentali della Unione
Europea - CDFUE, detta Carta di Nizza proclamata il 7.12.2000 ed
adottata con la firma del Trattato di Lisbona - che ha modificato l'art.
6, comma 1, TUE statuendo che la Carta ha lo stesso valore giuridico
dei trattati - del 13.12.2007, ratificato con L. 2 agosto 2008, n. 130),
sia la Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo (convenzione
di Oviedo del 4.4.1997, ratificata con L. 28 marzo 2001, n. 145) - che
prescrivevano nei rapporti tra medico e paziente la necessità del
preventivo consenso informato - erano successive ai fatti e, dunque, al
tempo del trattamento terapeutico, non poteva integrare
inadempimento contrattuale la mancata acquisizione del consenso del
paziente; in ogni caso, essendo ignota, al tempo, la "complicanza" del
mieloma, veniva meno il nesso eziologico tra carenza del consenso ed
evento lesivo con il terzo motivo, che era errato il differimento, alla data
degli accertamenti strumentali compiuti nell'anno 1990 presso l'Istituto
"Besta", dell'inizio della decorrenza del termine prescrizionale relativo
alla pretesa risarcitoria per mancanza di consenso informato.
2.1 Il secondo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
La parte ricorrente non considera che le norme Eurounitarie ed
internazionali richiamate non hanno fatto altro che recepire quello che
era già considerato un dovere informativo oggetto della obbligazione
assunta dal medico verso il paziente con il rapporto di assistenza
sanitaria (cfr. tra le prime decisioni in merito: Corte cass. Sez. 3,
Sentenza n. 3906 del 06/12/1968).
Deve ritenersi, infatti, ormai definitivamente acquisito nella
giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18513
del 03/09/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 7237 del 30/03/2011; id. Sez.
3, Sentenza n. 20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 25764
del 15/11/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 14642 del 14/07/2015) che la
manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria,
costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo
all'autodeterminazione proprio della persona fisica (la quale in piena
libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapia farmacologica o
ad esami clinici e strumentali, o ad interventi o trattamenti anche
invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero
alterazioni di natura psichica, in funzione della cura e della eliminazione
di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile
patologia od un aggravamento della patologia futuri), che - se pure
connesso - deve essere tuttavia tenuto nettamente distinto - sul piano
del contenuto sostanziale - dal diritto alla salute, ossia dal diritto del
soggetto alla propria integrità psico-fisica (cfr. Corte costituzionale,
sentenza 23.12.2008 n. 438 "....il consenso informato, inteso quale
espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario
proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della
persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che
ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost.,
i quali stabiliscono, rispettivamente, che "la libertà personale è
inviolabile", e che "nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge". La circostanza
che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32
Cost. pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali
della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in
quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli
ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla
natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere
sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che
devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la
libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa
libertà personale, conformemente all'art. 32 Cost., comma 2"). Al
diritto indicato corrisponde l'obbligo del medico (di fonte contrattuale o
comunque correlato ad analoga obbligazione ex lege che insorge dal cd.
"contatto sociale": cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847 del
09/02/2010) di fornire informazioni dettagliate, in quanto
adempimento strettamente strumentale a rendere consapevole il
paziente della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua
portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle
possibili conseguenze negative (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n.
20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 27751 del 11/12/2013).
Il medico è tenuto, in ogni caso, a rendere edotto il paziente,
indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività
informativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, trovando
titolo il dovere in questione nella qualificazione "illecita" della condotta
omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della
persona, e dunque da ritenere "contra jus", indipendentemente dalla
sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o
del contatto sociale, ovvero dell'illecito extracontrattuale: ai fini della
verifica della violazione del diritto alla autodeterminazione, non
assume, dunque, alcun rilievo la modifica legislativa della natura della
responsabilità professionale medica, trasformata da contrattuale o
paracontrattuale ad extracontrattuale, operata dalle leggi intervenute
nel 2012 (D.L. n. 158 del 2012 conv. L. n. 189 del 2012, cd. Balduzzi)
e nel 2017 (L. n. 24 del 2017, cd. Gelli-Bianco). L'obbligo informativo
in questione, ha trovato, peraltro, definitivo inquadramento come
obbligo ex lege, la cui violazione integra responsabilità penale e civile,
nella L. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1, commi 3-6, art. 3, commi 1-
5 e art. 5 (recante "Norme in materia di consenso informato e di
disposizioni anticipate di trattamento"), prescrivendo tali norme che
"Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e
di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile
riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli
accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonchè
riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale
rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della
rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le
informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia
incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il
paziente lo vuole", essendo stato altresì disposto che "Il rifiuto o la
rinuncia alle informazioni e l'eventuale indicazione di un incaricato sono
registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico" (art.
1, comma 3), e che il consenso deve essere acquisito secondo le
modalità prescritte - anche dai soggetti incapaci naturali e legali minori,
interdetti, inabilitati ed amministrati - (art. 3).
Ne segue che il mero dato cronologico riferito alle fonti di diritto
Eurounitario ed internazionale non è argomento spendibile per
sostenere la inesistenza nel 1989 - avuto riguardo al tempo di
esecuzione della prestazione sanitaria - di un corretto obbligo
informativo sulla tipologia e modalità delle cure, sui benefici
conseguibili, sui possibili effetti indesiderati, sul rischio di complicanze
anche peggiorative dell'attuale stato di salute (cfr. Corte cass. Sez. 3 -
, Sentenza n. 24074 del 13/10/2017).
2.2 La censura afferente la carenza del nesso eziologico tra mancanza
del consenso informato e danno alla salute è inammissibile per carenza
di interesse, in quanto l'accertamento dell'inadempimento dell'obbligo
informativo non riveste, nella fattispecie, rilievo causale "determinante"
nella produzione del "danno biologico", nè di alcun altro danno di
qualsiasi natura: Tale affermazione necessita, tuttavia, di alcune
precisazioni.
Come emerge dalla sentenza di appello (motiv. pag. 19-21) la Corte
territoriale, pur avendo affermato che "il peggioramento dello stato di
salute della G." doveva ritenersi "danno-conseguenza pure di tale
violazione (omessa acquisizione del consenso)....e comporta il
riconoscimento del diritto degli attori-appellanti al risarcimento
invocato", non ha poi riconosciuto e risarcito alcun danno ulteriore per
la "lesione della libertà di autodeterminazione" (non vengono
individuate voci di danno diverse da quello "biologico" inteso come
compromissione della capacità psicofisica del soggetto sotto il profilo
dinamico-relazionale - invalidità temporanea e permanente -, ritenuto
inclusivo anche della sofferenza psico-fisica), ma ha soltanto ritenuto
che, la condotta omissione informativa, in quanto integrante
inadempimento contrattuale, aveva anch'essa concorso causalmente a
produrre il danno alla salute. Al proposito occorre osservare che
l'Istituto ricorrente incorre, evidentemente, in equivoco, laddove
imputa al Giudice di appello l'errore di avere contestato al medico di
non aver rappresentato alla paziente il rischio di "mielopatia dorsale
trasversa", sebbene tale patologia non fosse al tempo conosciuta come
complicanza della radioterapia. La Corte territoriale, infatti, ha imputato
ai sanitari la colpa per omissione informativa, non in relazione al rischio
di tale complicanza, ma, in generale, con riferimento ad una serie di
altre circostanze rilevanti ai fini di una scelta consapevole della
paziente: i medici cioè non avevano fornito alcuna informazione sulla
"tipologia dei cicli terapeutici", sui "possibili effetti iatrogeni all'epoca
conosciuti", sulla individuazione della "giusta dose", sulla "illustrazione
dei rischi e benefici" inerenti alle diverse opzioni.
La decisione adottata dalla Corte di merito, con riferimento
all'"contenuto oggettivo" delle informazioni omesse, è da ritenere,
pertanto, corretta e dunque rimane accertata la violazione del diritto
alla autodeterminazione per inosservanza dell'obbligo informativo.
La contestazione dell'Istituto ricorrente ha riguardato altresì
l'affermazione del Giudice di appello che ha riconosciuto la rilevanza
eziologica della omessa informazione, e dunque della violazione del
diritto alla autodeterminazione, nella determinazione del danno alla
salute, sostenendo che non era stata svolta alcuna indagine sulla scelta
che la paziente avrebbe effettuate, in ordine alla accettazione dei rischi
connessi al trattamento terapeutico, se posta in condizione di conoscere
tutte le informazioni rilevanti.
2.3 Osserva il Collegio che astrattamente fondato è il rilievo per cui, in
presenza di richiesta di risarcimento del solo "danno biologico" quale
danno-conseguenza, la condotta omissiva informativa, viene a rilevare
in modo differente sul piano della antecedenza causale, secondo che -
con giudizio da formulare di ex ante - il paziente, se posto in grado di
compiere la scelta alternativa, avrebbe accettato o rifiutato di sottoporsi
al trattamento sanitario.
E' bene vero, come afferma la parte ricorrente, che la condotta illecita,
per omessa informazione, è autonoma rispetto a quella inerente il
trattamento terapeutico, ed è altresì indubitabile che l'interesse leso da
tale condotta è oggettivamente distinto da quello della salute del
soggetto, identificandosi nella compromissione della libertà di
autodeterminazione della persona. Tuttavia la relazione medicopaziente
si caratterizza per la unitarietà del rapporto giuridico articolato
in plurime obbligazioni tra loro poste in nesso di connessione
strumentale, in quanto tutte convergenti al perseguimento del risultato
della cura e del risanamento del soggetto, sicchè non può affermarsi
come vorrebbe l'Istituto- una assoluta autonomia delle fattispecie
illecite (per omessa informazione e per errata esecuzione del
trattamento terapeutico), tale da escludere ogni interferenza delle
stesse nella produzione del medesimo danno-conseguenza, bene
essendo - invece - possibile che anche l'inadempimento della
obbligazione avente ad oggetto la corretta informazione sui rischibenefici
della terapia venga ad inserirsi tra i fattori "concorrenti" della
stessa serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo,
pertanto, riconoscersi alla omissione informativa una astratta capacità
plurioffensiva, in quanto potenzialmente idonea a ledere distinti
interessi sostanziali, rispettivamente, il diritto alla autodeterminazione
ed il diritto alla salute - entrambi, quindi, suscettibili di reintegrazione
risarcitoria, laddove sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di
tali diritti siano derivate specifiche conseguenze dannose.
2.4 Deve al riguardo essere chiarito come la struttura dell'illecito civile
non si esaurisce con l'"eventus-damni", e cioè con la violazione del
diritto o dell'interesse tutelato dall'ordinamento, ma richiede altresì per
la insorgenza della responsabilità (con la relativa corrispondente venuta
ad esistenza, da un lato, del credito del danneggiato, avente ad oggetto
la pretesa risarcitoria della perdita subita e, dall'altro, della obbligazione
del responsabile, avente ad oggetto la prestazione reintegratoria - in
forma specifica o per equivalente - della "deminutio" cagionata al
danneggiato) della prova della esistenza di una "determinata
conseguenza pregiudizievole" di natura patrimoniale o non
patrimoniale, ricollegabile -secondo un nesso di diretta immediatezza
ex art. 1223 c.c. - all'"eventum-damni" (cfr. Corte cass. Sez. 3 -,
Ordinanza n. 907 del 17/01/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 5807 del
28/02/2019, entrambe con riferimento al danno parentale da perdita
del congiunto - id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 31233 del 04/12/2018; id.
Sez. 3 -, Sentenza n. 11203 del 24/04/2019 - entrambe relative al
danno da lesione di diritto assoluto -; id. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 7594
del 28/03/2018 - in tema di danno da lesione di diritto della personalità
-; id. Sez. 3, Sentenza n. 15240 del 03/07/2014 - in tema di danno
derivante da violazione della privacy -).
Orbene la domanda di risarcimento danni per violazione del diritto alla
autodeterminazione, in materia di responsabilità sanitaria, può, in
astratto, avere per oggetto tanto il danno biologico conseguito ad un
intervento inesattamente eseguito, quanto "altri e diversi" danni di
natura non patrimoniale - non incidenti sulla capacità psicofisica - o di
natura patrimoniale (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 7248 del
23/03/2018 - non massimata -; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 17022 del
28/06/2018).
Come è stato puntualmente rilevato "se la compromissione
dell'interesse giuridico del paziente a compiere in piena autonomia una
valutazione complessiva dei "costi-benefici" dell'intervento (ndr
eventuali damni), ..... non si limita soltanto al risultato terapeutico, ma
investe anche aspetti ulteriori quali gli eventuali effetti collaterali
invalidanti, la durata della riabilitazione, il perdurare o riprodursi di
sofferenze dovute ai postumi, la accettazione di eventuali mutamenti
irreversibili delle abituali condizioni di vita (ndr danni-conseguenza) non
altrettanto evidenzia "ex se", con assoluta diretta immediatezza, la
relazione causale con altre conseguenze pregiudizievoli, quali per
l'appunto il danno da lesione del diritto alla salute, quale esito negativo
prevedibile dell'atto operatorio eseguito "secundum leges artis", atteso
che con riferimento a tale evento - la omessa informazione assume di
per sè carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza
causale dell'inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla
alternativa "consenso/dissenso" che qualifica detta omissione, laddove,
in caso di presunto consenso, l'inadempimento, pur esistente,
risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato
infausto dell'intervento, in quanto comunque voluto dal paziente;
diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece
efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l'intervento
terapeutico non sarebbe stato eseguito - e l'esito infausto non si
sarebbe verificato - non essendo stato voluto dal paziente. La
allegazione dei fatti dimostrativi della opzione "a monte" che il paziente
avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante
dell'onere della prova del nesso eziologico tra l'inadempimento e
l'evento dannoso, che in applicazione dell'ordinario criterio di riparto
ex art. 2697 c.c., comma 1, compete ai danneggiati...." (cfr. Corte cass.
Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018, in motivazione).
Pertanto nel caso in cui alla mancanza di preventivo consenso consegua
soltanto un "danno biologico" (perchè soltanto questo danno viene
allegato e dimostrato dal danneggiato: e tale è la ipotesi oggetto del
presente giudizio), ai fini dell'accertamento della causa immediata e
diretta di tale danno-conseguenza, deve essere indagata la relazione
che viene ad istituirsi tra inadempimento dell'obbligo di acquisizione del
consenso informato del paziente ed inesatta esecuzione della
prestazione professionale, dovendo accertarsi quale sarebbe stata la
scelta compiuta dal paziente se correttamente informato:
se il paziente, qualora fosse stato compiutamente informato dei rischi
prevedibili derivanti dal trattamento, avrebbe comunque prestato senza
riserve il consenso a quel tipo di intervento (avuto riguardo alla
necessità dello stesso, alle proprie condizioni di salute, al tempo ed alle
modalità di esecuzione), l'inadempimento dell'obbligo informativo viene
ad esaurirsi in una fattispecie autonoma priva di conseguenze dannose,
e pertanto detta omissione non solo non può concorrere ma neppure
costituire mero presupposto del "danno biologico", essendo questo,
invece, da imputare in via esclusiva quale conseguenza diretta della
lesione del diritto alla salute determinata dalla - successiva - errata
esecuzione della prestazione professionale: in tal caso, quindi, in
assenza di altre specifiche tipologie di danni-conseguenza allegati e
dimostrati dal danneggiato, all'accertamento della omissione
informativa non consegue alcun (ulteriore) obbligo risarcitorio, non
inserendosi la violazione del diritto alla autodeterminazione nella serie
causale originata, invece, esclusivamente dall'inesatto adempimento
della prestazione professionale da cui è derivato il danno biologico: il
corretto adempimento di tale obbligo informativo, infatti, non avrebbe
comunque impedito o modificato la esecuzione di quel trattamento
terapeutico (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 24074 del
13/10/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 19199 del 19/07/2018) se il
paziente, debitamente informato, avrebbe, invece, rifiutato di
sottoporsi al trattamento sanitario, l'atto medico successivo viene a
palesarsi come lesione personale arrecata "contra nolentem" e l'effetto
negativo per la salute scaturente dalla inesatta esecuzione della
prestazione (danno biologico) viene a costituire danno-conseguenza
riferibile "ab origine" alla violazione - derivante dall'inadempimento
dell'obbligo informativo - del diritto di scelta contraria del paziente
(scelta da ricostruire ora per allora mediante giudizio controfattuale),
configurandosi la prestazione sanitaria inesatta come condotta illecita
susseguente violativa, al tempo stesso, della presunta volontà contraria
e del diritto alla salute: la originaria condotta omissiva si inserisce e dà
origine, quindi, alla serie causale, in cui, anche l'atto lesivo della salute,
concorre alla produzione del danno-conseguenza (danno biologico).
Il paziente avrebbe, peraltro, potuto prestare il consenso ma a
condizioni diverse (dunque con alcune riserve rispetto al contenuto
informativo), allegando ad esempio che avrebbe assentito al
trattamento sanitario, ma che consentendolo lo stato patologico
accertato -, se correttamente informato, avrebbe tuttavia optato per un
differimento del tempo in cui sottoporsi all'intervento, in modo da poter
perseguire altri interessi od assolvere a propri impegni che non
avrebbero potuto essere altrimenti soddisfatti in un tempo successivo,
ed ai quali aveva dovuto invece rinunciare. Ma in tal caso, è agevole
rilevare che: o il paziente allega e dimostra quali "ulteriori" pregiudizi
(danni-conseguenza) ha subito (rispetto al "danno biologico" derivato
dall'inesatta esecuzione della prestazione terapeutica), per non essere
stato posto in grado di effettuare tale opzione temporale, e qualora
trattasi di pregiudizi di natura non patrimoniale, condizione di
risarcibilità di tale tipo di danno sarà l'obbiettivo superamento della
soglia della serietà/gravità, secondo l'insegnamento di cui a Corte cass.
SSUU n. 26972/2008 e Corte cass. n. 26975/2008), predicative del
principio per cui il diritto leso, per essere oggetto di tutela risarcitoria,
deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da
determinarsi dal giudice nel bilanciamento con il principio di solidarietà
secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un
determinato momento storico (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n.
7248 del 23/03/2018 - non massimata -; id. Sez. 3 -, Sentenza n.
17022 del 28/06/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20885 del
22/08/2018); oppure si viene a ricadere nella ipotesi, sopra descritta,
della irrilevanza dell'inadempimento all'obbligo informativo in presenza
di un consenso al trattamento (desunto in esito a giudizio
controfattuale), che per ciò stesso esclude una incidenza causale della
condotta omissiva sul "danno biologico" quando solo tale dannoconseguenza
viene allegato e dimostrato dal danneggiato.
2.5 Gli argomenti svolti nel precedente paragrafo, intendono
confermare e dare seguito, implementandola e perfezionandola, alla
elaborazione giurisprudenziale che questa Corte di legittimità ha svolto,
nell'ultimo decennio, nella materia del consenso informato relativo alla
somministrazione delle cure mediche e farmacologiche e della
violazione della libertà di autodeterminazione del paziente (si veda, in
riferimento al periodo indicato: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847
del 09/02/2010; Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7248 del 23/03/2018),
dovendosi pervenire alla formulazione dei seguenti enunciati:
"La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente,
può causare due diversi tipi di danni:
a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente
- sul quale grava il relativo onere probatorio - se correttamente
informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non
subirne le conseguenze invalidanti);
b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile
se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un
pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo
caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla
salute. (ex multis Cass. 2854/2015; 24220/2015; Cass. 24074/2017;
Cass. 16503/2017; Cass. 7248/2018).
Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad
una omesso od insufficiente informazione:
A) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che
ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del
medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle
medesime condizioni, "hic et nunc": in tal caso, il risarcimento sarà
limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice
componente, morale e relazionale;
- 8) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che
ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del
medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il
risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto
all'autodeterminazione del paziente;
- C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha
cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un
aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non
colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi:
in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione
del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo),
mentre la lesione della salute - da considerarsi comunque in relazione
causale con la condotta, poichè, in presenza di adeguata informazione,
l'intervento non sarebbe stato eseguito - andrà valutata in relazione alla
eventuale situazione "differenziale" tra il maggiore danno biologico
conseguente all'intervento ed il preesistente stato patologico
invalidante del soggetto;
- D) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia
cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque
scelto di sottoporsi: in tal caso, nessun risarcimento sarà dovuto";
- E) Omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato
danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di
accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (come nel caso del
tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la
sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa
l'esistenza di test assai più attendibili, quali l'amniocentesi, la
villocentesi, la translucenza nucale): in tal caso, il danno da lesione del
diritto, costituzionalmente tutelato, alla autodeterminazione sarà
risarcibile (giusta il già richiamato insegnamento del giudice delle leggi)
qualora il paziente alleghi che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente
informazione, gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di
natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e
contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e
fisicamente - salva possibilità di provata contestazione della
controparte.
"Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione
che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto
terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito "secundum legem
artis", ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del
paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un
consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione
del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del
consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica
ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla
autodeterminazione - perfezionatosi con la condotta omissiva violativo
dell'obbligo informativo preventivo - e conseguenze pregiudizievoli che
da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Il paziente che alleghi l'altrui inadempimento sarà dunque onerato della
prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:
a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal
paziente al medico;
b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta
soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va
individuato in base al criterio della cd. "vicinanza della prova";
c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di
necessità/opportunità dell'intervento operata dal medico costituisce
eventualità non corrispondente all'"id quod plerumque accidit".
Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio,
le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un
rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di
salute del paziente e sul grado di necessarietà dell'operazione, non
potendosi configurare, "ipso facto", un danno risarcibile con riferimento
alla sola omessa informazione, attesa l'impredicabilità di danni "in re
ipsa" nell'attuale sistema della responsabilità civile".
2.6 Tanto premesso il motivo di censura, pure se astrattamente
fondato, in quanto alcun accertamento è stato compiuto dalla Corte
d'appello in ordine ad un presumibile rifiuto della G. - ove correttamente
informata dei rischi connessi al trattamento - a sottoporsi a ciclo di
radioterapia ad elevato dosaggio, deve ritenersi, tuttavia, carente di
interesse, ed è quindi inammissibile, in quanto il riconoscimento e la
liquidazione del danno biologico, trova in ogni caso fondamento
eziologico nella inesatta esecuzione della prestazione radioterapica, che
integra autonoma "ratio decidendi" idonea a sostenere la condanna
dell'Istituto al risarcimento del danno.
2.7 Il terzo motivo è infondato.
La Corte d'appello non ha affatto sovrapposto fattispecie di diritto
diverse (diritto alla salute; libertà di autodeterminazione), nè ha inteso
ravvisare un "impedimento di fatto" alla decorrenza del termine
prescrizionale in violazione dell'art. 2935 c.c. - giusta la interpretazione
consolidata di tale norma secondo cui rilevano esclusivamente gli
"impedimenti di diritto" -, ma ha invece fatto applicazione del principio
enunciato da questa Corte secondo cui l'insorgenza del credito
risarcitorio, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, implica
la necessaria epifania degli elementi costitutivi dello stesso diritto - nel
caso di specie la riferibilità della conseguenza dannosa all'atto medico:
in assenza della quale neppure sarebbe astrattamente configurabile un
inadempimento della obbligazione contrattuale - tale da consentire la
percepibilità - secondo la normale diligenza e tenendo conto della
diffusione delle conoscenze scientifiche - della patologia "quale danno
ingiusto" conseguente al comportamento del terzo, sicchè, in assenza
di tale manifestazione, non venendo ad esistenza alcun diritto, lo stesso
neppure può iniziare a prescriversi (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n.
576 del 11/01/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 12699 del 25/05/2010;
Sez. 3, Sentenza n. 12699 del 25/05/2010 id. Sez. 3, Sentenza n.
15453 del 14/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 17572 del 18/07/2013
- con riferimento a danni derivati da illeciti finanziari -; id. Sez. 3,
Sentenza n. 21715 del 23/09/2013 - con riferimento a danni da ipossia
perinatale -; id. Sez. 3, Sentenza n. 28464 del 19/12/2013; id. Sez. 3
-, Ordinanza n. 22045 del 22/09/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 13745
del 31/05/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 18521 del 13/07/2018).
2.8 Nella specie la Corte territoriale, con accertamento di fatto
insindacabile in questa sede, ha affermato che la evidenza di tale
collegamento eziologico, tra patologia ed atto medico, era emersa per
la prima volta dalla diagnosi che era stata posta all'esito degli esami
neurologici eseguiti nel mese di settembre 1990 presso l'Istituto Besta,
data in relazione alla quale l'atto di citazione, notificato in data
20.6.2000, aveva validamente interrotto la ordinaria prescrizione
decennale.
p. 3. Quarto motivo: omesso esame fatto decisivo (art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5).
Sostiene la ricorrente che il Giudice di appello avrebbe illegittimamente
liquidato il danno biologico alla G. su base tabellare, senza tener conto
che il soggetto, anteriormente alla prestazione sanitaria non presentava
una validità biologica piena, essendo affetto dal morbo di Hodgkin
(patologia letale), e dunque poteva essere imputato alla struttura
sanitaria soltanto il cd. "danno differenziale".
3.1 Il motivo è inammissibile per difetto di specificità, mancando del
tutto la indicazione del "fatto storico decisivo", acquisito ritualmente al
giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, come richiesto dall'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo riformato dal D.L. n. 83 del
2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012.
3.2 Indipendentemente da ogni questione concernente la delimitazione
dei postumi invalidanti imputabili esclusivamente alla condotta illecita,
ed il conseguente scorporo dalla complessiva invalidità biologica
residuata dopo l'intervento, del grado percentuale di invalidità
corrispondente alla minorata condizione di cui il soggetto era già affetto
per altra causa, occorrendo a tal fine distinguere tra menomazioni
concorrenti - che incidono, aggravandoli, sui postumi - e menomazioni
coesistenti - che attengono ad un diverso distretto anatomo-funzionale
e non incidono sulla gravità dei postumi -, osserva il Collegio che, nella
specie, la parte ricorrente ha omesso di indicare:
a) se tale questione, concernente la liquidazione del solo danno cd.
differenziale, fosse stata o meno dedotta fin dal primo grado di giudizio;
b) se e quale fosse l'effettivo stato invalidante anteriore della paziente,
e cioè quale fosse la pregressa effettiva riduzione delle "capacità
relazionali" del soggetto, non essendo sufficiente a tal fine la mera
indicazione della "esistenza della patologia tumorale", della quale non
viene allegato lo stadio e gli effetti concreti sulla capacità di svolgere le
normali attività fisiche e sociali: in particolare neppure viene allegato
se, a causa del morbo di Hodgkin, la paziente fosse già impossibilitata
a deambulare, od a svolgere attività fisica o fosse già affetta da altre
limitazioni di origine mielopatica.
Tali elementi di fatto, essenziali per potere verificare l'errore
asseritamente commesso dalla Corte territoriale, non sono stati
neppure allegati dall'Istituto ricorrente, che neppure si è peritato di
chiarire quale indagini siano state svolte al riguardo dal CTU e se nella
determinazione del grado di percentuale di invalidità permanente
abbiano avuto o meno rilievo le pregresse condizioni della paziente.
3.3 La censura si palesa pertanto inammissibile.
p. 4. Quinto motivo: violazione dell'art. 1223 c.c. (e dell'art. 1225
c.c. imprevedibilità della complicanza).
Sostiene la ricorrente che, non essendo nota la "mielopatia dorsale
trasversa" tra le possibili complicanze della radioterapia ad alto
dosaggio, detta patologia non era "prevedibile" quale conseguenza
immediata e diretta dell'inadempimento contrattuale colposo.
4.1 Il motivo è infondato.
La "complicanza" non attiene infatti al momento del "dannoconseguenza",
ma in quanto lesione del diritto alla salute, al momento
dell'evento-lesivo (eventus-damni) che si colloca in una fase
cronologicamente e logicamente precedente dello sviluppo della
fattispecie illecita dannosa:
1) inadempimento della obbligazione/errore nella esecuzione della
prestazione professionale;
2) determinazione o aggravamento dello stato patologico del
paziente/evento lesivo della salute;
3) invalidità temporanea o permanente che ne è derivata/danno
conseguenza (non patrimoniale);
4.2 Occorre, infatti, distinguere la relazione eziologica "tra condotta ed
evento-lesivo", che deve essere indagata sul piano della cd. "causalità
materiale" (che richiede la copertura di leggi scientifiche o statistiche,
o della applicazione del principio di conseguenzialità logica espresso
dalla teoria cd. della causalità adeguata articolata in base alla "causa
prevalente" ovvero alla causa "più probabile che non", e che trova
fondamento normativo negli artt. 40 e 41 c.p. e nell'art. 1227 c.c.,
comma 1) dalla relazione eziologica "tra evento-lesivo e conseguenze
dannose", che va invece indagata sul piano della cd. "causalità
giuridica" (ossia applicando il criterio di regolarità inteso come
riconoscibilità della perdita di capacità o della perdita patrimoniale tra
le ipotizzabili situazioni che possono attendersi - secondo un criterio di
vicinanza fondato sull'"id quod prelumque accidit" - da quel determinato
evento lesivo, e che trova fondamento giuridico nell'art. 1223 c.c.,
rimanendo quindi escluse quelle sole situazioni che si caratterizzano per
l'assoluta abnormità o per la eccezionale sproporzione della loro
dimensione - art. 1225 c.c. che pone a carico del responsabile anche
queste ultime in caso di condotta dolosa -).
Ed infatti questa Corte ha avuto modo di precisare che un evento
dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro
se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato
in assenza del secondo (cosiddetta teoria della "conditio sine qua non"):
ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per
determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi,
all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante, non
appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità
adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una
teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno). In tal
senso viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da
quella delle conseguenze dannose, cui allude l'art. 1225 c.c., ed anche
dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poichè essa
prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell'uomo medio, ossia
all'elemento soggettivo dell'illecito, e concerne, invece, le regole
statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di
un certo evento ad un fatto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11609
del 31/05/2005; Sez. 1, Sentenza n. 26042 del 23/12/2010); mentre
solo successivamente il Giudice deve procedere ad accertare il secondo
segmento della fattispecie illecita dannosa, indagando il nesso di
causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose
risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in
applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola
eziologica (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013).
4.3 Orbene la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione del criterio
di "causalità cd. giuridica" che lega l'evento lesivo (eventus-damni) alle
conseguenze dannose risarcibili (danni-conseguenza), in relazione alla
perdita della capacità biologica, alla sofferenza psichica patita dalla G.
ed al danno non patrimoniale liquidato al coniuge di quella, in relazione
alla grave alterazione dei rapporti interfamiliari (sentenza appello in
motiv. pag. 19-23).
4.4 La mancata conoscenza, alla stregua della dottrina e della prassi
scientifica del tempo, della "mielopatia trasversa" quale "complicanza
possibile" del trattamento radioterapico (peraltro confutata dal Giudice
di appello laddove riconosce che tali episodi erano stati registrati già
nell'anno 1941), è circostanza infatti del tutto ininfluente sulla verifica
del nesso di derivazione causale giuridica tra evento lesivo e
conseguenze-dannose da quello derivate (e cioè i postumi invalidanti
della capacità biologica della paziente; le sofferenze e le difficoltà nelle
relazioni e nelle dinamiche interne alla famiglia), rimanendo ad essa
estranea la nozione di "prevedibilità" dell'evento lesivo (lesione
midollare), nozione che - attenendo alla misura dello sforzo diligente
che può essere preteso dal professionista - assume, invece, rilievo
nell'accertamento dell'elemento soggettivo della "colpa" e quindi della
prova liberatoria dalla responsabilità per inadempimento.
4.5 Ma la censura è da ritenere errata anche se riguardata sotto il profilo
del nesso di "causalità materiale" tra condotta ed evento lesivo. Infatti,
anche a prescindere dal rilievo evidenziato dalla Corte d'appello
secondo cui "la mielopatia da raggi (MR) è una complicanza
relativamente rara, ma non sconosciuta, tanto che il primo caso fu
riportato nel 1941" (in motivazione, pag. 10), il fulcro della imputazione
di tale lesione della salute alla condotta terapeutica, viene individuato
dalla sentenza impugnata alla stregua del parametro fornito dai
protocolli sanitari vigenti al tempo (1989), che indicavano molteplici e
gravi complicanze riscontrate in caso di "eccessivo dosaggio" della
somministrazione della terapia radiante (tra le quali anche alterazioni
ossee, ipoplasia midollare, leucemia acuta non linfoide: cfr. sentenza
appello, in motiv. pag. 12), e consigliavano per la cura del "linfoma di
Hodgkin" la somministrazione di dosi nel range da 35 Gy a 50 Gy, con
livello critico per rischio di lesioni midollari di dosaggi superiori a 40 Gy.
Tali parametri conducevano, pertanto, a ritenere la diretta derivazione
causale dell'"eventum damni" - indipendentemente dalla esatta
identificazione della patologia - dalla sovraesposizione cui era stata
sottoposta la paziente con il trattamento radiante del distretto
mediastinico basso, con il dosaggio di 45 Gy, essendo dunque del tutto
ininfluente, ai fini dell'accertamento del nesso eziologico, la previa
esatta individuazione dello specifico "tipo" di patologia midollare
derivata dal sovradosaggio (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n.
17084 del 11/07/2017).
4.6 E' del tutto improprio, in conseguenza, anche il richiamo all'art.
1225 c.c., laddove l'Istituto ricorrente sostiene che, in difetto di "dolo",
non possono essere risarcite anche le conseguenze dannose
imprevedibili.
Premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la norma
in questione che considera la prevedibilità del danno come limite alla
risarcibilità, ha per oggetto una mera astratta prevedibilità del "dannoconseguenza",
poi concretamente verificatosi, essendo, quindi, a tal
fine sufficiente che questo anche se non esattamente identificato ex
ante - sia comunque virtualmente ricollegabile, alla stregua di dati
obbiettivi, alla condotta contrattuale illecita da cui deriva, secondo
l'incensurabile apprezzamento istituzionalmente demandato al giudice
del merito (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3694 del 28/05/1983;
id. Sez. 2, Sentenza n. 5778 del 21/05/1993; id. Sez. 3, Sentenza n.
18239 del 28/11/2003), in tal senso venendo ad operare
l'imprevedibilità del danno conseguente all'inadempimento colpevole
del debitore, di cui all'art. 1225 c.c., non come un limite all'esistenza
del danno stesso, ma soltanto alla misura del suo ammontare e (cfr.
Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15559 del 11/08/2004; id. Sez. 3,
Sentenza n. 11189 del 15/05/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 16763 del
29/07/2011), osserva il Collegio che il riferimento alla norma predetta
si palesa inconferente, atteso che, nella specie, la "complicanza" non
integra un "danno-conseguenza" derivato dall'evento lesivo procurato
dal sovradosaggio (in ordine alla quale soltanto opera la norma
richiamata) ma si identifica con lo stesso "evento-lesivo", e cioè con la
lesione del diritto alla salute che è il necessario antecedente
presupposto della produzione di danni-conseguenza risarcibili (danno
biologico).
p. 5. Sesto motivo: violazione art. 1226 c.c. (in relazione alla
liquidazione del danno da lesione del rapporto familiare).
La parte ricorrente si duole della errata liquidazione equitativa del
danno risarcito al coniuge D.R.G., nonchè della mancanza di allegazioni
in fatto, da parte del danneggiato, necessarie ad operare una
quantificazione del danno risarcibile.
5.1 Il motivo è infondato.
La Corte d'appello - diversamente da quanto prospettato dall'Istituto -
non ha affatto operato una equiparazione del danno non patrimoniale
patito dal marito della G., per compromissione del rapporto personale
di coppia durante il periodo di vita di quest'ultima, con la "perdita
definitiva" del rapporto parentale per morte del congiunto, ma ha dato,
invece, atto che i criteri tabellari milanesi non prevedevano la ipotesi di
grave pregiudizio arrecato, in caso di macrolesioni, al rapporto
familiare, ed ha ritenuto di optare per una liquidazione equitativa pura,
determinata in complessivi Euro 200.000,00 tenendo conto che il
maggior danno da "perdita definitiva" di tale rapporto si collocava nel
"range" compreso tra Euro 163.990,00 ed Euro 327.990,00.
5.2 Il Giudice di appello ha rinvenuto nelle risultanze probatorie
acquisite al giudizio gli elementi di parametrazione del "quantum",
desunti dalla irreversibile alterazione della vita quotidiana della
famiglia, con il trasferimento al marito di tutti i compiti di gestione e
conduzione della famiglia, anche in considerazione della presenza di due
minori in tenera età.
5.3 La critica svolta sul punto dalla parte ricorrente si risolve, pertanto,
in una inammissibile richiesta di revisione del giudizio di merito che non
può trovare accesso in sede di legittimità.
p. 6. Settimo motivo: violazione art. 1917 c.c. (omessa condanna delle
coassicuratrici al pagamento di rivalutazione ed interessi).
La parte ricorrente sostiene che la domanda di garanzia svolta con la
chiamata in causa includeva implicitamente anche la condanna per
"responsabilità ultramassimale": richiama al proposito il precedente di
questa Corte Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 10221 del 26/04/2017 secondo
cui in caso di "mala gestio propria" l'assicuratore dal momento in cui gli
perviene la richiesta di indennizzo è tenuto ad attivarsi diligentemente
per liquidare il danno, diversamente potendo incorrere nella
responsabilità per danno da ritardo nell'adempimento del contratto
assicurativo. Poichè il massimale di polizza era incapiente già al
momento del sinistro, le coassicuratrici dovevano rispondere del
maggior danno da ritardo colpevole determinato nella misura degli
interessi moratori al tasso legale.
6.1 Il motivo è inammissibile, in quanto la parte ricorrente neppure
deduce se e quando sia stata proposta la domanda per "mala gestio"
propria, e se la stessa sia stata riproposta in grado di appello, non
potendo essere ricompresa tale domanda nella mera richiesta di
adempimento della obbligazione indennitaria, ma dovendo essere
specificamente formulata dall'assicurato (cfr. Corte cass. Sez. 3,
Sentenza n. 15397 del 28/06/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 3014 del
17/02/2016).
6.2 Il motivo non assolve neppure al requisito ex art. 366 c.p.c., comma
1, n. 3, non evidenziando in alcun modo se e quando le società
coassicuratrici abbiano omesso di attivarsi tempestivamente per porre
l'assicurato al riparo dalle conseguenze economiche pregiudizievoli
della domanda proposta dai danneggiati, tenuto conto della
soccombenza di questi ultimi in primo grado, non emergendo dalla
lettura degli atti regolamentari che le società assicurative abbiano posto
in essere comportamenti elusivi o posto ostacoli capziosi alle pretese di
liquidazione dell'indennizzo, od abbiano rifiutato in mala fede proposte
transattive vantaggiose.
6.3 Tra l'altro risulta del tutto indimostrata l'affermazione della
incapienza del massimale di polizza, a fronte dei dati contraddittori che
emergono dagli atti, essendo indicato nei controricorsi delle società il
massimale assicurato in Lire 5.000.000.000, mentre viene indicato
nella sentenza di appello in Lire 500.000.000.
p. 7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente
deve essere condannata alla rifusione delle spese del giudizio di
legittimità, che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna l'Istituto ricorrente al pagamento in favore dei
controricorrenti D.R.G., in proprio, e unitamente a Di.Re.Ra. e R., quali
eredi di G.M., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro
10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15
per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di
legge; ed in favore di ciascuna delle controricorrenti SACE BT s.p.a. e
Mediolanum Assicurazioni s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità,
che liquida, per ciascuna società, in Euro 4.200,00 per compensi, oltre
alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati
in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater,
inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17 dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi
forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche,
supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia
omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di
G.M. riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 02-07-2019) 11-11-2019, n. 28986
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. SESTINI Danilo - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi A. - Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25975-2017 proposto da:
GROUPAMA ASS.NI SPA in persona del Procuratore Speciale Dott. R.P.,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLEMENTE IX 10, presso lo studio
dell'avvocato LUCIA FELICIOTTI, che la rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
L.G.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA 6, presso lo
studio dell'avvocato GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA, rappresentato e difeso
dall'avvocato RAFFAELLA GIANOLA;
- controricorrente -
e contro
S.N.C.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 3829/2017 della CORTE D'APPELLO di MILANO,
depositata il 05/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal
Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE
ALESSANDRO che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;
udito l'Avvocato LUCIA FELICIOTTI;
udito l'Avvocato GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA per delega.
Svolgimento del processo
1. Nel 2013 L.G.B. convenne dinanzi al Tribunale di Lecco la società Groupama
s.p.a. e S.N.C., esponendo che:
-) nel (OMISSIS) era rimasto vittima di un sinistro stradale, causato dal
convenuto S.N.C., del cui operato doveva rispondere il suo assicuratore della
r.c.a., cioè la società Groupama;
-) in conseguenza di tale sinistro, consistito in un violento urto antero-posteriore
tra il veicolo condotto dal convenuto ed il proprio, aveva patito un valido trauma
contusivo all'anca destra;
-) l'arto attinto dal trauma era stato già fratturato nel (OMISSIS), in
conseguenza di un altro sinistro stradale;
-) il sinistro del (OMISSIS), aggravando i postumi residuati a quello del
(OMISSIS), lo aveva obbligato a sottoporsi ad un intervento di protesi d'anca;
-) sostenne che l'infortunio del (OMISSIS) gli aveva provocato una invalidità
permanente pari al 60%, e che quello del (OMISSIS) aveva elevato tale misura
al 70%.
Chiese pertanto la condanna dei convenuti al risarcimento del danno.
2. La Groupama si costituì negando che l'infortunio del (OMISSIS) avesse
causato le conseguenze dannose descritte dall'attore, e comunque contestando
il criterio in base al quale l'attore pretendeva che il suo danno alla salute fosse
stimato; allegò di avere già versato all'attore la somma di Euro 12.000, che
doveva ritenersi satisfattiva.
3. Con sentenza 9 aprile 2015 n. 289 il Tribunale di Lecco accolse la domanda.
Il Tribunale ritenne che:
-) l'intervento di protesizzazione d'anca cui l'attore dovette sottoporsi non era
causalmente riconducibile all'infortunio oggetto del giudizio;
-) l'infortunio del (OMISSIS) aveva causato una invalidità permanente del 6,5%;
-) tale invalidità aveva tuttavia attinto una persona dalla salute già
compromessa;
-) pertanto il risarcimento dovuto dall'attore andava liquidato non già
monetizzando una invalidità di grado pari al 6,5%, ma calcolando la differenza
tra il valore monetario del grado di invalidità permanente di cui la vittima era già
portatrice prima dell'infortunio (60%), ed il grado di invalidità permanente
complessivamente residuato all'infortunio (66,5%).
Quantificò il relativo danno in Euro 79.373,50, oltre accessori.
La sentenza venne appellata dalla Groupama.
4. La Corte d'appello di Milano, con sentenza 5 settembre 2017 n. 3829 rigettò
il gravame.
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d'appello ritenne corretto il
criterio di stima del danno alla salute adottato dal Tribunale.
Affermò che la liquidazione del danno alla salute deve avvenire tenendo conto
dell'effettiva incidenza della menomazione sulla vita quotidiana della vittima; e
che di conseguenza se la vittima sia già portatrice di postumi invalidanti
pregressi, "la sottrazione (ai fini del calcolo del danno deve) essere operata non
già tra i diversi gradi di invalidità permanente, bensì tra i valori monetari previsti
in corrispondenza degli stessi".
Concluse osservando che solo con questo criterio la monetizzazione del danno
poteva essere rispondente alla effettiva entità di questo; se, per contro, in casi
come quello di specie si procedesse a sottrarre il grado di invalidità residuato al
sinistro da quello preesistente, ed a convertire in denaro la differenza, il
risarcimento ne risulterebbe iniquo per difetto.
5. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione dalla Groupama, con
ricorso fondato su tre motivi.
Ha resistito con controricorso L.G.B..
6. La causa venne avviata alla trattazione camerale, ai sensi dell'art. 380 bis
c.p.c., e discussa nell'adunanza del 13.3.2019.
All'esito della camera di consiglio la Sesta Sezione di questa Corte, con ordinanza
interlocutoria 1.4.2019 n. 9003, ha ritenuto che le questioni di diritto sollevate
dalla società ricorrente avessero particolare rilevanza, e che di conseguenza
andassero trattate in pubblica udienza.
La causa è stata di conseguenza chiamata alla pubblica udienza del 2 luglio 2019,
ed ivi discussa.
Le parti hanno depositato memoria sia prima della trattazione camerale, sia
prima della pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la
violazione degli artt. 1223 e 2056 c.c. e art. 139 cod. ass..
Il motivo contiene una articolata censura riassumibile nei termini che seguono.
La società ricorrente muove dal presupposto che i postumi dei quali può rimanere
vittima una persona già invalida vanno distinti in due categorie: le lesioni
"concorrenti" e quelle "coesistenti": le prime aggravano l'invalidità preesistente,
le seconde no.
Da questa premessa la società ricorrente deduce che, in presenza di lesioni
concorrenti, il risarcimento del danno deve essere aumentato, mentre ciò non
va fatto in presenza di lesioni coesistenti.
Ciò posto in teoria, la ricorrente prosegue osservando in concreto che non fu il
sinistro provocato dal proprio assicurato a costringere L.G.B. a sottoporsi ad un
intervento di protesi d'anca; che tale circostanza era pacifica; che pertanto le
lesioni patite dalla vittima in conseguenza del sinistro del (OMISSIS) dovevano
qualificarsi come "coesistenti"; che la sentenza d'appello, dopo avere qualificato
come "coesistenti" i postumi residuati al sinistro del (OMISSIS), rispetto a quelli
di cui la vittima era già portatrice, ha nondimeno liquidato un risarcimento
maggiorato rispetto a quello che sarebbe spettato ad una persona sana, la quale
avesse patito una microinvalidità del 6,5%.
Così decidendo, conclude la ricorrente, la Corte d'appello avrebbe violato l'art.
1223 c.c., perchè ha addossato al responsabile ed al suo assicuratore della r.c.a.
conseguenze dannose che essi non avevano provocato.
Sostiene la ricorrente che la Corte d'appello avrebbe dovuto invece liquidare il
danno alla salute monetizzando, coi criteri di legge, una invalidità del 6,5%,
quale era stata effettivamente causata dal proprio assicurato; e poi, se del caso,
incrementare in via equitativa il risultato, per tenere conto dell'eventuale
maggiore afflittività dei postumi, rispetto al caso in cui avessero attinto una
persona sana.
Soggiunge la ricorrente che erroneamente la Corte d'appello ha ritenuto che il
sinistro del (OMISSIS) avesse "aggravato le precarie condizioni di salute" della
vittima. Deduce, in contrario, che qualunque lesione "aggrava lo stato di salute",
anche quella che dovesse colpire una persona sana. Sostiene che ai fini della
liquidazione del danno si dovrebbe distinguere tra lesioni che aggravano lo "stato
di salute", e lesioni che aggravano una determinata funzione già menomata, e
che solo le seconde meritano un trattamento risarcitorio differenziato e
maggiorato rispetto a quello standard.
Infine, osserva la ricorrente che il criterio di liquidazione del danno alla salute
avallato dalla Corte d'appello sarebbe irragionevole, perchè nel caso in cui una
lesione dovesse attingere una persona già affetta da un elevatissimo grado di
invalidità, quel criterio condurrebbe a liquidare postumi superiori al 100%.
1.2. Ammissibilità del motivo.
Il primo problema posto dal ricorso è stabilire se quella prospettata dalla società
Groupama sia una questione di diritto, come tale sindacabile da questa Corte,
oppure una questione di mero fatto, come tale riservata alle valutazioni
insindacabili del giudice di merito.
1.3. Quella prospettata dalla Groupama col primo motivo di ricorso è una
questione di diritto.
Il danno permanente alla salute scaturisce infatti da una lesione dell'integrità
psicofisica, la quale però non è essa il danno, ma solo il presupposto del danno.
Perchè possa predicarsi l'esistenza d'un danno permanente alla salute, sarà
infatti necessario che da quella lesione sia derivata una menomazione
suscettibile di accertamento medico-legale, e che questa a sua volta abbia
prodotto una forzosa rinuncia: la perdita, cioè, della capacità di continuare a
svolgere anche una soltanto delle attività svolte dalla vittima prima
dell'infortunio (così, da ultimo, Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 05/07/2019, Rv.
654378 - 01; il principio comunque è pacifico e risalente: nel medesimo senso
si vedano, ex multis, Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, in motivazione;
Sez. L, Sentenza n. 7101 del 06/07/1990, Rv. 468146 - 01; Sez. 3, Sentenza n.
2761 del 03/04/1990, Rv. 466383 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 357 del 13/01/1993
(in motivazione); e così via sino alla sentenza capostipite, ovvero Sez. 3,
Sentenza n. 3675 del 06/06/1981, Rv. 414308 - 01).
La compromissione dell'integrità psicofisica rappresenta dunque la lesione
dell'interesse protetto; le rinunce concrete che ne conseguono costituiscono il
danno risarcibile (per l'affermazione secondo cui la lesione d'un qualsiasi diritto
non si identifica col danno, ma ne costituisce solo il presupposto, si veda in
particolare Sez. 3, Sentenza n. 8827 del 31/05/2003, e Sez. U, Sentenza n.
26972 del 11/11/2008). La prima è la lesione d'un diritto, ma non
necessariamente un danno; sono la menomazione e le forzose rinunce da essa
indotte a rappresentare il vero e proprio danno in senso giuridico.
Perchè quest'ultimo possa essere risarcito, dovranno dunque accertarsi due
nessi di causa: il primo, tra condotta lesiva e lesione; il secondo, tra lesione e
conseguenze dannose.
Il primo nesso andrà accertato secondo le regole della causalità materiale, e
dunque applicando i criteri dettati dagli artt. 40 e 41 c.p..
Una volta accertata l'esistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta
illecita e le lesioni, dovrà poi accertarsi un valido nesso di causalità giuridica tra
la lesione e la menomazione (e le conseguenti rinunce), secondo i principi
ripetutamente affermati da questa Corte: per tutti, Sez. 3, Sentenza n. 15991
del 21/07/2011, Rv. 618882 - 01, e che gioverà in questa sede brevemente
richiamare, poichè su essi si fonderà il giudizio di ammissibilità del motivo e la
decisione nel merito della controversia.
1.4. L'accoglimento d'una domanda di risarcimento del danno richiede
l'accertamento di due nessi di causalità:
a) il nesso tra la condotta e l'evento di danno - inteso come lesione di un
interesse giuridicamente tutelato -, o nesso di causalità materiale;
b) il nesso tra l'evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, o nesso di
causalità giuridica.
1.4.1. L'accertamento del primo dei due nessi suddetti è necessario per stabilire
se vi sia responsabilità ed a chi vada imputata; l'accertamento del secondo nesso
serve a stabilire la misura del risarcimento.
Il nesso di causalità materiale è dunque un criterio oggettivo di imputazione della
responsabilità; il nesso di causalità giuridica consente di individuare e
selezionare le conseguenze dannose risarcibili dell'evento.
La distinzione tra causalità materiale e giuridica, contestata dalle teorie c.d.
unitarie della causalità, ad avviso di questa Corte merita di essere in questa sede
condivisa e confermata: sia perchè è l'unica in grado di offrire un'appagante
soluzione al delicato problema del concorso tra cause umane e cause naturali
alla produzione dell'evento dannoso; sia perchè conforme all'orientamento
assolutamente prevalente di questa Corte; sia perchè l'unico precedente di
segno contrario (Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16/01/2009, Rv. 606131 - 01)
mosse da presupposti, e pervenne a conclusioni, non condivisibili per le ragioni
già esposte da questa Corte nella sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n.
15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 - 01, che qui converrà brevemente
riassumere:
(a) è contraria al dettato normativo l'affermazione secondo cui, nel concorso tra
fatto umano e fatto naturale, l'aliquota di danno imputabile all'uno ed all'altro
andrebbe stabilita dal giudice "in via equitativa", dal momento che il giudizio
equitativo concerne la liquidazione del danno (art. 1226 c.c.), non
l'accertamento delle sue cause;
(b) l'accertamento del nesso di causa non può che avere per esito l'accertamento
della sua sussistenza o della sua insussistenza, sicchè è inconcepibile un suo
"frazionamento";
(c) l'infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento di
danno è confermata indirettamente dall'art. 1227 c.c.: tale norma, infatti,
prevedendo la riduzione della responsabilità nel solo caso di concorso causale
fornito dalla vittima, implicitamente esclude la frazionabilità del nesso nel caso
di concorso di cause naturali con la condotta del responsabile. L'accertamento
del nesso di causalità materiale, in definitiva, va compiuto in base all'art. 41 c.p.,
il quale non consente la seguente alternativa:
a) se viene processualmente accertato che la causa naturale sia tale da escludere
il nesso di causa tra condotta ed evento, la domanda sarà rigettata;
b) se la causa naturale abbia rivestito efficacia eziologica non esclusiva, ma
soltanto concorrente rispetto all'evento, la responsabilità dell'evento sarà per
intero ascritta all'autore della condotta illecita.
Con il che resta esclusa la possibilità di qualsiasi riduzione proporzionale della
responsabilità in ragione della minore incidenza dell'apporto causale del
danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di
più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti
umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa
naturale non imputabile.
1.4.2. L'accertamento del nesso di causalità giuridica ha una funzione ben
diversa: delimitare l'area del danno risarcibile.
Sotto questo aspetto spetterà al giudice, dopo avere accertato la causalità
materiale e la colpa dell'offensore, stabilire quali, tra le teoricamente infinite
conseguenze dannose provocate dall'evento di danno (la lesione del diritto)
costituiscano conseguenza "immediata e diretta" di quello, e quali no,
comparando le condizioni del danneggiato precedenti l'illecito, quelle successive
all'evento imputabile, e quelle che si sarebbero determinate a prescindere da
questo.
In definitiva, il sistema della legge (gli artt. 40 e 41 c.p. da un lato, l'art. 1223
c.c. dall'altro) impone la distinzione tra l'imputazione causale dell'evento di
danno e la successiva indagine volta all'individuazione e quantificazione delle
singole conseguenze pregiudizievoli.
1.5. Posta dunque la suddetta distinzione tra causalità materiale e giuridica, la
preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima del fatto illecito può
astrattamente incidere tanto sul primo, quanto sul secondo dei suddetti nessi.
L'invalidità o la malattia pregressa, infatti, possono teoricamente costituire tanto
una concausa di lesione (ad es., il responsabile infligge un lieve urto, altrimenti
innocuo, a persona affetta da osteogenesi imperfetta o sindrome di Lobstein,
provocandole gravi fratture), quanto una concausa di menomazione (ad es., il
responsabile provoca l'amputazione della mano destra a chì aveva già perduto
l'uso della sinistra).
Le preesistenze, dunque, sono una circostanza che pone all'interprete un
problema di causalità: materiale, se dovessero rappresentare una concausa di
lesione; e giuridica, se dovessero rappresentare una concausa di menomazione.
Ma i principi in base ai quali accertare il nesso di causalità (principi cui la legge
rinvia e dà per noti, dal momento che alcuna norma contiene una definizione del
concetto di "nesso causale"), tanto materiale quanto giuridica, sono stabiliti dalla
legge (artt. 40 e 41 c.p. nel primo caso; art. 1223 c.c. nel secondo caso). Ed è
soltanto alla luce di questi principi che deve darsi soluzione al problema qui in
esame.
Ne consegue che quella prospettata dalla società ricorrente è una questione di
diritto, e non di mero fatto, giacchè chiede a questa Corte di stabilire con quale
criterio giuridico debbano sceverarsi, dal novero delle conseguenze dannose
provocate dalla lesione d'una salute, quelle che, sole, possano dirsi risarcibili ai
sensi dell'art. 1223 c.c..
Nel merito, tuttavia, il primo motivo di ricorso è infondato, in quanto corretto è
stato, sub specie iuris, il criterio di determinazione del danno risarcibile adottato
dalla Corte d'appello di Milano, e la conseguente liquidazione.
1.5. Le concause di lesione.
Come accennato, la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla persona
vittima di lesioni personali può rappresentare una concausa tanto della lesione
della salute, quanto della menomazione che ne è derivata.
Se la preesistenza ha concausato la lesione iniziale dell'integrità psicofisica
(come nel caso di scuola dell'emofiliaco cui venga inflitta una minuscola ferita),
di essa non dovrà tenersi conto nella liquidazione del danno, e tanto meno nella
determinazione del grado di invalidità permanente.
In questo caso infatti la preesistenza della patologia costituisce una concausa
naturale dell'evento di danno, ed il concorso del fatto dell'uomo con la concausa
naturale rende quest'ultima giuridicamente irrilevante in virtù del precetto
dell'equivalenza causale dettato dall'art. 41 c.p. (come ripetutamente affermato
da questa Corte: Sez. 3 -, Ordinanza n. 30922 del 22/12/2017, Rv. 647123 -
01; Sez. 3, Sentenza n. 24204 del 13/11/2014, Rv. 633497 - 01; Sez. 3,
Sentenza n. 9528 del 12/06/2012, Rv. 622956 - 01; oltre che la già ricordata
Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882 - 01).
1.6. Le menomazioni policrone coesistenti.
Se la preesistenza di malattie o menomazioni non ha concausato la lesione, nè
ha aggravato o è stata aggravata dalla menomazione sopravvenuta (c.d.
menomazioni "coesistenti"), anche in questo caso di essa non dovrà teneri conto
nella liquidazione del danno, e tanto meno nella determinazione del grado di
invalidità permanente.
La preesistenza di menomazioni, infatti, quando queste non abbiano concorso a
causare la lesione iniziale, può teoricamente rilevare solo sul piano della
causalità giuridica (art. 1223 c.c.), vale a dire della delimitazione dei danni
imputabili eziologicamente al responsabile.
Ma la causalità giuridica va accertata col criterio controfattuale: vale a dire
stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'infortunio non si fosse verificato.
Applicando il criterio controfattuale, non potranno darsi che due eventualità: o
le forzose rinunce patite dalla vittima in conseguenza del fatto illecito sarebbero
state identiche, quand'anche la vittima fosse stata sana prima dell'infortunio;
oppure quelle conseguenze dannose sono state amplificate dalla menomazione
preesistente.
Nel primo caso la menomazione preesistente sarà giuridicamente irrilevante.
Infatti l'art. 1223 c.c. esclude dalla risarcibilità i danni che non siano
conseguenza "immediata e diretta" del fatto illecito. Pertanto se i postumi
permanenti causati dall'illecito non sono stati punto aggravati dalle menomazioni
preesistenti, ciò vuol dire che essi nella loro interezza sono conseguenza
esclusiva del fatto illecito. Le preesistenze non li hanno amplificati, e se non li
hanno amplificati quei postumi vanno ritenuti sono una conseguenza immediata
dell'illecito, perchè a produrli non ha concorso alcun fattore esterno.
Non possono, quindi, essere condivise le teorie che pretendono di ridurre il
risarcimento del danno alla salute anche in presenza di preesistenze che non
interferiscono con i postumi dell'illecito (cioè le c.d. lesioni policrone coesistenti).
Tali teorie sono epigone dell'arcaica opinione medico-legale secondo cui
costituirebbe "inoppugnabile principio di diritto" quello secondo cui "se la cosa
danneggiata era fin da prima difettosa, di questo difetto si de(ve) tener conto".
Tale preteso principio non solo non è infatti "inoppugnabile", ma non è nemmeno
esistente, dal momento che il danno alla salute consiste in una perdita, e la
perdita va ascritta per intero al responsabile se, in assenza dell'illecito, essa non
si sarebbe affatto verificata.
Pertanto non solo la liquidazione del risarcimento, ma anche, prima ancora, la
determinazione del grado percentuale di invalidità permanente sofferto da
persona già menomata, quando lo stato anteriore della vittima non abbia inciso
in alcun modo sui postumi concretamente prodotti dal secondo infortunio, va
determinato come se a patire le conseguenze fosse stata una persona sana, in
virtù della inesistenza di causalità giuridica tra stato anteriore e postumi.
Resta solo da aggiungere che il concetto di "coesistenza" va valutato a posteriori
ed in concreto, non a priori ed in astratto.
Non si può, infatti, escludere aprioristicamente che successive menomazioni
riguardanti lo stesso organo possano non aggravarsi le une a causa delle altre
(si pensi a chi, avendo una ridotta capacità uditiva, patisca un trauma che
provochi la sordità, che però sarebbe stata inevitabile anche se la lesione avesse
attinto una persona sana; oppure all'ipotesi dell'amputazione d'un arto, già
anchilosato in posizione sfavorevole, la quale renda possibile una vantaggiosa
protesizzazione).
Allo stesso modo, non può proclamarsi a priori che menomazioni riguardanti
organi diversi mai interferiscano tra loro (si pensi all'ipotesi della perdita del tatto
in una persona non vedente).
Quel che dunque rileva, al fine della stima percentuale dell'invalidità
permanente, non sono nè formule definitorie astratte ("concorrenza" o
"coesistenza" delle menomazioni), nè il mero riscontro della medesimezza o
diversità degli organi o delle funzioni menomati. Poichè si tratta di accertare un
nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque
lo stabilire col metodo c.d. della "prognosi postuma" quali sarebbero state le
conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali
conseguenze possano teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per
una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell'infortunio, dovrà concludersi
che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno
perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana.
In tal caso, pertanto, sul piano medico-legale il grado di invalidità permanente
sofferto dalla vittima andrà determinato senza aprioristiche riduzioni, ma
appezzando l'effettiva incidenza dei postumi sulle capacità, idoneità ed abilità
possedute dalla vittima prima dell'infortunio.
1.7. Le menomazioni policrone concorrenti.
Veniamo ora all'ipotesi in cui lo stato anteriore della vittima non abbia
concausato la lesione, ma abbia concausato il consolidarsi di postumi più gravi,
rispetto a quelli che avrebbe patito la vittima se fosse stata sana al momento
dell'illecito.
Si è già detto che, ricorrendo tale ipotesi, sorge per l'interprete il problema di
accertare un nesso di causalità giuridica: stabilire, cioè, se e quali, tra i postumi
derivati dalla lesione, possano dirsi una "conseguenza immediata e diretta"
dell'infortunio, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1223 c.c..
L'accertamento di tale nesso pone all'interprete due problemi:
-) il primo riguarda i criteri di accertamento del danno, e consiste nello stabilire
se delle preesistenze si debba tenere conto nella determinazione del grado
percentuale di invalidità permanente, attraverso calcoli o formule ad hoc; oppure
se ne debba tenere conto nella aestimatio del risarcimento;
-) il secondo riguarda la liquidazione del danno, e consiste nell'individuare la
regola giuridica che consenta di "sterilizzare" il risarcimento dai pregiudizi non
causalmente imputabili al responsabile, ma senza violare il criterio di
progressività del quantum del danno biologico (secondo cui, a lesioni doppie,
debbono corrispondere risarcimenti più che doppi).
Ritiene questa Corte che i suddetti problemi debbano trovare le seguenti
soluzioni:
(a) di eventuali preesistenze si deve tenere conto nella liquidazione del
risarcimento, non nella determinazione del grado percentuale di invalidità
permanente, il quale va determinato sempre e comunque in base all'invalidità
concreta e complessiva riscontrata in corpore, senza innalzamenti o riduzioni, i
quali si tradurrebbero in una attività liquidativa esulante dai compiti
dell'ausiliario medico-legale;
(b) di eventuali preesistenze si deve tenere conto, al momento della liquidazione,
monetizzando l'invalidità accertata e quella ipotizzabile in caso di assenza
dell'illecito, e sottraendo l'una dall'altra entità.
Nei p.p. che seguono si darà conto delle ragioni di tali affermazioni.
1.8. (A) L'accertamento del danno.
1.8.1. Nella dottrina medico-legale e nell'opinione di molti pratici è pressochè
unanime e risalente la convinzione che, quando un infortunio vulneri una persona
già invalida, di tale circostanza sarà il medico-legale a dovere tenere conto, nella
determinazione del grado percentuale di invalidità permanente.
Niente affatto unanime, però, è il criterio che dovrebbe presiedere a tale
valutazione.
Secondo una impostazione "classica", in simili casi il grado percentuale di
invalidità permanente andrebbe determinato in misura maggiore di quella
tabellarmente prevista per analoghe invalidità, in virtù del principio matematico
per cui una riduzione percentuale identica, applicata su quantità diverse, incide
maggiormente sulla quantità minore, coeteris paribus.
Una diversa opinione ritiene per contro che il grado di invalidità permanete
concretamente accertato in corpore debba essere comunque ridotto quando la
vittima fosse stata invalida già prima dell'infortunio, giacchè lo stato anteriore di
validità in questo caso non potrebbe mai dirsi pari a "100".
Molte, e molto diverse, sono state poi le indicazioni concrete circa il quomodo di
aumento o riduzione - a seconda della scuola di pensiero - del grado di invalidità
permanente: taluni hanno proposto di estendere alla materia della responsabilità
civile regole dettate per l'infortunistica del lavoro; altri hanno ritenuto doversi
applicare un criterio rigidamente proporzionalistico; altri ancora hanno elaborato
formule ad hoc, il cui unico limite è stato la fantasia degli autori.
Nè sono mancati, infine, di quegli autori i quali hanno ritenuto che non possano
dettarsi criteri generali ed astratti per la stima del grado percentuale di invalidità
permanente patito da soggetto già menomato, ma che il medico-legale dovrebbe
in tal caso compiere le sue valutazioni caso per caso, ricorrendo "all'equità".
1.8.1. In argomento va subito sgombrato il campo da tale ultima opinione,
siccome manifestamente erronea.
All'accertamento concreto del grado percentuale di invalidità permanente sono
infatti estranei i concetti di equità e di iniquità. L'equità è una regola di
liquidazione del danno (art. 1226 c.c.), ed insieme alle altre regole di liquidazione
del danno (il principio di indifferenza e quello di integralità) non viene in rilievo
quando si tratta di accertare fatti, quale è il grado di invalidità permanente.
L'accertamento in facto della validità residuata all'infortunio è un accertamento
concreto: è la descrizione di una condizione personale, che non può essere
compiuta preoccupandosi se la percentuale espressa dal criterio adottato per la
relativa quantificazione sia equa od iniqua. Spetterà all'organo giudicante,
quando verrà il momento di convertire in denaro la stima compiuta dal medicolegale,
fare ricorso se del caso all'equità correttiva od a quella integrativa,
ex artt. 1226 e 2056 c.c..
1.8.2. Non meno erronee, però, sono le opinioni secondo cui delle "preesistenze
concorrenti" debba tenersi conto variando, attraverso calcoli e conteggi più o
meno sofisticati, il grado di invalidità permanente obiettivamente accertato in
corpore, e che al giudice non resti altro da fare che convertire in denaro tale
percentuale.
Questa opinione è erronea per due ragioni:
-) in facto, perchè poggia su un presupposto ormai divenuto obsoleto;
-) in iure, perchè non è coerente con la nozione di "danno biologico" adottata
dal legislatore negli artt. 138 e 130 cod. ass. nel testo attualmente vigente e, in
precedenza, già divenuta diritto vivente nella giurisprudenza.
1.8.3. La stima del danno alla salute avviene, per convenzione, immaginando
che sia pari a "100" la "validità" (o "efficienza sociale", o "salute" tout court che
dir si voglia) d'una persona sana, e misurando rispetto a questo "benchmark" la
perdita causata dai postumi residuati al sinistro.
Il grado di invalidità permanente dunque - è bene sottolinearlo sin d'ora - non è
il danno, ma è solo l'unità di misura del danno. E' la mensura, non il
mensuratum.
La tecnica di misurare in percentuale le conseguenze d'una lesione della salute
sorse molto tempo prima della nozione di danno alla salute.
Essa nacque alla fine del XIX sec., allorchè i Paesi Europei economicamente più
avanzati iniziarono ad introdurre l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro.
Il nostro Paese vi provvide con la L. 17 marzo 1898, n. 80, il cui art. 9, comma
1, secondo alinea, stabilì che, in caso di infortunio produttivo di inabilità
permanente al lavoro, l'indennizzo spettante alla vittima fosse "eguale a cinque
volte la parte di cui è stato o può essere ridotto il salario annuo". In quell'epoca,
infatti, non si concepiva l'autonoma risarcibilità della lesione della salute in sè e
per sè considerata, e persino quella del danno non patrimoniale era fortemente
contrastata (secondo Cass. Firenze 26.7.1915, in Foro ven., 1915, 548, ad
esempio, "non è risarcibile il danno consistente nella perdita di un membro del
corpo umano (...), se non si dimostri quale diminuzione patrimoniale certa ne
sia per conseguire").
Pertanto l'unico danno concepibile e misurabile, in quell'epoca, non poteva che
essere la riduzione del salario: e si suppose, per praticità di calcolo, che tale
riduzione potesse misurarsi in misura percentuale, facendo pari a "100" non già
l'efficienza sociale della vittima, ma la sua efficienza lavorativa.
Il principio venne ribadito dal R.D. 31 gennaio 1904, n. 51, il cui regolamento di
attuazione (R.D. 13 marzo 1904, n. 141), agli artt. 94 e 96, dispose:
-) deve ritenersi come invalidità permanente parziale la conseguenza di un
infortunio, "la quale diminuisca in parte ma essenzialmente e per tutta la vita,
l'attitudine al lavoro" (R.D. cit., art. 94, comma 2);
-) "agli effetti della liquidazione dell'indennità, il salario si considera ridotto nelle
proporzioni seguenti" (art. 95 R.D. cit.; seguiva una "tabella" delle varie
invalidità, con la corrispondente indicazione della percentuale presunta di
riduzione del salario: ad es., l'80% per la perdita d'un braccio; il 35% per la
perdita d'un occhio, e così via).
Tale criterio venne recepito dalle leggi successive in tema di infortuni sul lavoro:
il R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, ed il relativo regolamento attuativo (R.D. 25
gennaio 1937, n. 200).
Dunque il calcolo percentuale delle conseguenze d'una lesione della salute,
quando apparve nel mondo del diritto, vi apparve perchè concepito per misurare
la perdita del reddito e della capacità di produrlo, non certo la perdita della
salute.
La capacità di lavoro è tuttavia una energia esauribile. E' infatti ben concepibile
che possa esistere un individuo vivente e capace di assolvere almeno le
fondamentali funzioni vitali, ma totalmente inabile al lavoro.
Era pertanto logico e coerente con quel sistema che, dovendo misurarsi in punti
percentuali la perduta capacità di lavoro, delle preesistenze si tenesse conto
nella determinazione del grado di inabilità. Sarebbe, stato, infatti, iniquo
addossare al responsabile (o all'assicuratore contro gli infortuni) il pagamento
d'una indennità corrispondente alla perdita dell'intero salario, quando la vittima
già prima dell'infortunio non era in grado di ottenere un salario di quel livello, od
addirittura un qualsiasi salario.
Sicchè, essendo anche allora demandata al medico-legale la determinazione del
grado percentuale di inabilità permanente, fu giocoforza che l'incidenza delle
preesistenze fosse a lui demandata, e rifluisse nella determinazione (non del
risarcimento, ma) della suddetta percentuale di inabilità. Calcolo sempre
possibile, perchè avendo ogni lavoratore un salario, ed essendo esauribile la
capacità di produrlo, ben poteva concepirsi un parametro di riferimento per la
liquidazione del danno (l'inabilità assoluta totale, o 100% di inabilità) uguale per
tutti.
Le cose vanno ben diversamente, però, quando si tratta di stimare un danno alla
salute.
La salute, infatti, al contrario della capacità di lavoro, è un bene inesauribile.
Chiunque viva per ciò solo ne possiede un'aliquota, nè sarebbe concepibile
l'esistenza in vita d'una persona "senza salute". Persino colui il quale fosse
affetto da patologie gravissime conserverebbe pur sempre un suo stato di salute
ed una sua validità biologica, per quanto compromesse (ragione per cui si è
affermato rettamente che la misurazione della compromissione della salute "non
consente scale centesimali finite").
Questa ontologica differenza tra il danno da riduzione della capacità di lavoro ed
il danno alla salute rende inutilizzabili i criteri concepiti per stimare l'incidenza
delle preesistenze su una lesione della capacità di lavoro, quando si tratti di
stimare l'incidenza delle preesistenze su una lesione della salute.
Rapporti, calcoli proporzionali ed equazioni - anche a prescindere dalla loro
maggiore o minore condivisibilità scientifica - in questo secondo caso non
restituiscono valori attendibili, perchè non è concepibile un benchmark (il
"100%" di validità biologica) uguale per tutti i danneggiati.
Chi, dopo aver perso metà dello stipendio per causa di inabilità, patisca un
secondo infortunio che lo obbliga a rinunciare ad un ulteriore quarto del suo
reddito, ha patito un danno oggettivamente misurabile, quale che sia l'entità del
suo reddito.
Chi, invece, avendo già un ginocchio anchilosato in posizione sfavorevole,
subisca l'anchilosi anche dell'altro, potrà patire conseguenze ben diverse a
seconda che sia giovane od anziano, dinamico o sedentario, ipocondriaco od
esuberante; se vive solo od in compagnia, se ha parenti o no; se ha dovuto
rinunciare ad attività realizzatrici della sua personalità, oppure no. Egli avrà
dunque una validità antesinistro (il "suo" 100%) non comparabile con quella
degli altri individui, ed è rispetto a tale concreta validità, e non a calcoli astratti,
che andrà determinata l'effettiva incidenza del danno alla salute.
E', infatti, l'entità delle concrete rinunce indotte dalla menomazione che
determina l'entità del danno, e tale entità può rivelarsi nei singoli casi assai
cospicua anche per una persona già affetta da gravi invalidità se, nonostante
queste, il danneggiato riusciva comunque a dedicarsi ad attività per lui
gratificanti, ed alle quali abbia dovuto rinunciare a causa del secondo infortunio.
E' vero, poi, anche l'opposto: e cioè che invalidità anche gravi possano essere
prive di conseguenze, se insuscettibili di modificare in pejus la qualità della vita
della vittima (come nel caso di scuola del tetraplegico che patisca una frattura
calcaneare).
1.8.4. L'opinione secondo cui le invalidità preesistenti all'infortunio impongano
una variazione del grado percentuale di invalidità permanente obiettivamente
accertato in corpore, e di esse debba tenere conto il medico-legale e non il
giudice, oltre che fondata su un presupposto divenuto erroneo, è altresì non
coerente col sistema della legge.
Come già accennato, la liquidazione del danno alla salute deve essere rispettosa
dei criteri dettati dall'art. 1223 c.c. e l'art. 1223 c.c. esclude dal novero dei danni
risarcibili le conseguenze mediate ed indirette della condotta illecita od
inadempiente.
La delimitazione del perimetro dei danni risarcibili, come si è già illustrato in
precedenza, è questione di causalità giuridica, e l'accertamento della causalità
giuridica è compito eminente del giudice.
Nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito
di misurare l'incidenza della menomazione sulla vita della vittima, misurazione
che come detto avviene, per risalente tradizione (oggi recepita dalla legge), in
punti percentuali. Ma non va mai dimenticato che il grado percentuale di
invalidità permanente non è che una unità di misura del danno, non la sua
liquidazione. Quella misurazione non può dunque che avvenire al netto di
qualsiasi valutazione giuridica circa l'area della risarcibilità, onde evitare che
delle preesistenze si finisca per tenere conto due volte: dapprima dal medicolegale,
quando determina il grado percentuale di invalidità permanente; e poi
dal giudice, quando determina il criterio di monetizzazione dell'invalidità.
Le osservazioni che precedono sono indirettamente confermate dalle "Istruzioni"
contenute nell'allegato I al D.M. 3 luglio 2003 (in Gazz. Uff. 11.9.2003 n. 211),
del quale fanno parte integrante per espressa previsione dell'art. 1, col quale è
stata approvata la tabella delle invalidità in base alla quale liquidare il danno
permanente alla salute causato da sinistro stradali e consistito in postumi di lieve
entità, ex art. 139 cod. ass..
Ivi infatti si stabilisce che "nel caso in cui la menomazione interessi organi od
apparati già sede di patologie od esiti di patologie, le indicazioni date dalla tabella
andranno modificate a seconda della effettiva incidenza delle preesistenze
rispetto ai valori medi". Regola che, se rettamente intesa - come è doveroso -
alla luce dei principi generali del diritto civile, null'altro significa se non che,
quando si deve stimare il grado percentuale di invalidità permanente sofferto da
persona già invalida prima del sinistro, deve tenersi conto delle rinunce
complessive cui questa sarà soggetta, senza pretendere di dividere l'essere
umano in porzioni anteriori e posteriori al sinistro.
1.8.5. In conclusione, l'accertamento del danno alla salute in presenza di
postumi permanenti anteriori all'infortunio, i quali siano in rapporto di
concorrenza con i danni permanenti causati da quest'ultimo, richiede al medicolegale
di valutare innanzitutto il grado di invalidità permanente obiettivo e
complessivo presentato dalla vittima, senza alcuna variazione in aumento od in
diminuzione della misura standard suggerita dai barème medico-legali, e senza
applicazione di alcuna formula proporzionale. Gli richiederà poi, come si dirà tra
breve, di quantificare in punti percentuali, il grado di invalidità permanente della
vittima prima dell'infortunio, e fornire al giudice queste due indicazioni.
1.9. (B) La liquidazione del danno.
1.9.1. Detto come debba accertarsi il danno alla salute patito dalla persona già
invalida, resta da dire della sua liquidazione, ovviamente nei limiti in cui il
relativo sindacato è consentito a questa Corte: e cioè stabilire quali siano i criteri
liquidativi rispettosi dei principi di integralità e proporzionalità del risarcimento
del danno alla salute.
Il danno permanente alla salute, come qualsiasi altro pregiudizio, consiste
concettualmente in una differenza: quella tra le attività che lo stato di salute
della vittima le consentiva di svolgere prima dell'infortunio, e le attività residue
che invece le sono consentite dallo stato di salute consolidatosi dopo l'infortunio.
Anche il danno biologico patito da persona già portatrice di postumi preesistenti
consisterà dunque in una differenza: per l'esattezza, esso è pari allo scarto tra
le conseguenze complessivamente patite dalla vittima dell'infortunio (i postumi
complessivi), e le più lievi conseguenze dannose che la vittima avrebbe invece
teoricamente dovuto tollerare a causa della sua patologia pregressa, se
l'infortunio non si fosse verificato.
1.9.2. Si è detto tuttavia che il principio di causalità giuridica (art. 1223 c.c.)
impone di espungere dal novero delle conseguenze dannose risarcibili quelle
preesistenti all'infortunio, e che il nesso di causalità giuridica tra evento lesivo e
conseguenze dannose risarcibili va accertato:
-) sul piano del criterio di giudizio, con l'accertamento controfattuale: e cioè
ipotizzando quale sarebbe potuta essere la condizione di salute della vittima, al
momento della liquidazione, se l'illecito non ci fosse stato (ex multis, Sez. 3,
Ordinanza n. 23197 del 27/09/2018, Rv. 650602 - 01; Sez. L, Sentenza n. 47
del 03/01/2017, Rv. 642263 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 2085 del 14/02/2012,
Rv. 621799 - 01);
-) sul piano della prova, con la regola c.d. della "preponderanza dell'evidenza",
e cioè valutando se tra l'evento lesivo e le conseguenze dannose da esso causate
sussista un legame probabilistico "relativo": se, cioè, tra tutte le cause
astrattamente idonee a produrre il danno, l'evento lesivo rappresenti la meno
improbabile nel caso specifico (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 25112 del
24/10/2017, Rv. 646451 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 25113 del 24/10/2017, Rv.
646452 - 02; Sez. 3, Sentenza n. 3390 del 20/02/2015, Rv. 634481 - 01).
1.9.3. Applicando il criterio controfattuale alla fattispecie qui in esame, non
potranno darsi che due eventualità: o le forzose rinunce patite dalla vittima in
conseguenza del fatto illecito sarebbero state identiche, anche se la vittima fosse
stata sana prima dell'infortunio; oppure quelle conseguenze dannose sono state
amplificate dalla menomazione preesistente.
Nel primo caso la menomazione preesistente sarà giuridicamente irrilevante,
come già detto.
Se, invece, in applicazione del giudizio controfattuale, dovesse concludersi che
le conseguenze del fatto illecito, a causa della menomazione pregressa, sono
state più penose di quelle che si sarebbero verificate se la vittima fosse stata
sana, la preesistenza diviene giuridicamente rilevante. Senza di essa, infatti, il
danno ingiusto finale patito dalla vittima sarebbe stato minore.
Se dunque la preesistenza ha aggravato il danno patito dalla vittima, ciò vuol
dire che questo danno non è nella sua interezza una conseguenza immediata e
diretta del fatto illecito, ma lo è soltanto per la parte che si sarebbe ugualmente
verificata, anche se la vittima fosse stata sana. Per la parte restante, il danno è
una conseguenza mediata, perchè alla produzione di essa hanno concorso sia
l'illecito, sia le preesistenze; per questa parte, dunque, il danno, benchè in toto
imputabile sul piano della causalità materiale, non è integralmente risarcibile, ai
sensi dell'art. 1223 c.c. (Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618882
- 01).
1.9.4. Ne consegue che la stima del danno alla salute patito da chi fosse
portatore di patologie pregresse richiede innanzitutto che il medico legale
fornisca al giudicante una doppia valutazione:
-) l'una, reale e concreta, indicativa dell'effettivo grado percentuale di invalidità
permanente di cui la vittima sia complessivamente portatrice all'esito
dell'infortunio, valutato sommando tutti i postumi riscontrati in vivo e non in
vitro, di qualunque tipo e da qualunque causa provocati;
-) l'altra, astratta ed ipotetica, pari all'ideale grado di invalidità permanente di
cui la vittima era portatrice prima dell'infortunio.
Ovviamente - non sarà superfluo ricordarlo - nel formulare tali valutazioni il
medico-legale resta sempre obbligato ad indicare il criterio adottato per
pervenire alla determinazione del grado di invalidità permanente e il barème cui
ha fatto riferimento. In assenza di tali precisazioni, infatti, sarebbe preclusa al
giudice la possibilità di ripercorrere l'iter logico seguito dal medico-legale, e
quindi di valutare la correttezza del suo operato.
1.9.5. Una volta stabilito il grado di invalidità permanente effettivo patito della
vittima, e quello presumibile se il sinistro non si fosse verificato, la liquidazione
del danno non può certo avvenire sottraendo brutalmente il secondo dal primo,
applicando (erroneamente) il criterio del frazionamento della causalità materiale.
Il risarcimento del danno alla salute, infatti, sia quando è disciplinato dalla legge,
sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, avviene comunque
con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale
rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò
risarcimenti più che doppi.
Ne consegue che tale principio ne resterebbe vulnerato se, nella stima del danno
alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo al "delta",
ovvero all'incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile
alla condotta del responsabile.
Sono infatti, le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a
costituire il danno risarcibile, non certo il grado di invalidità, che ne è solo la
misura convenzionale: e poichè le suddette sofferenze progrediscono con
intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell'invalidità,
l'adozione del criterio sostenuto dalla società ricorrente condurrebbe ad una
sottostima del danno, e dunque ad una violazione dell'art. 1223 c.c..
D'una persona invalida al 60%, che in conseguenza d'un fatto illecito divenga
invalida al 70%, non si dirà che ha patito una invalidità del 10%, da liquidare
con criteri più o meno modificati rispetto a quelli standard.
Si dirà, al contrario, che, sul piano della causalità materiale, ha patito una
invalidità del 70%, perchè questa è la misura del suo stato attuale di salute, e
tale invalidità occorrerà innanzitutto trasformare in denaro.
Dopodichè, essendo una parte del suddetto pregiudizio slegata eziologicamente
dall'evento illecito, per una stima del danno rispettosa dell'art. 1223 c.c. non
dovrà farsi altro che trasformare in denaro il grado preesistente di invalidità, e
sottrarlo dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata in
corpore.
Il diverso criterio invocato dalla società ricorrente, per contro, finirebbe per
confondere il danno con la sua misura, perchè lo identifica con la percentuale di
invalidità permanente; e confonderebbe altresì la parte con il tutto, perchè
trascura di considerare che ogni individuo costituisce un unicum irripetibile,
rispetto al quale le conseguenze dannose del fatto illecito vanno dapprima
considerate e stimate nella loro globalità, e poi depurate della quota non
causalmente riconducibile alla condotta del responsabile.
Ma il danno alla salute consiste nelle rinunce forzose indotte dalla menomazione,
non nel punteggio di invalidità permanente. Pertanto chi è invalido al 70% ha
perduto - teoricamente - la possibilità di svolgere il 70% delle attività
precedentemente svolte, e la stima di questo danno non può che avvenire
ponendo a base del calcolo il valore monetario previsto per una invalidità del
70%.
Così, ad esempio, il soggetto monocolo che abbia perso l'occhio sano in
conseguenza della condotta illecita altrui, non potrà vedersi risarcire, sic et
simpliciter, il valore monetario della percentuale di invalidità prevista per la
perdita di un occhio, dovendosi viceversa procedere alla quantificazione del
risarcimento sulla base delle capacità perdute, e dunque sulla base della perdita
dell'intero senso della vista, e non di quella dell'organo materialmente leso.
Nè ha pregio il rilievo secondo cui l'applicazione rigida di tale criterio potrebbe
condurre ad esiti iniqui o paradossali. Infatti, dal momento che si versa pur
sempre in tema di liquidazioni equitative ex art. 1226 c.c., sarà sempre possibile
per il giudice di merito aumentare o ridurre il risultato finale del calcolo
liquidatorio, ove le lo impongano le circostanze del caso concreto.
1.10. I principi di diritto sin qui esposti possono ora riassumersi come segue:
1) lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la
lesione, oppure la menomazione che da quella derivata;
2) la concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante;
3) la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col
maggior danno causato dall'illecito;
4) saranno "coesistenti" le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per
il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se
afferenti i medesimi organi; saranno, invece, "concorrenti" le menomazioni i cui
effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre
menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi;
5) le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione;
nè può valere in ambito di responsabilità civile la regola sorta nell'ambito
dell'infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per
i portatori di patologie pregresse;
6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione:
a) stimando in punti percentuali l'invalidità complessiva dell'individuo (risultante,
cioè, dalla menomazione preesistente più quella causata dall'illecito), e
convertendola in denaro;
b) stimando in punti percentuali l'invalidità teoricamente preesistente all'illecito,
e convertendola in denaro; lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere
però considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di
cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale;
c) sottraendo l'importo (b) dall'importo (a).
7) resta imprescindibile il potere-dovere del giudice di ricorrere all'equità
correttiva ove l'applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto
della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o
per difetto.
1.11. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi.
Essa infatti ha accertato in fatto che, a causa del sinistro avvenuto nel
(OMISSIS), L.G.B. ha patito conseguenze dannose che hanno reso più penosa la
menomazione di cui era già portatore.
Ha accertato, dunque, l'esistenza di preesistenze "concorrenti" con quelle
provocate dal sinistro, e le ha liquidate esattamente col criterio sopra indicato.
Nè rileva che la Corte d'appello abbia formalmente definito "coesistenti", forse
per un lapsus calami, i postumi di cui l'attore era portatore prima del secondo
infortunio.
Quel che, rileva, infatti, è l'accertamento contenuto nella sentenza, non le
formule definitorie da questa adottate: e la sentenza impugnata ha per l'appunto
ritenuto che i postumi preesistenti di cui la vittima era portatrice fossero stati
aggravati da quelli sopravvenuti. E, per quanto detto, se una menomazione già
preesistente è resa più penosa da una seconda menomazione sopravvenuta, ci
troviamo in presenza di postumi concorrenti, non coesistenti, la cui liquidazione
dovrà avvenire col criterio sopra indicato, e puntualmente applicato dalla Corte
d'appello.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 1226 c.c..
Sostiene che tale norma sarebbe stata violata perchè la Corte d'appello, dinanzi
ad una invalidità causata dal sinistro e consistente in una micropermanente
(stimata in misura pari al 6,5% della totale validità dell'individuo), adottando il
criterio sopra indicato avrebbe finito per liquidare alla vittima un risarcimento di
84.000 Euro, spropositato rispetto alla reale entità del danno.
2.2. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo motivo nella parte in cui
lamenta la violazione dell'art. 1226 c.c.. Lo stabilire, poi, se la misura del
risarcimento liquidata dal giudice di merito dovesse o potesse essere ridotta in
applicazione di equità correttiva è questione di puro merito, non sindacabile in
questa sede.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo la ricorrente lamenta sia il vizio di nullità della sentenza,
sia quello di omesso esame d'un fatto decisivo.
Deduce che la motivazione della sentenza sarebbe contraddittoria perchè
dapprima ha accertato l'insussistenza di un valido nesso di causa tra il sinistro e
l'aggravamento delle patologie di cui la vittima era già portatrice; nondimeno,
pur avendo accertato tale nesso di causa, ha liquidato il danno col criterio
differenziale sopra ricordato, affermando che l'infortunio aveva comunque
provocato "un aggravamento delle precarie condizioni di salute della persona
danneggiata".
3.2. La censura è infondata.
La Corte d'appello, infatti, non ha mai affermato quel che la ricorrente pretende
di farle dire: e cioè l'avere da un lato negato che l'infortunio del (OMISSIS)
avesse aggravato quello del (OMISSIS); e dall'altro avere contraddittoriamente
liquidato il danno ritenendo che le lesioni avessero provocato "un aggravamento
delle condizioni di salute preesistenti".
Il ragionamento seguito dalla Corte d'appello è stato ben diverso.
La Corte d'appello doveva stabilire in primo luogo se fosse vero quanto dedotto
dall'attore, e cioè che fu l'infortunio del (OMISSIS) a rendere necessaria la
protesi d'anca. Doveva, poi, liquidare il danno concretamente accertato.
La Corte d'appello, quanto al primo problema, ha escluso che fu il sinistro
(OMISSIS) a rendere necessaria la protesi d'anca.
Avere escluso tale nesso di causa, tuttavia, non significava di per sè escludere
anche che l'infortunio del (OMISSIS) avesse reso più penose le conseguenze
dell'infortunio del (OMISSIS).
Infatti è perfettamente concepibile che i postumi di un secondo infortunio, pur
non avendo determinato l'evoluzione peggiorativa di postumi pregressi,
nondimeno li abbiano resi più penosi.
Nel caso di specie, il secondo infortunio aveva per l'appunto attinto l'arto
inferiore destro, cioè proprio quello già interessato dai postumi precedenti.
Fu, perciò, corretta in punto di diritto l'affermazione compiuta dalla Corte
d'appello, secondo cui anche quando una seconda lesione incida su organi diversi
rispetto a quelli interessati dalla prima lesione, "è comunque necessario valutare
il concreto impatto che il secondo infortunio ha prodotto sulla persona e, quindi,
la concreta menomazione subita anche alla luce dell'inabilità pregressa".
Questo principio, per quanto detto, è corretto dal punto di vista giuridico e
medico-legale; lo stabilire poi in concreto se ed in che misura il secondo
infortunio abbia inciso sulle conseguenze del primo è circostanza di fatto
riservata al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità.
4. Le spese.
4.1. Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate integralmente
tra le parti, in considerazione della delicatezza e novità del tema trattato.
4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la
presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione,
ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di
legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della
Corte di cassazione, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 02-07-2019) 11-11-2019, n. 28987
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. SESTINI Danilo - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi A. - Consigliere -
Dott. PORRECA Paolo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26165-2016 proposto da:
VILLA DELLE QUERCE SPA in persona del rappresentante legale p.t. Dott. U.S.,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SARDEGNA 50, presso lo studio
dell'avvocato EMANUELE MERILLI, rappresentata e difesa dall'avvocato SERGIO
TURRA';
- ricorrente -
contro
G.M., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato LUIGI ALDO CUCINELLA;
ALLIANZ SPA, nelle persone dei suoi procuratori speciali, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA LEONIDA BISSOLATI 76, presso lo studio dell'avvocato
TOMMASO SPINELLI GIORDANO da cui è rappresentata e difesa;
- controricorrenti -
e contro
V.M., SOMPO JAPAN NIPPONKOA INSURANCE COMPANY OF EUROPE LIMITED,
BERKSHIRE HATHAWAY INTERNATIONAL INSURANCE LIMITED;
- intimati -
avverso la sentenza n. 3611/2016 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata
il 12/10/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal
Consigliere Dott. PAOLO PORRECA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE
ALESSANDRO che ha concluso per l'accoglimento motivo 2;
udito l'Avvocato PATRIZIA FARINELLI per delega.
Svolgimento del processo
che:
V.M. conveniva in giudizio, nel 2005, la casa di cura Villa Le Querce e il dottor
G.M., deducendo di aver subito danni anche non patrimoniali a seguito di un
triplice intervento, nel (OMISSIS), poi nel (OMISSIS) e infine nel (OMISSIS), di
mastoplastica al seno, inizialmente riduttiva, poi additiva, e infine di revisione
chirurgica delle connesse cicatrici, erroneamente eseguito e non rimediato dalle
operazioni successive alla prima;
la casa di cura si costituiva chiamando in manleva assicurativa l'INA Assitalia e
la Sompo Japan Insurance Company of Europe Limited;
il dottor G.M. si costituiva chiamando in analoga manleva le Assicurazioni
Generali s.p.a. e Allianz s.p.a., già Lloyd Adriatico s.p.a.;
il Tribunale, per quanto qui ancora rileva, accoglieva la domanda per quanto di
ragione, dichiarando la responsabilità solidale della struttura sanitaria e del
medico; condannava la Allianz in parziale manleva del dottor G.; rigettava la
domanda di garanzia dello stesso nei confronti delle Assicurazioni Generali,
nonchè quelle analoghe della casa di cura nei confronti dei propri assicuratori;
la Corte di appello confermava la decisione di prime cure osservando, in
particolare, che la responsabilità del medico si estende automaticamente ex art.
1228 c.c., alla struttura che se ne è avvalsa per i propri fini permettendo
l'espletamento della prestazione sanitaria, non potendo al contempo farsi alcuna
differenza, quanto alla graduazione delle colpe, tra chi aveva male eseguito gli
interventi e chi avrebbe dovuto assicurare un'esecuzione da parte di persona
idonea;
avverso questa decisione ricorre per cassazione la Villa delle Querce s.p.a.
formulando due motivi;
resistono con controricorso G.M. e Allianz s.p.a.;
il processo giunge a pubblica udienza a seguito di ordinanza interlocutoria 22
novembre 2018 n. 30317, evidenziando la natura nomofilattica della questione
sul regime dell'azione di rivalsa, ovvero di regresso nelle obbligazioni solidali,
riferibile al rapporto tra struttura sanitaria e medico ritenuti responsabili.
Motivi della decisione
che:
con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell'art. 132
c.p.c., poichè la Corte di appello avrebbe motivato solo apparentemente sulla
mancata graduazione differenziata delle colpe tra casa di cura e medico
responsabile, oggetto di specifica domanda sin dal primo grado e poi con motivo
di appello relativo all'omissione di pronuncia consumata in prime cure;
con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione artt. 1298,
1299 e 2055 c.c., poichè la Corte di appello avrebbe errato mancando di rilevare
che, poichè non era stata addebitata alcuna censurabile condotta causativa alla
struttura, non poteva porsi tale posizione sullo stesso piano di quella, colposa ed
eziologica, del chirurgo, sicchè avrebbe dovuto affermarsi, ai fini interni del
regresso, l'esclusiva responsabilità del medico.
Rilevato che:
preliminarmente deve sottolinearsi, in relazione alle eccezioni sollevate in
controricorso, che il gravame è rispettoso dei requisiti di ammissibilità di
cui all'art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, desumendosi per quanto di utilità la vicenda
processuale ed essendo riportato quanto necessario alla specificità delle
censure;
nel merito cassatorio, il primo motivo è infondato;
la Corte territoriale ha motivato sul punto in discussione, affermando che, quanto
alla graduazione delle colpe, non poteva farsi differenza tra l'esecuzione
causalmente rilevante e colposa del medico e la condotta della casa di cura che,
in ragione del contratto di spedalità, era garante della prestazione e avrebbe
dovuto fare sì che fosse eseguita da persona in grado di porla in essere;
il percorso logico e giuridico è quindi sussistente e decifrabile, sebbene da
ricostruire diversamente secondo quanto si sta per spiegare scrutinando il
secondo motivo;
il secondo motivo è infondato nei sensi di cui sotto;
1. la corretta identificazione del contenuto e dei limiti dell'azione di rivalsa,
piuttosto che di regresso, esercitata dalla struttura sanitaria nei confronti del
medico in epoca antecedente all'entrata in vigore della L. n. 24 del 2017 non
può prescindere da un preliminare quanto funzionale esame critico degli ordinari
presupposti e della corretta qualificazione di tale rimedio nel diritto delle
obbligazioni e dell'illecito;
2. la rivalsa, anche in campo sanitario - a differenza del diritto di regresso, che
propriamente presuppone la nascita di una obbligazione, avente il medesimo
titolo, in capo ai condebitori solidali a seguito dell'integrale adempimento
dell'obbligazione da parte di uno di essi - viene comunemente, sebbene non
correttamente, ricondotta al presupposto di un'attribuzione ovvero ripartizione
della responsabilità per inadempimento, imputata al debitore e al suo ausiliario,
in via solidale;
3. l'analisi dell'istituto prescinde, naturalmente, dalle ipotesi in cui sia
ravvisabile, nel singolo caso di specie, una responsabilità autonoma e
indipendente della struttura rispetto alla condotta colpevole del sanitario (come
accade, per fare un esempio, nell'ipotesi di infezioni nosocomiali contratte nel
corso del ricovero dal paziente);
4. la più frequente ricostruzione dell'istituto, oggi peraltro smentita testualmente
dal disposto della L. n. 24 del 2007, art. 7, comma 1, - la struttura sanitaria che,
nell'adempimento della "propria" obbligazione, si avvalga dell'opera degli
esercenti la professione sanitaria, risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. -
sovrappone, erroneamente, una fattispecie di responsabilità diretta per fatto
proprio ex art. 1228 c.c., dell'ente impersonale (che si serve di ausiliari quale
strumento di attuazione dell'obbligazione contrattuale verso il paziente) pur
sempre fondata sull'elemento soggettivo dell'ausiliario (il che ne esclude la
configurabilità in termini di responsabilità oggettiva: se non è accertata la colpa
dell'ausiliario, la domanda risarcitoria sarà rigettata (salva, per quanto poc'anzi
specificato, una autonoma responsabilità "organizzativa" della struttura stessa),
con la responsabilità indiretta per fatto altrui (concordemente ritenuta di tipo
oggettivo) dell'imprenditore per i fatti dei propri dipendenti, disciplinata dall'art.
2049 c.c.;
si tratta dunque di fattispecie astratte radicalmente differenti per morfologia ed
effetti;
nel primo caso (art. 1228 c.c.) l'attività dell'ausiliario è incardinata nel
programma obbligatorio originario che è diretto a realizzare, e per la cui
realizzazione il debitore contrattuale si è necessariamente avvalso
dell'incaricato, essendogli naturalisticamente preclusa, ipso facto, attesa la
natura giuridica di ente, ogni possibilità di adempimento "diretto" (ciò che
esclude altresì la configurabilità, nella specie, dell'istituto dell'adempimento
dell'obbligo altrui, da parte del sanitario, ex art. 1180 c.c.): si se vuole, ma solo
descrittivamente, si tratta dell'emersione di obblighi protettivi rispetto al
contesto contrattuale - a prescindere, cioè, da una distinta responsabilità
autonoma, anche aquiliana, dell'incaricato;
nel secondo caso (art. 2049 c.c.), la condotta pregiudizievole non si traduce
propriamente nella mancata o inesatta esecuzione in un contenuto obbligatorio
del committente verso un creditore, quanto piuttosto nello svolgimento di
mansioni dannose per un terzo privo di una pregressa relazione qualificata con
il debitore, ferma la naturalistica alterità dei soggetti imputabili dell'illecito (il
preponente, il preposto): e proprio per ciò si richiede la preposizione e
l'occasionalità necessaria (Cass., Sez. U., 16/05/2019, n. 13246) per la
configurazione di una responsabilità (concordemente ritenuta oggettiva) del
"dominus";
come accennato nell'incipit di questo p.4, la sopravvenuta L. n. 24 del 2007, al
di là dei peculiari contenuti delle singole disposizioni espressione della
discrezionalità regolatoria del legislatore, costituisce, nella cornice della
specialità della materia, indice ermeneutico d'indirizzo a supporto della
ricostruzione qui esposta e che muove dalle appena indicate premesse;
4.1. questa Corte ha chiarito (Cass., 05/07/2017, n. 16512) che, poichè nella
fattispecie di cui all'art. 2049 c.c. i due soggetti, il padrone ed il commesso,
rispondono per titoli distinti ma uno solo di essi è l'autore del danno, non si
verifica l'ipotesi del concorso nella produzione del fatto dannoso e la conseguente
ripartizione dell'onere risarcitorio secondo i criteri fissati dall'art. 2055 c.c. Non
essendo configurabile alcun apporto propriamente causale del preponente alla
verificazione del danno, ferma la corresponsabilità solidale nei confronti del
danneggiato, il preponente responsabile - in estensione della tutela del terzo -
per il fatto altrui, può agire in regresso contro l'effettivo autore del fatto per
l'intero e non "pro quota";
è stato in particolare affermato che, sebbene la norma di cui all'art. 2055 c.c.,
comma 2, non detti alcuna disciplina del regresso nell'ipotesi di concorso tra
responsabili senza colpa e colpevoli, deve riconoscersi che, dovendo escludersi
in tal caso la possibilità di ripartire l'onere del risarcimento tra i coobbligati in
proporzione a distinte colpe e quindi di attribuire al responsabile per fatto altrui
(come il committente), per definizione estraneo alla produzione dell'evento
dannoso, una qualsiasi porzione dell'onere nei rapporti interni col responsabile
diretto del fatto dannoso, il responsabile mediato o indiretto, che ha risarcito il
danno in ragione della solidarietà verso il danneggiato, potrà logicamente
esercitare l'azione di regresso, nei confronti dell'autore immediato del danno,
per l'intera somma pagata (Cass., 05/09/2005, n. 17763; conforme Cass.,
01/12/2016, n. 24567 e Cass., 08/10/2008, n. 24802, ma già Cass. 12/02/1982,
n. 856);
nè in specie contraddice questa ricostruzione Cass. 27/07/2011, n. 16417, che
si occupa del diverso caso dell'azione di regresso proposta dai corresponsabili
solidali del commesso, nella misura determinata dalla gravità della colpa di
quest'ultimo, nei confronti del committente;
quanto sopra spiega perchè in questa ipotesi vi sia regresso per l'intero, e la
necessità di differenziare la fattispecie di cui all'art. 1228 c.c.;
ciò proprio perchè, in questo secondo e differente caso, la responsabilità di chi
ha volontariamente incaricato l'ausiliario, e organizzato attraverso questo
incarico l'esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, è,
appunto, per fatto proprio, e non altrui;
5. sulla base di tali premesse, in tema di responsabilità medica, appaiono
prospettabili, in astratto, tre diverse soluzioni, al fine di identificare i limiti
quantitativi dell'azione di rivalsa:
a) danno da "malpractice" medica addebitato alla sola struttura, senza diritto di
rivalsa nei confronti del medico, quando la condotta degli ausiliari si ritenga
inserita, senza deviazioni, nel percorso attuativo dell'obbligazione assunta,
collocandosi "tout court" nell'area del rischio dell'impresa sanitaria (in proposito,
sia pur senza esplorare il tema, Cass., 04/03/(OMISSIS), n. 4400, discorre
opportunamente d'immedesimazione organica del medico nella struttura
ospedaliera, sia pure, nell'ipotesi, di natura pubblica). Tale soluzione, che
troverebbe un suo giuridico fondamento nei sistemi di responsabilità cd. "no
cumul" (inammissibilità del cumulo tra responsabilità contrattuale e aquiliana,
considerata quest'ultima "assorbita" nell'impegno contrattuale), non pare
peraltro predicabile in un ordinamento che non esclude il cumulo, con
conseguente possibilità di apprezzamento della condotta del medico come
rilevante sul piano risarcitorio in quanto integrante, in tesi, un illecito
extracontrattuale, se non autonomamente contrattuale, non assorbito dalla sua
integrale riconducibilità nei confini del programma terapeutico obbligatorio
assunto dalla struttura nei confronti del paziente. Infatti, quest'opzione è
smentita, sia pur indirettamente, dalla novella del 2017, che disciplina in modo
esplicito (art. 9) la rivalsa della struttura nei confronti del sanitario responsabile
a titolo aquiliano, sia pur entro ben precisi limiti al contempo come logico - non
operanti, nel caso di struttura privata, per l'esercente la professione sanitaria
che "presti la sua opera all'interno della stessa in regime libero-professionale
ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione
contrattuale assunta con il paziente" (art. 9, comma 6, ultimo periodo e art. 10,
comma 2, della legge citata);
b) danno da "malpractice" addebitata, in sede di rivalsa, al solo sanitario nel
caso di colpa esclusiva di quest'ultimo nella produzione dell'evento di danno -
soluzione oggi significativamente esclusa in modo testuale dalla menzionata
riforma del 2017, che non prevede, peraltro, effetti retroattivi con diritto di
rivalsa integrale per l'intero importo risarcitorio corrisposto al danneggiato dalla
struttura, facendo così ricadere, sia pur indirettamente, l'intera obbligazione
risarcitoria sull'operatore sanitario, al pari di quanto legittimamente predicabile
in una corrispondente vicenda di corresponsabilità solidale di tipo contrattuale
tra coobbligati;
c) danno da "malpratice" ripartito tra struttura e sanitario, anche in ipotesi di
colpa esclusiva di quest'ultimo, salvo i casi, del tutto eccezionali, di
inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile
devianza da quel programma condiviso di tutela della salute: si pensi al sanitario
che esegua senza plausibile ragione un intervento di cardiochirurgia fuori della
sala operatoria dell'ospedale (per utili spunti in tal senso, sia pure in sicuramente
diversa, la già citata Cass., Sez. U., 16/05/2019, n. 13246, in cui è affermato
che lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal
fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato
delle sue attribuzioni e agito per finalità esclusivamente personali o egoistiche
ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purchè la sua
condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o
poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta
illecita dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi - non
sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata e in
base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza
l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo o illecito,
non ne integrino uno sviluppo oggettivamente anomalo);
6. è convincimento del Collegio che l'ultima delle soluzioni prospettate risulti la
più conforme a diritto;
7. dovendo escludersi l'ipotesi che il giudizio di rivalsa integri gli estremi di
un'ordinaria azione da inadempimento del contratto che lega la struttura
sanitaria al medico, posto che, come ricostruito, tale profilo contrattuale non
risulta assorbente rispetto alle implicazioni della responsabilità medica verso
terzi, i criteri generali della relativa quantificazione non possono che essere
ricondotti, sia pure in modo complessivamente analogico, al portato degli artt.
1298 e 2055 c.c., a mente dei quali il condebitore in solido che adempia all'intera
obbligazione vanta il diritto di rivalersi, con lo strumento del regresso, sugli altri
corresponsabili, secondo la misura della rispettiva responsabilità In presenza di
un unico evento dannoso astrattamente imputabile a più soggetti, sia in tema di
responsabilità contrattuale che extracontrattuale, per ritenere tutti i soggetti
tenuti ad adempiere all'obbligo risarcitorio è sufficiente, per costante
giurisprudenza di questa Corte, in base ai principi sul concorso di concause nella
produzione dell'evento, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso
in modo efficiente a produrre il danno (da ultimo, Cass. 6 dicembre 2017, n.
29218);
7.1. al riguardo va ulteriormente premesso che, secondo il costante
orientamento di questa Corte in tema di responsabilità solidale dei
danneggianti, l'art. 2055 c.c., comma 1, richiede solo che il fatto dannoso sia
imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e
pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone e anche
nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale, atteso che l'unicità del fatto dannoso considerata dalla norma
dev'essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come - ovvero si
astrae dalla - identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass., 1701/2019,
n. 1070, Cass., 16/12/2005, n. 27713);
per sovrapponibili ragioni è stato affermato che, quando un medesimo danno è
provocato da più soggetti per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi
rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono
essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell'estensione
alla responsabilità contrattuale della norma dell'art. 2055 cod. civ., dettata per
la responsabilità extracontrattuale, quanto perchè, sia in tema di responsabilità
contrattuale che di responsabilità aquiliana, se un unico evento dannoso è
imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo
risarcitorio, è sufficiente - in base ai principi che regolano il nesso di causalità e
il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento, dei quali l'art.
2055, c.c., costituisce un'esplicitazione - che le azioni od omissioni di ciascuno
abbiano concorso in modo efficiente a produrlo (Cass., 30/03/2010, n. 7618,
Cass., 09/11/2006, n. 23918);
8. ciò posto, in linea di principio, la misura del regresso in parola varia a seconda
della gravità della rispettiva colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono
derivate. Dell'art. 2055 c.c., il comma 3 detta, peraltro, una presunzione "iuris
tantum" di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali, che
impone al "solvens" di provare la diversa misura delle colpe e della derivazione
causale del sinistro: "l'interesse sarà dell'attore se pretenda il rimborso di una
somma superiore alla metà; sarà del convenuto se intende opporsi ad una
richiesta pari alla metà, opponendo la propria totale assenza di colpa ovvero il
grado inferiore di questa, poichè trattasi di fatto impeditivo della presunzione di
pari concorso di colpa" (Cass., 10/02/2017, n. 3626);
9. dal suo canto, l'art. 1298 c.c., detta la regola secondo la quale l'obbligazione
in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali, "se non
risulti diversamente";
10. in questa cornice, e riprendendo le premesse poc'anzi poste, va rimarcato
come il medico operi pur sempre nel contesto dei servizi resi dalla struttura
presso cui svolge l'attività, che sia stabile o saltuaria, per cui la sua condotta
negligente non può essere agevolmente "isolata" dal più ampio complesso delle
scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi
operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante, mentre il già
citato art. 1228 c.c., fonda, a sua volta, l'imputazione al debitore degli illeciti
commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell'obbligazione di decidere
come provvedere all'adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità
prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d'impresa ("cuius
commoda eius et incommoda") ovvero, descrittivamente, secondo la
responsabilità organizzativa nell'esecuzione di prestazioni complesse;
11. ne consegue che, se la struttura si avvale della "collaborazione" dei sanitari
persone fisiche (utilità) si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da
costoro eventualmente cagionati (danno): la responsabilità di chi si avvale
dell'esplicazione dell'attività del terzo per l'adempimento della propria
obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa "in eligendo" degli
ausiliari o "in vigilando" circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato
all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione (Cass., 27/03/2015,
n. 6243), realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l'avvalimento dell'attività
altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione
del rischio per i danni che al creditore ne derivino (cfr. Cass., 06/06/ 2014, n.
12833);
12. ne consegue, anche in questa chiave, l'impredicabilità di un diritto di rivalsa
integrale della struttura nei confronti del medico, in quanto, diversamente
opinando, l'assunzione del rischio d'impresa per la struttura si sostanzierebbe,
in definitiva, nel solo rischio d'insolvibilità del medico così convenuto dalla
stessa;
13. tale soluzione deve incontrare un limite laddove si manifesti un evidente iato
tra (grave e straordinaria) "malpractice" e (fisiologica) attività economica
dell'impresa, che si risolva in vera e propria interruzione del nesso causale tra
condotta del debitore (in parola) e danno lamentato dal paziente;
14. per ritenere superata la presunzione di divisione paritaria "pro quota"
dell'obbligazione solidale evincibile, quale principio generale, dagli artt. 1298 e
2055 c.c., non basta, pertanto, escludere la corresponsabilità della struttura
sanitaria sulla base della considerazione che l'inadempimento fosse ascrivibile
alla condotta del medico, ma occorre considerare il duplice titolo in ragione del
quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicchè sarà onere
del "solvens" dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico, ma la
derivazione causale dell'evento dan. noso da una condotta del tutto dissonante
rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un'ottica di
ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei
rapporti interni;
15. tale conclusione è stata di recente avvalorata, sia pure "parte qua", da
questa stessa Corte, la quale ha specificato che l'accertamento del fatto di
inadempimento imputato al sanitario non fa venire meno i presupposti nè della
responsabilità della struttura ai sensi dell'art. 1228 c.c. (posto che l'illecito
dell'ausiliario è requisito costitutivo della responsabilità del debitore), nè della
responsabilità della stessa struttura ai sensi dell'art. 1218 c.c., spettando alla
struttura l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento, "onere che va
tenuto fermo anche in relazione ai rapporti interni tra condebitori solidali proprio
al fine di verificare se la presunzione pro quota paritaria possa dirsi superata"
(Cass. 05/07/2017, n. 16488);
16. in assenza di prova (il cui onere grava sulla struttura sanitaria adempiente)
in ordine all'assorbente responsabilità del medico intesa come grave, ma anche
straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile
"malpractice", dovrà, pertanto, farsi applicazione del principio presuntivo di cui
sono speculare espressione l'art. 1298 c.c., comma 2 e l'art. 2055 c.c., comma
3;
17. infine va ribadito che, nel regime anteriore alla L. n. 24 del 2017, la
graduazione delle colpe può essere domandata anche in vista della rivalsa
seppure non ancora esercitata (Cass., 20/12/2018, n. 32930, Cass.,
25/07/2006, n. 16939, Cass., 05/10/2004, n. 19934);
18. per completezza d'indagine, va infine osservato come la responsabilità della
struttura sanitaria destinata a scaturire "ex se" da un'attività che impone -
dovendo conformarsi a criteri di organizzazione e gestione certamente distinti
da quelli che governano la condotta del singolo medico - l'adozione di uno
stringente "standard" operativo, vada a modellarsi secondo criteri di natura
oggettiva, a differenza di quanto invece predicabile con riferimento all'attività
del singolo sanitario, ai sensi dell'espressa disposizione di cui alla L. n. 24 del
2017, art. 7, comma 1 ove si discorre di responsabilità scaturente "dalle
condotte dolose o colpose di quest'ultimo", in assenza delle quali (e salvo quanto
sopra evidenziato), nessun addebito potrà essere legittimamente mosso alla
struttura, a conferma della bontà della ricostruzione teorica che la vede
responsabile "per fatto proprio" dell'agire dei suoi dipendenti;
19. Può formularsi il seguente principio di diritto: "in tema di danni da
"malpractice" medica nel regime anteriore alla L. n. 24 del 2017, nell'ipotesi di
colpa esclusiva del medico la responsabilità dev'essere paritariamente ripartita
tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli
eccezionali casi d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e
oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della
salute cui la struttura risulti essersi obbligata";
20. nella fattispecie in scrutinio, la struttura sanitaria (privata) ricorrente, che
ha pacificamente pagato la danneggiata in corso di giudizio, non deduce nè di
aver provato ma neppure di aver allegato specificatamente l'imprevedibile e del
tutto dissonante "malpractice" medica nei termini ricostruiti, sicchè la censura
va rigettata;
21. spese compensate attesi i profili di novità delle ricostruzioni nomofilattiche
esposte.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso. Spese compensate.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto
che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella
misura dovuta, da parte dei ricorrenti in solido, dell'ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 03-07-2019) 11-11-2019, n. 28988
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. RUBINO Lina - Consigliere -
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere -
Dott. POSITANO Gabriele - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18040-2017 proposto da:
UNIPOLSAI SPA in persona del Dirigente Procuratore Dott.ssa C.A.R., domiciliato
ex lege presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e
difesa dall'avvocato EDOARDO ERRICO;
- ricorrente -
contro
L.I., E.C., E.L., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GREGORIO XI N. 13,
presso lo studio dell'avvocato MICHELE LIGUORI, che li rappresenta e difende;
- controricorrente -
e contro
FONDAZIONE EVANGELICA BETANIA, D.F.G., P.P.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 1813/2017 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata
il 26/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal
Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO
che ha concluso per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato GIOVANNI DE LUCA per delega.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 16,19 e 22 ottobre 2005, E.L. e L.I., in proprio e quali
rappresentanti del figlio E.C., all'epoca minore di età, convenivano la Fondazione
Evangelica Bretagna, P.P. e D.F.G., davanti al Tribunale di Taranto, per accertare
la responsabilità dei convenuti per i danni subiti dal minore e dalla madre in
occasione del parto avvenuto il (OMISSIS). Individuavano il pregiudizio nei danni
patrimoniali (lucro cessante da inabilità permanente e danno emergente da
perdita di possibilità attuale e futura - cd perdita di chance - lucro cessante da
inabilità temporanea, ed emergente e per spese vive sostenute e da sostenersi)
e non patrimoniali (biologico da invalidità permanente e temporanea, alla vita di
relazione, alla veste estetica, morale soggettivo, esistenziale, alla vita privata,
al rapporto familiare parentale, per la lesione del diritto ad una compiuta
informativa e, comunque, per la lesione dei diritti personalissimi inviolabili), oltre
rivalutazione e interessi ed attribuzione al difensore delle spese di lite.
Deducevano che il ginecologo P., che aveva seguito la gravidanza ed era stato
presente al parto praticato dal dottor D.F. e i convenuti avevano colposamente
concorso a determinare le lesioni permanenti, sia a E.C., che alla madre.
Si costituivano i convenuti deducendo l'infondatezza della domanda e la
Fondazione Evangelica chiamava in causa la S.p.A. Navale Ass.ni che eccepiva
la prescrizione dei diritti derivanti dal contratto assicurativo, la decadenza dal
diritto all'indennizzo, la diminuzione dell'indennizzo e la non operatività della
garanzia, oltre che l'inosservanza, da parte della fondazione, dell'art. 21 delle
condizioni di polizza che imponeva all'assicurato di conferire procura al fiduciario
in modo da escludere il diritto delle spese legali.
Il Tribunale, con sentenza del 28 settembre 2009, rigettava la domanda,
dichiarava assorbita quella di rivalsa della Fondazione nei confronti
dell'assicuratore e compensava le spese di lite.
Con atto di citazione del 27 ottobre 2010, E.L. e L.I., nella qualità in atti,
proponevano atto di appello per sentir dichiarare la responsabilità esclusiva,
precontrattuale o contrattuale ed extracontrattuale della fondazione e dei
sanitari, in via gradata, l'inadempimento contrattuale, la responsabilità
extracontrattuale per omessa informazione sui rischi del trattamento e
condannare la Fondazione, i sanitari, e l'assicuratore al risarcimento dei danni,
oltre rivalutazione e spese, con distrazione ai sensi dell'art. 93 c.p.c.. La
Fondazione Evangelica chiedeva il rigetto e, in subordine, riproponeva la
domanda di garanzia. D.F.G. e P.P. insistevano per il rigetto dell'appello. Si
costituiva UGF Ass.ni, quale successore a titolo particolare nei rapporti giuridici
riguardanti la S.p.A. Navale Ass.ni chiedendo il rigetto del gravame e in
subordine, la limitazione dell'obbligazione indennitaria, con esclusione della
ripetibilità delle spese di lite sostenute dall'assicurata.
La Corte d'Appello di Napoli, con sentenza del 26 aprile 2017, in riforma della
sentenza impugnata, condannava la Fondazione Evangelica, P.P., D.F.G., la
Navale Ass.ni S.p.A. e la S.p.A. UGF Ass.ni al risarcimento dei danni in favore
degli appellanti, oltre al pagamento delle spese con attribuzione, ai sensi art. 93
c.p.c., in favore dell'avvocato Michele Liguori. Condannava, altresì, le compagnie
di assicurazioni a tenere indenne la Fondazione Evangelica di quanto questa sarà
tenuta a pagare agli attori in esecuzione della sentenza.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione S.p.A. UnipolSai, quale
incorporante la S.p.A. Unipol Ass.ni, a propria volta conferitaria delle attività
assicurative di S.p.A. Navale Ass.ni affidandosi a tre motivi. Resistevano con
unico controricorso E.C., E.L. e L.I..
La ricorrente depositava memoria ex art. 380 bis c.p.c. chiedendo il rinvio della
trattazione in attesa dell'imminente decisione della Consulta con
riferimento all'art. 147 c.p.c. oggetto dell'eccezione preliminare di tardività del
ricorso. I controricorrenti depositavano ex art. 372 c.p.c. documentazione
relativa alla fase incidentale di sospensione della sentenza di appello al fine di
ottenere la liquidazione delle relative spese processuali ex art. 385 c.p.c..
Con ordinanza interlocutoria del 7 febbraio 2019 questa Corte disponeva la
trattazione della controversia in pubblica udienza. La ricorrente deposita
memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce la violazione agli artt. 1226 e 2729 c.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nella determinazione del danno extra
patrimoniale in favore di E.C.. La Corte territoriale, pur facendo riferimento ai
criteri contenuti nelle tabelle milanesi che computano nel valore base la
componente del danno morale, erroneamente avrebbe personalizzato il danno
nella misura massima del relativo parametro. La personalizzazione, al contrario,
andrebbe riferita a situazioni assolutamente particolari non ricorrenti nel caso di
specie, in cui il deficit permanente del 13% era lievemente superiore alle cd
micropermanenti.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 1223, 1226 e 2729 c.c.,
in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nella determinazione del danno patrimoniale
in favore di E.C.. Si assume che la circostanza che il padre del danneggiato fosse
un carabiniere non può costituire una presunzione in ordine alla predisposizione
del figlio per la carriera militare che richiede, invece, il superamento di prove
selettive. Sotto altro profilo la lieve percentuale invalidante non sarebbe tale da
compromettere una lunga serie di attività lavorative, soprattutto di carattere
sedentario, con retribuzioni anche più elevate rispetto alle mansioni manuali.
Con il terzo motivo si deduce la violazione delle medesime disposizioni riguardo
al danno non patrimoniale in favore dei genitori di E.C.. In particolare, la
configurabilità di una compromissione di tipo esistenziale sarebbe compatibile
con lesioni particolarmente serie e non con quelle in concreto riscontrate.
Preliminarmente va esaminata l'eccezione di tardività del ricorso sollevata dai
controricorrenti. Il termine di sessanta giorni per la notifica del ricorso per
cassazione scadeva il giorno 10 luglio 2017, mentre il ricorso era stato notificato
in forma digitale in quella data, ma alle ore 21.30. L'eccezione trova fondamento
nell'orientamento di questa Corte secondo cui il principio della scissione degli
effetti della notificazione per il notificante e il destinatario - che si fonda
sull'esigenza di non far ricadere sul notificante incolpevole le conseguenze
negative del ritardo nel compimento di attività del procedimento notificatorio
sottratte al suo controllo - non si applica in riferimento al disposto dell'art. 147
c.p.c., espressamente richiamato, per le notificazioni eseguite con modalità
telematica, dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 septies conv., con modif., dalla L.
n. 221 del 2012. Questa norma, nel prevedere che le notificazioni non possono
farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21, ha inteso disciplinare espressamente i
tempi per il corretto ed efficace svolgimento dell'attività notificatoria a tutela del
diverso interesse di non costringere i professionisti alla continua verifica, a
qualsiasi ora del giorno e della notte, dell'arrivo di atti processuali (Cass. Sez. 3
- n. 21915 del 21/09/2017, Rv. 645734 - 01 e negli stessi termini, Cass. Sez. 6
- n. 30766 del 22/12/2017, Sez. L - n. 21445 del 30/08/2018). Pertanto, il
ricorso per cassazione, notificato dal difensore, a mezzo di posta elettronica
certificata, alle 21.30 dell'ultimo giorno utile avrebbe dovuto ritenersi
perfezionato alle ore 7 del giorno successivo.
Le parti avevano fatto presente, a riguardo, che la questione di
costituzionalità dell'art. 147 c.p.c. era al vaglio della Consulta per l'udienza del
19 marzo 2019 e con la memoria ex art. 380 bis, Unipol aveva chiesto di differire
la trattazione in attesa della decisione della Corte Costituzionale.
A tal proposito deve darsi atto che, con sentenza n. 75/2019, depositata in data
9 aprile 2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv. in L. n. 221 del 2012) "nella
parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui
ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona
per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di
generazione della predetta ricevuta". L'eccezione, pertanto, va disattesa poichè
la Corte Costituzionale ha uniformato la disciplina della notifica in proprio a
mezzo PEC, a quella del deposito telematico, con conseguenza che deve
considerarsi tempestiva la notifica eseguita via PEC l'ultimo giorno utile, all'unica
condizione che la ricevuta di accettazione del messaggio PEC di notifica venga
generata entro la fine del giorno di scadenza del termine.
Il primo motivo è fondato. In presenza di un danno permanente alla salute,
costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di
denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione di una
ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il
grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività
quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita
anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).
In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del
risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli
organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può
essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale
ed affatto peculiari.
Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod
plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima
invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in
aumento del risarcimento.
Va ribadito che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi
attività, in conseguenza d'una lesione della salute, o costituisce una conseguenza
"normale" del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una
menomazione identica), ed allora sarà compensata con la liquidazione del danno
biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita,
adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d.
"personalizzazione": così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014).
Le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita
quotidiana e sugli aspetti "dinamico-relazionali", che sono generali ed inevitabili
per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano
alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed
inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state
patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità
del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno
biologico.
Ma ciò, non perchè abbiano inciso, sic et simpliciter, su "aspetti dinamico
relazionali": non rileva, infatti, quale aspetto della vita della vittima sia stato
compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che
quella conseguenza sia straordinaria e non ordinaria, perchè solo in tal caso essa
non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percen'tuale di invalidità
permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione
in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del
21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014).
Questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche
ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il
danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze
ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone
della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non
stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di
personalizzazione della liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014;
Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
Nel caso di specie la menomazione concreta è rappresentata da una distocia
della spalla che ha determinato postumi permanenti nella misura del 13% e cioè
una invalidità qualificata in misura prossima al tetto dei danni biologici di lieve
entità (cd micropermanenti). In presenza di tali presupposti è stata riconosciuta
una personalizzazione di oltre il 40% in difetto di una specifica motivazione, che
avrebbe dovuto essere adottata sulla base dei principi espressi in premessa, al
fine di giustificare, in primo luogo, la ragione per la quale quel pregiudizio non
risultava già assorbito nel danno biologico liquidato e, in secondo luogo, i criteri
sottesi ad una personalizzazione così significativa, riferita ad una menomazione
comunque, lieve.
Di ciò dovrà farsi carico il giudice di rinvio nel considerare che le circostanze di
fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non
patrimoniale integrano un "fatto costitutivo" della pretesa, e devono essere
allegate in modo circostanziato e provate dagli originari attori (ovviamente con
ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l'allegazione del notorio, delle
massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto
dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U,
Sentenza n. 26972 del 11/11/2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere
enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 24471 del
18/11/2014).
Anche il secondo motivo è fondato, sotto due profili. In primo luogo, non è chiaro
se il danno riconosciuto in appello è stato valutato in termini di incapacità
lavorativa specifica o generica. Sotto tale ultimo profilo la Corte territoriale non
ha considerato che il danno alla capacità lavorativa generica rientra nell'alveo di
quello biologico.
Infatti, tale pregiudizio non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia,
in quanto modo di essere del soggetto, in una menomazione all'efficienza
psicofisica (Cass. n. 1816 del 25 agosto 2014) e il danno va valutato
unitariamente, in termini di cenestesi lavorativa, tenendo in considerazione
quanto dedotto da questa Corte con riferimento al primo motivo di ricorso.
La nozione di incapacità lavorativa generica fu elaborata dalla giurisprudenza in
un'epoca in cui il danno biologico non aveva cittadinanza nell'ordinamento e
l'unico danno ritenuto risarcibile era quello patrimoniale. Essa servì, quindi, a
evitare il rigetto della domanda risarcitoria allorchè le conseguenze lesive non
avessero influito sul lavoro svolto dalla vittima ovvero nell'ipotesi in cui la vittima
non svolgesse lavoro alcuno.
Una volta emersa la nozione di danno biologico, l'utilità della categoria è venuta
meno, considerato che la sussistenza di un danno alla salute legittima il leso a
domandare il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali a detta lesione
connessi, nessuno escluso.
In realtà, l'evento lesivo può incidere in vari modi sull'attività di lavoro
dell'infortunato. E se tutti devono avere una adeguata risposta risarcitoria, è
anzitutto necessario avere le idee chiare sull'inquadramento dogmatico delle
varie fattispecie che è possibile enucleare.
Si può dare il caso:
1) che la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena. E' questo il
danno da lesione della cenestesi lavorativa, e cioè la compromissione della
sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro. Ora, non
par dubbio che il danneggiamento della cenestesi lavorativa si presterà di regola
a essere risarcito attraverso un appesantimento del risarcimento del danno
biologico, in via di personalizzazione cioè, a meno che la maggiore usura, la
maggiore penosità del lavoro non determinino l'eliminazione o la riduzione della
capacità del danneggiato di produrre reddito, nel qual caso, evidentemente, il
pregiudizio andrà risarcito come danno patrimoniale (Cass. n. 20312 del 2015);
2) che la vittima abbia perso in tutto o in parte il proprio reddito: non il lavoro,
badate bene, ma il reddito, il che significa che non ne produce al momento e non
sarà più in grado di produrne in futuro: qui siamo evidentemente di fronte a un
danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito perduto;
3) che la vittima abbia perso il lavoro ma possa svolgerne altri, compatibili con
la propria formazione professionale: anche questo è un danno patrimoniale, da
liquidare tenendo conto e del periodo di inoccupazione e della verosimile
differenza (ove sussistente) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro;
4) che la vittima un lavoro non l'aveva, e non potrà più averlo a causa della
invalidità: anche questo è una danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare
in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano,
avrebbe percepito.
Sotto tale profilo la prova della presumibile attività futura va supportata da
presunzioni gravi, precise e concordanti e anche sotto tale aspetto le conclusioni
del giudice di appello non sono rigorose, anche perchè non considerano le attività
lavorative compatibili con la menomazione fisica riscontrata.
La decisione impugnata è censurabile perchè la Corte territoriale erra nel riferire
la presunzione all'attività svolta dal padre del danneggiando, operando un
evidente salto logico. Al contrario, avrebbe dovuto verificare se, sulla base della
relazione del consulente tecnico d'ufficio, era stata espressa una concreta
incidenza sulla capacità lavorativa specifica e, in particolare, rispetto a quali
tipologie di attività lavorative.
Infine, qua. rito al criterio di liquidazione pari al triplo della pensione sociale,
adottato dalla Corte territoriale, va osservato la liquidazione del danno biologico,
va operata con criteri equitativi ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c.,
eventualmente anche applicando criteri predeterminati e standardizzati come le
cosiddette "tabelle", valutabili come parametri uniformi per la generalità delle
persone, salvo personalizzare il risultato al caso concreto. Al contrario, per la
determinazione del danno patrimoniale non può essere utilizzato il criterio del
triplo della pensione sociale, di cui al D.L. 23 dicembre 1976, n.
857, art. 4 convertito dalla L. 26 febbraio 1977, n. 39, trattandosi di norma
eccezionale, utilizzabile esclusivamente nell'ambito dell'azione diretta contro
l'assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale (Sez. 3, Sentenza n.
18161 del 25/08/2014 (Rv. 632224 - 01).
E pure in siffatto ambito, la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità
lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto
percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il
reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale
(oggi, assegno sociale). Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137 Cod.
Ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con
valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al
momento dell'infortunio godeva di un reddito, ma questo era talmente modesto
o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un
disoccupato (Cass. Sez. 3 - n. 25370 del 12/10/2018 - Rv. 651331 - 01).
Il terzo motivo, relativo alla entità del danno non patrimoniale liquidato ai
genitori, è assorbito.
I controricorrenti hanno formulato un'eccezione di giudicato per la mancata
impugnazione della sentenza da parte dei sanitari della fondazione. Compete al
giudice del rinvio definire gli effetti dell'accoglimento del ricorso sulla posizione
dei litisconsorti diversi dalla ricorrente e dalla Fondazione, in considerazione
degli specifici profili dedotti dall'assicuratore.
I controricorrenti hanno depositato, ai sensi dell'art. 372 c.p.c., comma 2
documentazione tesa ad ottenere la liquidazione di spese e compensi relativi al
procedimento incidentale per la sospensione dell'efficacia esecutiva della
sentenza di secondo grado ad istanza di Unipol Sai del 10 luglio 2017. La
documentazione attiene alla redazione degli atti difensivi depositati mediante
modalità telematica, l'attività di assistenza alle parti e le spese generali con
richiesta di distrazione, ai sensi dell'art. 93 c.p.c., in favore degli avvocati
antistatari, Michele Liguori e Conte Tiziana.
La produzione è rituale, trattandosi di documentazione relativa al procedimento
incidentale ai sensi dell'art. 373 c.p.c. nell'ambito del quale gli odierni
controricorrenti si sono costituiti, documentando la comparsa di costituzione e
risposta e l'esito della decisione adottata dalla Corte territoriale con ordinanza
del 23 novembre 2017. Si tratta di documentazione che non era possibile
allegare anteriormente al deposito del controricorso in quanto di formazione
successiva allo stesso (Cass. 11 dicembre 2017, n. 29615 ed altre).
Peraltro, posto che il ricorso viene accolto con rinvio le competenze relative a
tale fase del giudizio saranno prese in esame dalla Corte d'Appello sulla base
della documentazione prodotta (Cass. n. 16121 del 2011 e Cass. n. 3341 del
2009).
Ne consegue che il ricorso per cassazione deve essere accolto limitatamente al
primo e secondo motivo; la sentenza va cassata con rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e secondo motivo; dichiara assorbito il terzo;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche
per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d'Appello di Napoli, in
diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte
Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 03-07-2019) 11-11-2019, n. 28989
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. RUBINO Lina - Consigliere -
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere -
Dott. DELL'UTRI Marco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24793-2017 proposto da:
AZIENDA POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA in persona del Commissario
Straordinario e legale rappresentante pro tempore Dott. P.J., elettivamente
domiciliata in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA' N 20, presso lo studio
dell'avvocato STEFANO COEN, che la rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
D.B.M., D.B.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI, 4 INT. 19,
presso lo studio dell'avvocato FEDERICA MAZZONI, che li rappresenta e difende;
- controricorrenti -
e contro
A.M.G., M.U.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 1819/2017 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata
il 20/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal
Consigliere Dott. MARCO DELL'UTRI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato VINCENZO ANTONIO REYTANI per delega; udito l'Avvocato
FEDERICA MAZZONI.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza resa in data 20/3/2017, la Corte d'appello di Roma, in
accoglimento dell'appello proposto da D.B.M., in proprio e in qualità di genitore
esercente la responsabilità genitoriale sulla minore D.B.C., e in parziale riforma
della decisione di primo grado, ha condannato l'Azienda Policlinico Umberto I di
Roma al risarcimento, in favore degli appellanti (originari attori), dei danni dagli
stessi subiti a seguito del decesso di M.G. (coniuge e madre degli attori),
contestualmente confermando il rigetto della medesima domanda nei confronti
dei medici dell'azienda sanitaria convenuta, A.M.G. e M.U..
2. A fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato
l'avvenuta dimostrazione, a seguito delle indagini tecniche svolte nel corso del
giudizio, della riconducibilità del decesso della M. all'incidenza di un'infezione da
stafilococco aureo contratta dalla paziente nel corso del ricovero presso la
struttura ospedaliera dell'azienda sanitaria convenuta, senza che a tale processo
causale avesse contribuito l'eventuale condotta degli altri medici chiamati in
giudizio.
3. Ciò posto, la corte d'appello ha provveduto alla liquidazione del danno
rivendicato dagli originari attori, nella misura specificamente indicata in
sentenza.
4. Avverso la decisione d'appello, l'Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha
proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi d'impugnazione.
5. D.B.M. e D.B.C. resistono con controricorso.
6. Nessun altro intimato ha svolto difese in questa sede.
7. L'Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, l'azienda ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell'art. 112 c.p.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la
corte territoriale erroneamente ascritto la responsabilità della struttura sanitaria
in relazione a condotte verificatesi nel periodo compreso tra il 9 e il 16 novembre
2007, là dove la domanda originariamente proposta dagli attori era stata limitata
alle condotte della struttura sanitaria convenuta poste in essere in occasione
dell'accesso della paziente al pronto soccorso in data 9/11/2007, con la
conseguente decisione della causa in violazione del principio di obbligatoria
corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
2. Il motivo è inammissibile.
3. Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte,
l'interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e
all'ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità
limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a
tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l'identificazione della
volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un
ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base
a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente
dall'interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la
volontà dell'autore è irrilevante e l'unico criterio esegetico applicabile è quello
della funzione obiettivamente assunta dall'atto giudiziale (Sez. L, Sentenza n.
17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 - 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 del
06/02/2006, Rv. 586752 - 01).
4. Peraltro, il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del
contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è
tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute,
ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa
fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate
dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv. 637476 -
01).
5. Nella specie, l'odierna ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme
dell'eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che
ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, risulta
essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso
dall'interpretazione fornita dal giudice d'appello, così risolvendo le censure
proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità; e tanto,
al di là dall'assorbente rilievo concernente il carente assolvimento degli oneri di
puntuale e completa allegazione del ricorso, di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6 e art.
369 c.p.c., n. 4, con particolare riferimento all'omessa integrale allegazione degli
atti processuali indispensabili ai fini dell'esatta ricostruzione del contenuto della
domanda originariamente proposta dagli attori.
6. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell'art. 40 c.p., comma 2 e degli artt. 1218, 1228, 1175 e 1375
c.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale
erroneamente affermato la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra il
fatto della struttura sanitaria convenuta e il decesso della M., sulla base di
un'inadeguata valutazione degli elementi di prova complessivamente acquisiti
nel corso del giudizio e delle contraddittorie risultanze della consulenza tecnica
d'ufficio, giungendo ad affermare erroneamente la responsabilità della struttura
sanitaria, ai sensi dell'art. 1228 c.c., nonostante l'avvenuta attestazione
dell'insussistenza di alcun illecito colposo dei medici della medesima struttura.
7. Il motivo è infondato.
8. Dev'essere preliminarmente disattesa la censura avanzata dalla ricorrente con
riguardo alla contestazione del ragionamento probatorio contenuto nella
sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra il
fatto della struttura sanitaria e il decesso della M., trattandosi della pretesa
ridiscussione nel merito del significato rappresentativo degli elementi di prova
complessivamente richiamati dal giudice d'appello, secondo i termini di
un'operazione critica radicalmente inammissibile in sede di legittimità.
9. Ciò posto, varrà osservare come la corte territoriale abbia deciso sulla
domanda degli originari attori allineandosi con puntualità al consolidato
insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale
l'accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta
l'assunzione di una prestazione strumentale e accessoria - rispetto a quella
principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la
patologia del ricoverato - avente ad oggetto la salvaguardia della sua incolumità
fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di aggressione (Sez. 3,
Sentenza n. 19658 del 18/09/2014, Rv. 632999 - 01).
10. Nella specie, una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla
salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero della M.,
incombeva su detta struttura l'onere di fornire la prova della riconducibilità
dell'inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in
coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del
quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe
sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso
di causalità tra l'insorgenza di una nuova malattia e l'azione o l'omissione dei
sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla
struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non
imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un
impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza (cfr. Sez. 3,
Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018, Rv. 651166 - 01; Sez. 3, Sentenza n.
18392 del 26/07/2017 (Rv. 645164 - 01).
11. Avendo dunque gli attori comprovato la sussistenza di un preciso nesso di
derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e l'insorgenza
della patologia che condusse la M. al decesso, e non avendo detta struttura
dimostrato la riconducibilità dell'inadempimento, o dell'impossibilità
dell'adempimento, a una causa ad essa non imputabile, del tutto correttamente
il giudice a quo ha sancito la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria
convenuta per l'inadempimento contrattuale ad essa concretamente ascritto.
12. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso
esame di fatti decisivi controversi (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5), per avere
la corte territoriale omesso di considerare il complesso delle circostanze di fatto
analiticamente richiamate in ricorso che avrebbero, ove esaminate, contribuito
a escludere il riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta ascritta alla
struttura sanitaria convenuta e il decesso della M..
13. Il motivo è inammissibile.
14. Osserva il Collegio come al caso di specie (relativo all'impugnazione di una
sentenza pubblicata dopo la data del 11/9/12) trovi applicazione il nuovo
testo dell'art. 360 c.p.c., n. 5 (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83
del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del
2012), ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione
"per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti".
15. Secondo l'interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità,
tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di
legittimità ai soli casi d'inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza
assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente,
al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa
e obiettivamente incomprensibile), dall'altro chiama la Corte di cassazione a
verificare l'eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza
(rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato
extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere
decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della
controversia), rimanendo escluso che l'omesso esame di elementi istruttori, in
quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico
rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè
questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente
rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053
del 07/04/2014, Rv. 629830).
16. Ciò posto, occorre rilevare l'inammissibilità della censura in esame, avendo
la ricorrente propriamente trascurato di circostanziare gli aspetti dell'asserita
decisività della mancata considerazione, da parte della corte territoriale, delle
occorrenze di fatto analiticamente richiamate in ricorso e asseritamente dalla
stessa trascurate, e che avrebbero al contrario (in ipotesi) condotto a una sicura
diversa risoluzione dell'odierna controversia.
17. Converrà pertanto rilevare come, attraverso l'odierna censura, la ricorrente
altro non prospetti se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il
proprio soggettivo punto di vista, ancora una volta in coerenza ai tratti di
un'operazione critica come tale inammissibilmente prospettata in questa sede di
legittimità.
18. Con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116
c.p.c. e degli artt. 1218 e 2697 c.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3), per
avere la corte territoriale erroneamente liquidato, in favore degli attori, una
somma a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo dopo aver già
riconosciuto, in favore degli stessi soggetti, il risarcimento del danno da perdita
del rapporto parentale, con la conseguente indebita duplicazione degli importi
risarcitori riferiti a un medesimo pregiudizio, e per avere altresì riconosciuto, in
favore degli attori, l'importo massimo previsto dalle tabelle utilizzate per la
liquidazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nonostante
la sopravvivenza di altri congiunti e il mancato venir meno dell'intero nucleo
familiare dei danneggiati.
19. Il motivo è fondato.
20. Osserva il Collegio come, seguendo l'iter motivazionale dipanato nella
sentenza impugnata, la corte territoriale abbia liquidato, in favore degli attori,
un risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale unitamente
a un risarcimento a titolo di danno morale soggettivo per lo stesso fatto,
procedendo, dunque, dopo la liquidazione del primo danno, a un'ulteriore
maggiorazione a titolo di danno morale, in tal modo pervenendo a una vera e
propria duplicazione, ossia a una doppia considerazione della stessa lesione di
interessi, consistente nel peculiare patimento che affligge una persona per la
perdita del rapporto parentale.
21. Varrà al riguardo richiamare la testuale previsione di Cass. Sez. Un., 11
novembre 2008, n. 26972 (punto 4.8) secondo cui: "determina duplicazione di
risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata
configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la
sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che
accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che
componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente
ristorato".
22. La conclusione è stata riaffermata, con nettezza, tra le altre, da Sez. 3,
Sentenza n. 25351 del 17/12/2015, Rv. 638116 - 01 (v. altresì Cass. 8 luglio
2014, n. 15491; Cass. 23 settembre 2013, n. 21716) in cui si ribadisce come,
ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara,
la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del
danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di
risarcimento, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è
percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l'esistenza del
soggetto che l'ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano
elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad
essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente.
Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del
risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo
congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo
possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il
danno esistenziale, poichè il primo già comprende lo sconvolgimento
dell'esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca (Sez. 3, Ordinanza
n. 30997 del 30/11/2018, Rv. 651667 - 01).
23. Le richiamate esigenze di integralità e di unitarietà del risarcimento, in
particolare, trovano radice nella più recente elaborazione della giurisprudenza di
questa stessa Terza Sezione, là dove è intervenuta a delimitare i contorni del
compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, precisando
come la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario
concetto di danno non patrimoniale, in tanto è ammessa, in quanto sia evidente
la diversità del bene o interesse oggetto di lesione (Cass. 9 giugno 2015, n.
11851; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).
24. Tali principi hanno trovato ulteriore conferma nelle conclusioni cui, da ultimo,
è pervenuta questa Corte, là dove ha stabilito, in tema di danno non patrimoniale
da lesione della salute, come costituisca duplicazione risarcitoria la congiunta
attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che
con quest'ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado
percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane,
personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o
funzionale). Non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del
danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi
che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed
estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità
permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore
dell'animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva
che, ove sia dedotta e provata l'esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base
medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e
liquidazione (Sez. 3, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 - 01,
successivamente confermata da Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018,
Rv. 650858 - 02).
25. Ciò posto, in caso di risarcimento del danno da perdita, o da lesione, del
rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova
di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto
ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità
delle ricadute della condotta (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019,
Rv. 653591 - 01), spetterà al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla
base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell'eventuale
sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in
precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano
morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel
proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa,
in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del
soggetto che l'ha subita). E' in tale quadro che emergerà, con intuitiva evidenza,
il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di
apprezzare la gravità o l'entità effettiva del danno, richiamano il dato della
maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge,
convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino)
secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul
piano presuntivo e salva la prova contraria) nell'ambito delle tradizionali figure
parentali nominate, dall'altro non può che rimanere aperta alla libera
dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benchè di più
lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si
pensi, a mero titolo di esempio, all'eventuale intenso rapporto affettivo che abbia
a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino
(ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile
dimensione affettiva e/o esistenziale.
Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità
del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir
meno dell'intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell'effettiva
convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di
rapporto tra nono e nipote, Sez. 3, Sentenza n. 21230 del 20/10/2016, Rv.
642944 - 01. V. ancora Sez. 3, Sentenza n. 12146 del 14/06/2016, Rv. 640287
- 01), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es.,
l'età delle parti del rapporto parentale) che il prudente apprezzamento del
giudice di merito sarà in grado di cogliere.
26. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi che presiedono all'identificazione
delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa
dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà
del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano moralesoggettivo,
quanto su quello dinamico-relazionale, sì che, ad esempio, nel caso
di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso e ulteriore
rispetto alla sofferenza morale (rigorosamente comprovata) non può ritenersi
sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini
quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti
dello stile di vita, che è onere dell'attore allegare e provare; tale onere di
allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo
risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3,
Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 - 02; Sez. 3, Sentenza n. 16992
del 20/08/2015, Rv. 636308 - 01).
Rimane, infine, altresì ferma la netta distinzione tra il descritto danno da perdita,
o lesione, del rapporto parentale e l'eventuale danno biologico che detta perdita
o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte
di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno
parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza
soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva
compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l'uno e
l'altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del
danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili - in virtù del principio della
onnicomprensività" della liquidazione - di liquidazione unitaria (Sez. 3, Sentenza
n. 21084 del 19/10/2015, Rv. 637744 - 01).
27. Ciò posto, dovendo procedersi - in forza dell'accoglimento del motivo in
esame e della conseguente cassazione, sul punto, della sentenza impugnata -
all'integrale rielaborazione dei calcoli per la liquidazione del danno relativo alla
perdita del rapporto parentale, la successiva censura, riferita al riconoscimento
del massimo importo tabellare, deve ritenersi assorbita.
28. Con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione dell'art. 112 c.p.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la
corte territoriale erroneamente riconosciuto, in favore degli attori, il risarcimento
del danno tanatologico iure haereditatis, nella specie dagli stessi non
concretamente rivendicato, con la conseguente violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
29. Con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per
violazione degli artt. 1126, 2056 e 2059 c.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n.
3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza del
diritto degli attori al risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, in
contrasto con i più recenti arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione.
30. Il sesto motivo è fondato e idoneo ad assorbire la rilevanza del quinto.
31. Osserva il Collegio come, sulla base dell'articolazione argo-mentativa seguita
nella sentenza impugnata, il giudice a quo abbia obiettivamente riconosciuto la
liquidazione, in favore degli attori, di un danno, iure haereditario, per la perdita,
da parte della de cuius, del bene della vita in sè considerato, ossia di un danno
in sè diverso, tanto dal danno alla salute, quanto dal c.d. danno biologico
terminale e dal c.d. danno morale terminale (c.d. catastrofale) e, dunque,
indipendente dalla consapevolezza che il danneggiato possa averne avuto.
32. Ciò posto, la decisione così compendiata deve ritenersi errata, dovendo nella
specie trovare applicazione i principi sul punto statuiti da questa Corte, secondo
cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un
illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene
giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e
insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si
verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve
escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione - nel
primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene
e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero
- nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Sez.
U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985 - 01).
Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile
lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del
danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto
sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell'unitarietà del genus del danno
non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla
fattispecie ("danno morale terminale"), ovvero il danno da percezione,
concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella
sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, se
nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una
condizione di "lucidità agonica", in quanto in grado di percepire la sua situazione
e in particolare l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini
risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel
caso in cui la persona sia rimasta "manifestamente lucida" (Sez. 3 -, Sentenza
n. 26727 del 23/10/2018, Rv. 650909 - 01).
In ogni caso, rimane esclusa l'indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale
da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento
del "diritto alla vita" di cui all'art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di carattere
generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita) non detta
specifiche prescrizioni sull'ambito e i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, nè,
in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto
illecito, impone necessariamente l'attribuzione della tutela ri-sarcitoria, il cui
riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di
specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della
responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non
sull'evento lesivo in sè considerato (Sez. L, Sentenza n. 14940 del 20/07/2016,
Rv. 640733 - 01).
33. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del
quarto e del sesto motivo, la complessiva infondatezza dei primi tre e
l'assorbimento del quinto, dev'essere pronunciata la cassazione della sentenza
impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte
d'appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese
del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quarto e il sesto motivo; rigetta i primi tre; dichiara assorbito il quinto;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte
d'appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese
del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della
Corte Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019



Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 04-07-2019) 11-11-2019, n. 28990
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - rel. Consigliere -
Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere -
Dott. VALLE Cristiano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5361-2017 proposto da:
T.R., TO.EL., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sulla minore TA.EL.,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ARNO 88, presso lo studio dell'avvocato
CAMILLO UNGARI TRASATTI, rappresentati e difesi dall'avvocato ROBERTO
NICOLA CASSINELLI;
- ricorrenti -
contro
ISTITUTO GIANNINA GASLINI in persona del legale rappresentante pro tempore
Dott. P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FABIO MASSIMO, 60, presso
lo studio dell'avvocato LETIZIA CAROLI, rappresentato e difeso dall'avvocato
UGO CARASSALE;
- controricorrente -
e contro
M.G.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 858/2016 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata
il 27/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal
Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale SGROI CARMELO, che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI
CARMELO che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;
udito l'Avvocato CAMILLO UNGARI TRASATTI per delega orale;
udito l'Avvocato LETIZIA CAROLI per delega orale.
Svolgimento del processo
La Corte d'appello di Genova, con sentenza in data 27.7.2016 n. 858, in parziale
riforma della decisione di prime cure, ha rigettato l'appello principale proposto
da T.R. ed To.El., e n. q. di genitori della minore TA.EL., rilevando che, in
relazione alla responsabilità professionale dei medici intervenuti nella fase di
diagnosi e cura della malattia riscontrata sulla minore - affetta da sindrome di
Bartter ma erroneamente interpretata dai medici come morbo di Hirschprung -,
non era stata investita la statuizione che aveva accertato la particolare difficoltà
tecnica dei problemi investigati, con conseguente esonero da responsabilità per
colpa ritenuta non grave ex art. 2236 c.c.; ha dichiarato inammissibile il motivo
di appello principale volto a richiedere una maggiore liquidazione del danno non
patrimoniale per difetto di preventivo "consenso informato", confermando la
quantificazione operata dal Tribunale.
Relativamente agli appelli incidentali proposti dall'Istituto Giannina Gaslini, M.G.
e To.Mi., il Giudice distrettuale: ha ritenuto irrilevante la norma sopravvenuta di
cui al D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1, conv. con modificazioni
nella L. 8 novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi), in quanto intesa
esclusivamente a limitare la responsabilità penale dell'esercente la professione
sanitaria e non anche a qualificare in modo differente la responsabilità civile del
sanitario, che continuava a rispondere dei danni anche per colpa lieve, ed ha in
conseguenza confermato l'accertamento di responsabilità dell'Istituto Gaslini e
del Dott. M. in ordine agli esiti pregiudizievoli degli interventi chirurgici cui era
stata sottoposta la minore, che aveva sofferto postumi invalidanti, mentre ha
rigettato la domanda risarcitoria nei confronti del Dott. To.Mi. che aveva rivestito
la posizione di "aiuto" ed in relazione al quale non venivano in rilievo elementi
di responsabilità per l'attività svolta in equipe.
La Corte territoriale ha, inoltre, rigettato l'appello principale e gli appelli
incidentali in punto di determinazione del periodo di invalidità temporanea e dei
postumi invalidanti residuati alla minore, come accertati in esito alla c.t.u.
collegiale, mentre ha riformato la decisione del Tribunale in relazione alla
liquidazione del danno biologico, ritenendo che trovasse immediata applicazione
al giudizio in corso il D.L. n. 158, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189
del 2012, che rinvia ai criteri di determinazione del "quantum" previsti dal D.Lgs.
n. 209 del 2005 e succ. mod., artt. 138 e 139: ed ha quindi liquidato il danno
biologico permanente e temporaneo subito dalla minore, rispettivamente, in
Euro 8.093,90 (IP) ed in Euro 25.343,78 (ITA ed ITP), ed il "danno morale" in
Euro 6.687,54 - così incrementato del 20% -, oltre al ristoro del danno
compensativo del lucro cessante, calcolato in relazione alla diversa decorrenza
della inabilità temporanea e di quella permanente, in base ai principi enunciati
dalle SS.UU. n. 1712/1995.
Confermando il danno accertato dal primo Giudice nei confronti dei genitori per
lesione del diritto ad essere informati correttamente sulle conseguenze (rischio
di complicanze) dell'intervento praticato alla minore, la Corte d'appello ha altresì
riconosciuto in favore dei predetti anche il "danno non patrimoniale" da
pregiudizio alla vita familiare comprensivo della sofferenza patita, riliquidando in
complessivi Euro 15.000,00 per ciascun genitore tutte le predette voci di danno.
La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata da T.R. ed To.El. in
proprio e n. q. di genitori della minore TA.EL. con ricorso per cassazione affidato
a due motivi.
Ha resistito con controricorso l'Istituto Giannina Gaslini.
Non ha svolto difese M.G. cui il ricorso è stato ritualmente notificato all'indirizzo
PEC del difensore domiciliatario in data 24.2.2017.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte.
Le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
A. Questioni preliminari.
I genitori della minore hanno introdotto il giudizio di merito richiedendo anche il
risarcimento del danno non patrimoniale "jure proprio" derivante dalla omessa
preventiva informazione sui rischi di complicanze cui poteva dare luogo
l'intervento chirurgico, nonchè dalla sofferenza dovuta ai plurimi interventi cui
era stata sottoposta la minore ed alla incidenza sulla vita familiare delle
menomazioni permanenti subite dalla figlia. Tale domanda è stata accolta dalla
Corte distrettuale con statuizione che non è stata investita dai motivi del ricorso
per cassazione nè da impugnazione incidentale ed è, dunque, passata in
giudicato.
Consegue la declaratoria di inammissibilità, per difetto di legittimazione attiva,
della impugnazione proposta da T.R. ed To.El. anche "in proprio", oltre che nella
qualità di genitori della minore TA.EL..
B. Esame dei motivi di ricorso.
Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell'art. 32 Cost., artt. 1218, 1223,
1226, 2043 e 2059 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
p..1 Sostengono i ricorrenti che la Corte distrettuale ha travisato il motivo di
gravame con il quale non si intendeva contestare l'accertamento compiuto dai
CC.TT.UU., sibbene valorizzarlo - ai fini liquidatori - laddove i consulenti di ufficio
avevano accertato che la minore era già affetta da una rara sindrome genetica
(Bartter) che risultava sufficientemente stabilizzata e che comportava una
preesistente invalidità biologica permanente valutata intorno al 10%,
menomazione sulla quale avevano inciso peggiorativamente gli esiti negativi
dell'intervento chirurgico eseguito in base alla errata ed incompleta diagnosi, che
avevano determinato ulteriori postumi permanenti valutati nella misura del 6-
7%.
1.2 Preliminarmente va disattesa la eccezione di giudicato interno formulata
dalla parte controricorrente in reazione alla asserita mancata impugnazione in
grado di appello della statuizione sulla liquidazione del danno biologico della
minore.
Dal ricorso, infatti, emerge come con l'atto di appello i genitori della minore
avessero tra l'altro contestato che l'ulteriore danno derivato dalla esecuzione
dell'intervento chirurgico praticato dal Dott. M. fosse stato considerato in modo
avulso dalla preesistente patologia genetica di Bartter, dovendosi piuttosto
ritenere, anche sulla scorta della relazione dei CC.TT.UU., che si fosse in
presenza di un "maggior danno o danno differenziale giunto ad aggravare un
quadro clinico di per sè complesso ed invalidante" (cfr. trascrizione del motivo
di appello riportata alla pag. 17-18 del ricorso).
1.3 Tanto premesso, in caso di preesistenze invalidanti della condizione di salute
di una persona fisica, occorre fare chiarezza sulle nozioni di "concausa di lesioni"
e di "concausa di menomazioni".
La prima nozione (concausa di lesioni) attiene al ciclo della causalità materiale
ed è regolata dall'art. 41 c.p. e dall'art. 1227 c.c., comma 1, venendo in
questione il concorso della causa naturale (lo stato di salute pregresso) con la
causa umana (la condotta professionale medica) nella determinazione
dell'evento lesivo della salute in un soggetto già parzialmente compromesso. La
questione va risolta in base al principio di diritto enunciato da questa Corte
secondo cui, in materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base
ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori
naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento
imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno
indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della
omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non
avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza
causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza
l'apporto umano, all'evento di danno (cd. "thin skull rule"), l'autore del
comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da
esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una
riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto
una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può
instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non
tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne
consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un
eventuale contributo "con-causale" di un fattore naturale (quale che esso sia),
non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio
"semplificato", tale da condurre "ipso facto" ad un frazionamento delle causalità
in via equitativa, con relativo ridimensionamento del "quantum" risarcitorio (cfr.
Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n.
8995 del 06/05/2015), dovendo quindi trovare applicazione sul piano della
causalità materiale il principio "all or nothing", sia pure temperato nell'ambito
del diritto civile, dalla regola logica fondata sull'esame delle circostanze concrete
del "più probabile che non".
La seconda nozione (concausa di menomazioni) attiene al piano della cd.
causalità giuridica disciplinato dall'art. 1223 c.c. ossia della relazione che lega
l'evento lesivo (lesione della salute) alle conseguenze pregiudizievoli (postumi
invalidanti) secondo un nesso di regolarità eziologica che riconduce al primo
tanto gli effetti dannosi diretti quanto quelli indiretti ove oggettivamente
prevedibili quali effetti che derivano o che deriveranno - secondo l'"id quod
plerumque accidit" - dalla lesione personale.
1.4 Al riguardo occorre osservare che, in caso di lesione del diritto alla salute, le
distinte menomazioni della capacità biologica del soggetto possono incidere in
modo diverso sulla complessiva condizione di salute residua della persona fisica,
secondo differenti ipotesi fenomenologiche indagate dalla medicina-legale, che
hanno trovato esplicitazione nelle linee guida di valutazione del danno alla
persona elaborate dalle associazioni professionali, tra cui la Società di Medicina
Legale e delle Assicurazioni (SMILA), nonchè diretto riscontro nella disciplina
normativa del settore delle assicurazioni sociali obbligatorie (D.P.R. 30 giugno
1965, n. 1124, art. 78, comma 4, art. 79, art. 80, comma 3 e
artt. 81 e 82; D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, commi 5 e 6) e della
liquidazione del danno biologico, originariamente con riferimento alla sola
materia di sinistri stradali (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, in
relazione al D.M. Salute 3 luglio 2003 adottato in attuazione della L. 5 marzo
2001, n. 57, art. 5, comma 5, che nell'All. 1, intitolato "criteri applicativi", fa
espresso riferimento al "danno composito" ed ai "danni plurimi monocroni") e,
successivamente, anche al danno biologico subito dalla vittima di atti di
terrorismo (D.Lgs. 30 ottobre 2009, n. 181, art. 4, comma 1, lett. b) e quindi,
più recentemente, ai danni conseguenti a responsabilità professionale medica
(D.L. n. 158, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012 - cd. Legge
Balduzzi -; L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, commi 4 e 5, - cd. Legge Bianco Gelli
-).
La condotta lesiva della integrità psicofisica può produrre, infatti, un'unica
menomazione (una sola alterazione anatomica od una sola minorazione
funzionale) o può invece determinare un insulto comprensivo di plurime
alterazioni anatomiche e minorazioni funzionali in quanto interessanti più organi
od apparati.
1.5 Le menomazioni plurime - prodotte dalla medesima lesione o da molteplici
lesioni arrecate contestualmente od in tempi diversi - possono distinguersi:
a) in relazione al criterio cronologico del fatto generatore: in menomazioni
"monocrone o policrone" (secondo che il medesimo attentato alla integrità
psicofisica del soggetto porti ad emersione tutte le plurime conseguenze
dannose, simultaneamente o comunque progressivamente secondo una
sequenza di naturale aggravamento, od invece, gli attentati alla integrità
psicofisica del soggetto siano stati realizzati con condotte lesive diacroniche
sicchè la nuova menomazione si innesti su uno stato patologico pregresso del
soggetto e cioè su postumi invalidanti preesistenti).
b) in relazione al tipo di disfunzionalità prodotto: in menomazioni "concorrenti o
coesistenti" (secondo che le menomazioni colpiscano tutte il medesimo apparato
od organo, ossia concernano più arti od organi sinergici od aventi comunque
affinità funzionale, ovvero - invece - interessino differenti distretti anatomici o
funzioni organiche, ossia più arti o più organi non affini o sinergici: le
menomazioni "concorrenti" possono comportare, di regola, una variazione
incrementativa dell'effetto invalidante e dunque del grado di inabilità della
menomazione preesistente; le menomazioni "coesistenti" conservano l'effetto
invalidante dalle stesse prodotto, che rimane, di regola e salvo specificità del
caso concreto, immutato, in quanto del tutto indipendente rispetto alla
valutazione della capacità pregressa del soggetto rispetto alla nuova
menomazione. Appare, inoltre, opportuno chiarire come il fenomeno delle
menomazioni "concorrenti" debba tenersi separato da quello
dell'"aggravamento" della medesima menomazione: il primo configurando un
rapporto tra distinti postumi - ossia tra eventi lesivi policroni che presuppongono
il loro consolidamento, il che è a dire la definitiva stabilizzazione delle condizioni
invalidanti, derivate da ciascuna lesione, che segue alla guarigione dal periodo
di malattia, sicchè la ulteriore invalidità si "aggiunge" a quella preesistente -; il
secondo consistendo, invece, nella naturale evoluzione degli effetti invalidanti
prodotti dalla medesima lesione, generalmente identificandosi nello sviluppo
delle cd. malattie lungolatenti o nella emersione di effetti patologici inizialmente
sconosciuti. L'aggravamento della malattia ha assunto rilievo in giurisprudenza
soprattutto nell'ambito della tutela infortunistica del lavoro, al fine della
delimitazione degli ambiti applicativi delle disposizioni di cui agli artt. 83 e 137 -
aumento o diminuzione della rendita, in caso la inabilità originaria subisca
aggravamenti o miglioramenti nel corso del tempo - ed agli artt. 80, 131 e 132
- riformulazione integrale della rendita in caso di "nuovo" infortunio o "nuova"
malattia, seppure originato dal medesimo rischio patogeno od avente la stessa
natura della prima - del TU approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124: cfr.
Corte Cost. sentenza del 12.2.2010, n. 46).
1.6 La esigenza teorica di provvedere ad una diversa valutazione del danno
biologico in seguito a plurime menomazioni nasce dagli stessi criteri di redazione
dei "baremes" medico-legali attraverso i quali ad ogni compromissione anatomofunzionale,
specificamente individuata viene assegnato un determinato grado di
invalidità rispetto allo standard fatto pari a 100 della piena integrità dell'apparato
od organo preso in considerazione, criteri che prescindono, quindi, dal
riferimento alla globale ed effettiva situazione personale del soggetto il quale,
ad esempio, potrebbe riportare plurime contestuali menomazioni, che tuttavia
non potrebbero per ciò stesso essere valutate attraverso una semplice
sommatoria dei gradi di invalidità tabellari determinati in relazione a ciascuna di
esse, atteso che l'applicazione del mero criterio matematico potrebbe esitare
finanche nell'assurdo riconoscimento di una invalidità complessiva addirittura
superiore al 100%, che risulterebbe logicamente incompatibile rispetto ad una
persona che, essendo tuttora in vita, esprime ancora - per quanto minimo possa
essere - un determinato grado di capacità biologica.
Del pari nel caso di menomazioni "preesistenti", il mero cumulo del nuovo grado
di invalidità con quello corrispondente alla precedente minore capacità biologica
del soggetto, oltre a dare luogo all'inconveniente sopra descritto, non appare
idoneo ad esprimere - in maggiore evidenza nel caso di lesioni concorrenti -
l'effettiva condizione di salute globale residua della persona (è ormai classico
l'esempio per cui se il grado di invalidità per la perdita di un occhio "in soggetto
sano" è valutata in un certo grado tabellare, la perdita dell'unico occhio residuo
"in soggetto monocolo" non potrà essere valutata allo stesso modo, in quanto in
quest'ultimo caso è stata definitivamente compromessa la funzione della vista,
e dunque il pregiudizio alla capacità biologica complessiva del soggetto è
certamente maggiore).
Evidente risulta, pertanto, la diversa incidenza che può assumere, ai fini
dell'accertamento della complessiva validità biologica di un soggetto, la
menomazione che si aggiunga ad altra già preesistente, a seconda che concorra
alla medesima disfunzionalità o invece ne determini una nuova non interferente
con il distretto anatomo-funzionale già pregiudicato.
Deve essere, dunque, accolta la indicazione elaborata in medicina legale e
recepita dal Legislatore secondo cui, in caso di plurime menomazioni, è
certamente legittimo assumere come riferimento i gradi tabellari concernenti le
singole compromissioni, salva, in ogni caso, una valutazione globale complessiva
della residua capacità biologica del soggetto leso, volta ad individuare la effettiva
incidenza dei molteplici postumi, concorrenti o coesistenti, sulla integrità psicofisica
del soggetto danneggiato.
A tale compito deve accingersi confrontando la situazione antecedente e quella
successiva, bene potendo emergere la totale irrilevanza della pregressa
invalidità sul distinto pregiudizio alla salute arrecato dalla successiva lesione
della integrità psicofisica, salva, va ripetuto, la specificità del caso concreto (la
pregressa perdita di due dita di un arto superiore, di regola, non interferisce in
alcun modo con l'indebolimento dell'organo visivo cagionato dalla lesione
successiva: ma la stessa perdita inciderà diversamente nell'ipotesi di soggetto
già totalmente non vedente, che utilizzava quella parte dell'arto superiore a fini
non soltanto tattili). In tal caso, allora, il medico-legale, al fine di verificare il
grado di invalidità derivato dalla successiva menomazione, dovrà avere come
parametro di riferimento la piena capacità biologica anteriore del soggetto, senza
tenere conto dei postumi preesistenti non interferenti.
A diversa conclusione si dovrà invece pervenire laddove il postumo preesistente,
pur non potendo considerarsi "concorrente" (in quanto non afferente il medesimo
distretto anatomo-funzionale), venga tuttavia in qualche modo ad incidere sulla
complessiva validità biologica del soggetto, rendendogli più difficoltoso l'"agere"
quotidiano o le relazioni sociali (la pregressa invalidità all'arto inferiore che
imponga al soggetto, per deambulare, l'appoggio con bastone, pur attenendo a
complesso anatonomo-funzionale distinto, assume indiscussa incidenza
peggiorativa sulle condizioni biologiche del soggetto laddove questi, a causa di
lesioni policrone, venga successivamente a perdere anche uno degli arti superiori
utilizzato per l'ausilio alla deambulazione).
1.7 L'accertamento del grado di invalidità biologica è compiuto dall'ausiliario
medico-legale, e dunque a questi spetta rispondere, alla stregua delle pertinenti
"leges artis", al quesito posto dal Giudice, verificando quale fosse la capacità del
soggetto "ante ac post eventum"; in sostanza, egli deve accertare la capacità
biologica per così dire "differenziale" ponendo a confronto lo stato di validità
anteriore e quello successivo, venendo a pesare in modo diverso il grado
percentuale indicato nel bareme secondo che lo stato patologico pregresso:
- risulti del tutto indifferente rispetto alla "nuova" disfunzionalità residuata
dall'evento lesivo (ipotesi normalmente riscontrabile nel caso di menomazioni
coesistenti);
- venga a peggiorare la situazione già compromessa incrementando la
disfunzionalità preesistente (ipotesi che, al massimo grado, si riscontra nelle
menomazioni concorrenti).
Nel primo caso il consulente tecnico di ufficio potrà valutare autonomamente gli
effetti invalidanti permanenti della nuova lesione, come se venissero riferiti ad
un soggetto sano.
Nel secondo caso la maggiore invalidità permanente derivata dal nuovo evento
lesivo risulterà effetto dello stato preesistente, in quanto l'indebolimento di un
organo già compromesso, rispetto al medesimo indebolimento di un organo
sano, non si traduce in un eguale diminuzione di validità, ma nel soggetto affetto
dalla preesistenza quell'indebolimento corrisponderà ad un grado (ulteriore) di
invalidità biologica maggiore.
Accertato dall'ausiliario il grado di invalidità in relazione ad un giudizio espresso
in prospettiva globale alla concreta ed effettiva condizione biologica del soggetto,
spetterà esclusivamente al Giudice, sul piano della liquidazione del danno,
individuare se ed in che modo il differenziale esprimente la compromissione
biologica debba essere integralmente o solo parzialmente ricondotto alle
conseguenze dirette ed immediate dell'evento lesivo, ex art. 1223 c.c.,
individuando il criterio da utilizzare per la liquidazione equitativa del danno
biologico nel caso in cui, come nella fattispecie sottoposta all'esame del Collegio,
la (nuova) conseguenza dannosa arrecata dalla condotta illecita
(indipendentemente dalla natura contrattuale od extracontrattuale) colpisca una
persona che presentava uno stato di validità biologica già parzialmente
compromesso. Orbene, fermo il distinto accertamento del nesso di causalità
materiale tra condotta e (nuovo) evento lesivo, da condurre alla stregua dei
principi normativi rinvenibili negli artt. 40 e 41 c.p. e nell'art. 1227 c.c., comma
1, con la conseguenza che la lesione del bene salute, se riconducibile anche -
alla condotta del debitore/autore dell'illecito, non può che essere imputata
integralmente a quest'ultimo, non spiegando alcun rilievo sulla predetta verifica
eziologica la preesistente - concorrente - causa naturale (costituita dallo stato
patologico pregresso) quando anche abbia contribuito alla progressiva
evoluzione peggiorativa delle condizioni di salute del soggetto (cfr. Corte cass.
Sez. L, Sentenza n. 1135 del 19/01/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del
21/07/2011), osserva il Collegio che non possono, tuttavia, essere attribuite al
professionista ed alla struttura sanitaria anche quelle conseguenze dannose non
ricollegabili direttamente all'evento lesivo, secondo il nesso di causalità giuridica
ex art. 1223 c.c., in quanto risultino derivate - invece - dal pregresso stato
invalidante del soggetto danneggiato, non potendo affermarsi la responsabilità
dell'agente per quei danni che non dipendano dall'evento lesivo riconducibile alla
sua condotta - che non ne costituisce un antecedente causale - e si sarebbero
verificati ugualmente anche senza di essa, nè per quelli preesistenti, come la
pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia
eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del
sanitario (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 13400 del 08/06/2007; id. Sez. 3,
Sentenza n. 15991 del 21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del
12/06/2012; id. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27524 del 20/11/2017; id. Sez. 3 -,
Sentenza n. 10812 del 18/04/2019), essendo opportuno, pertanto, estendere,
da parte del Giudice di merito, la indagine demandata all'ausiliario anche alle
eventuali modalità evolutive in senso peggiorativo della menomazione
preesistente onde verificare quale sarebbe stata la ineluttabile condizione di
invalidità del soggetto in assenza del successivo atto lesivo (cfr. Corte cass. Sez.
3, Sentenza n. 24204 del 13/11/2014, in un particolare caso in cui, nella
determinazione del quantum, si era tenuto conto dell'effetto anticipatore
immediato della invalidità psichica che, altrimenti sarebbe comunque
sopravvenuta - se pure in un tempo più lungo - a causa della pregressa malattia
di Alzheimer di cui era affetto il danneggiato; id. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27524
del 20/11/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20836 del 21/08/2018, secondo cui,
quando difetti la prova che la menomazione pregressa sarebbe evoluta
determinando autonomamente conseguenze invalidanti, alcuna rilevanza può
essere attribuita a tale preesistenza, ai fini della individuazione del danno
risarcibile, diversamente venendo ad applicarsi l'intollerabile principio secondo
cui persone che, per loro disgrazia - e non già per colpa imputabile ex art. 1227
c.c. o per fatto addebitabile a terzi -, siano più vulnerabili di altre, dovrebbero
irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri
consociati caratterizzati da cosiddetta "normalità").
1.8 La fase della "aestimatio", di esclusiva pertinenza del giudice, segue pertanto
alla esatta individuazione della modifica peggiorativa del grado di invalidità
biologica, che rimane specularmente di esclusiva pertinenza della medicina
legale, dovendo il Giudice di merito tradurre il differenziale di tale invalidità
nell'equivalente monetario oggetto della obbligazione risarcitoria. Operazione
che prescinde, quindi, da incrementi o diminuzioni del grado percentuale di
invalidità permanente accertato dal consulente di ufficio, dovendo piuttosto
essere eseguita confrontando i valori patrimoniali ricavati dalle Tabelle di
liquidazione del danno biologico corrispondenti ai differenti stati di incapacità
rilevati dal CTU prima e dopo l'evento lesivo - tenendo conto, come si è visto,
della incidenza eventualmente svolta dalle menomazioni preesistenti - e dunque
determinando in tal modo la entità patrimoniale del danno effettivamente
gravante sul responsabile, operando, alla luce della specificità del caso concreto,
aumenti o diminuzioni dell'importo risarcitorio su base equitativa (cfr. Corte
cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 25327 del 12/12/2016 che, nel caso di plurime
liquidazioni parziali del danno determinate con criteri diversi - indennizzo
corrisposto dall'assicuratore sociale in base alla normativa speciale; risarcimento
del danno secondo i criteri propri della responsabilità civile -, evidenzia come il
residuo importo risarcitorio debba essere liquidato non già sottraendo dal grado
percentuale di invalidità permanente, individuato sulla base dei criteri civilistici,
quello determinato dall'INAIL coi criteri dell'assicurazione sociale, bensì,
dapprima, monetizzando l'uno e l'altro grado di invalidità, e successivamente
sottraendo il valore capitale dell'indennizzo INAIL dal credito risarcitorio
aquiliano).
p..2 Tanto premesso, il motivo di ricorso è inammissibile, non rispondendo ai
requisiti minimi prescritti dall'art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4).
I ricorrenti infatti intendono contestare l'affermazione della Corte d'appello
secondo cui le conseguenze tipiche della sindrome di Bartter non potevano
essere considerate ai fini dell'accertamento dei postumi derivati dall'intervento
chirurgico non correttamente eseguito, trattandosi di sindrome genetica
preesistente. Sostengono a tal fini i ricorrenti che in tal modo il Giudice di merito
si sarebbe discostato dalle conclusioni raggiunte dai CC.TT.UU., nelle note
integrative ed a chiarimenti, secondo cui "il danno permanente preesistente può
essere inquadrato per via analogica intorno al 10% e quindi la valutazione del
danno biologico permanente (6/7%) proposta nella c.t.u. è inquadrabile come
percentuale ulteriormente peggiorativa (differenziale) della condizione di salute
di base della bambina" (cfr. ricorso pag. 19).
Ma, affermando i ricorrenti di condividere le risultanze peritali, non è dato allora
individuare se la critica debba intendersi allora rivolta, non all'accertamento del
grado di invalidità, ma al valore patrimoniale riconosciuto dai Giudice di merito,
ovvero al criterio con il quale è stato esercitato il potere di liquidazione equitativa
del danno.
2.1 Se tale ultima fosse da ritenere la critica, appare evidente come lo stralcio
delle note integrative predette non consenta alla Corte di acquisire contezza degli
elementi essenziali per compiere la verifica della censura di legittimità e per
constatare la correttezza o meno della "aestimatio" del danno biologico.
E' infatti reso noto, dalla lettura del ricorso, soltanto che la Corte d'appello ha
assunto a base della liquidazione il grado di invalidità permanente del 6%,
indicato nella c.t.u. medico-legale, confermando sul punto la statuizione del
Tribunale (che, secondo quanto emerge da fugace notazione a pag. 21 ricorso,
avrebbe applicato i valori delle Tabelle di Milano), rimanendo invece del tutto
ignoto il "modus procedendi" del Giudice di merito e dunque difettando proprio
lo stesso oggetto della critica, non essendo specificato se l'errore in cui sarebbe
incorsa la Corte distrettuale andrebbe rinvenuto nella individuazione del valore
punto ricavato dalla Tabella in quanto determinato in base alla scala 0-6 anzichè
in base alla scala 10-16 (ove 10 è l'invalidità della menomazione pregressa non
imputabile alla condotta professionale del medico), od invece nella errata
comparazione dei valori monetari equivalenti concernenti i predetti stati di
invalidità biologica, od ancora, invece, la mancata considerazione di un
"differente" grado di invalidità biologica rispetto a quelli indicati nella relazione
peritale e nelle note a chiarimento depositate dai CC.TT.UU..
2.2 In quest'ultimo caso, che sembrerebbe adombrato nel ricorso mediante il
richiamo ai precedenti di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6341 del
19/03/2014 ed id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012, la critica parrebbe
diretta a contestare la omessa considerazione da parte del Giudice di merito del
"danno cd. differenziale", la cui nozione tuttavia - nel caso concreto - non trova
chiara esplicazione nel motivo di ricorso atteso che:
nel primo precedente giurisprudenziale si ha riguardo all'esito infausto
dell'intervento chirurgico che, in quanto eseguito non in conformità alle "leges
artis", ha prodotto un esito peggiorativo del precedente stato di salute (già
compromesso), determinando conseguenze pregiudizievoli "maggiori" (cd.
danno iatrogeno) di quelle altrimenti riconducibili - quali conseguenze in ogni
caso non evitabili - dell'intervento correttamente eseguito: in questa ipotesi lo
stato patologico pregresso, rendendo necessario detto intervento, è causa
naturale efficiente delle conseguenze negative "normali", cioè riferibili al rischio
oggettivamente ineliminabile dell'intervento infausto, sicchè il relativo danno
(ossia il peggioramento della capacità biologica determinato dalla complicanza
inevitabile connessa alla esecuzione - regolare e corretta - dell'intervento, quale
rischio noto ed oggettivamente ineliminabile) non può essere in alcun modo
imputabile al professionista che ha diligentemente eseguito la prestazione
(anche se questa non ha raggiunto il risultato di miglioramento o guarigione
sperato); laddove invece detto intervento non sia stato conforme alle "leges
artis" ed abbia prodotto, oltre alla prevista complicanza comunque ineliminabile,
anche ulteriori pregiudizi (determinati da altre complicanze che non si sarebbero
verificate ove l'intervento fosse stato correttamente eseguito), allora in tal caso:
a) lo stato patologico pregresso (quale causa naturale preesistente) interviene a
concorrere con la inesatta prestazione del professionista (quale causa umana
successiva) nella produzione del danno consistito nella complessiva diminuzione
della precedente capacità biologica del soggetto, non essendo quindi idoneo "ex
se" ad escludere la riconducibilità eziologica dell'evento lesivo (anche) alla
condotta del professionista (risultando in tal guisa verificato il nesso di causalità
materiale tra concorso di causa naturale ed umana ed "eventuffi damni"); b) la
diminuzione della capacità biologica - rispetto a quella accertata anteriormente
all'intervento - non può essere imputata, tuttavia, integralmente al medico,
dovendo provvedersi a distinguere, sul piano del nesso di causalità giuridica
ex art. 1223 c.c., la invalidità correlata alla inevitabile complicanza derivata dalla
necessità dell'intervento (che trova genesi nella causa naturale pregressa, ossia
nella precedente condizione di salute) da quella invece correlata all'altrimenti
evitabile "maggiore" pregiudizio determinato dalla inesatta prestazione, e
dunque dovendosi accertare il pregiudizio biologico differenziale tra lo stato di
salute che sarebbe esitato da intervento infausto correttamente eseguito e
quello invece esitato in concreto a causa dell'errore professionale (danno
differenziale iatrogeno) nel secondo precedente giurisprudenziale, invece, oltre
alla affermazione del principio di equivalenza causale (supra lett. a), viene in
questione, ai fini della identificazione delle conseguenze pregiudizievoli
determinate dalla inesatta prestazione medica la ridotta validità biologica
residuata al soggetto dopo l'intervento rispetto alla già compromessa capacità
preesistente, e dunque in questo caso il "differenziale negativo" del grado
percentuale di invalidità (danno differenziale) è dato dal mero confronto tra lo
stato di capacità biologica del soggetto "ante ac post eventum damni", dovendo
aggiungersi che la verifica può complicarsi nel caso in cui i postumi derivati
dall'intervento inesatto si sarebbero in tutto od in parte - anche se
eventualmente in tempi diversi - egualmente prodotti a causa della naturale
evoluzione della patologia pregressa: in quest'ultimo caso infatti - come si è visto
- dovrà provvedersi a circoscrivere il "maggior" danno biologico risarcibile dovuto
dal professionista soltanto a quello non dipendente dal naturale sviluppo della
malattia (tenuto conto anche del decorso temporale della stessa e dei tempi di
insorgenza dell'indefettibile peggioramento).
2.3 Orbene la critica rivolta con il motivo in esame alla asserita omessa
considerazione del danno differenziale, indipendentemente dalla esatta
ricognizione dello stesso, non appare calzante, atteso che i CC.TT.UU. hanno
esplicitamente indicato il grado del 6% quale percentuale riferibile al danno
biologico differenziale, e tale misura percentuale è stata adottata da entrambi i
Giudici di merito nella liquidazione equitativa dell'importo da risarcire, di tal chè
non è dato comprendere in che modo gli stessi siano incorsi nell'errore
denunciato.
2.4 Qualora poi i ricorrenti avessero inteso invece contestare la determinazione
del grado percentuale di invalidità riferito al danno "differenziale", il motivo si
palesa del tutto privo di specificità in quanto:
a) non viene fornito alcun argomento critico rispetto alle modalità attraverso le
quali il collegio degli ausiliari è pervenuto all'accertamento di tale "maggiore"
grado invalidità, non venendo neppure allegato se gli ausiliari abbiano proceduto
ad accertare con valutazione sintetica il "differenziale" tra lo stato di salute
pregresso e lo stato successivo, confrontando quindi i rispettivi gradi di invalidità
biologica "complessiva", od abbiano invece - in ipotesi - individuato
semplicemente il grado di invalidità riferito ai postumi ("lieve incontinenza
sfinteriale ano-rettale.....lieve difficoltà nella assunzione di cibi solidi in via di
risoluzione") isolatamente considerati, in base ai baremes utilizzati;
b) non vengono neppure specificate quali siano le menomazioni stabilizzatesi
antecedentemente all'intervento chirurgico- riferibili alla sindrome genetica di
Bartter che caratterizzavano la invalidità pregressa (stimata dai CC.TT.UU. nella
misura del 10%);
c) non viene sviluppato alcun argomento critico in ordine alla qualificazione ed
alla relazione in cui vengono a porsi i postumi, derivati dall'intervento chirurgico,
con le menomazioni preesistenti: in particolare non viene neppure riferito se
debba intendersi sussistente una relazione di concorrenza o di mera coesistenza.
Questione come sopra indicato che dà luogo a soluzioni di indagine medicolegale
e, conseguentemente, di liquidazione del danno per equivalente del tutto
distinte: argomentazione critica tanto più necessaria, tenuto conto che, come è
dato evincere dalla lettura della sentenza di primo grado, parzialmente trascritta
nel controricorso (pag. 9-10) e nella memoria illustrativa (pag. 11-15) del
resistente Istituto Giannina Gaslini, il Tribunale aveva espressamente esaminato
la questione rilevando, da un lato, che i CC.TT.UU. avevano determinato la
ulteriore invalidità, nella misura del grado del 6%, tenendo conto della
preesistente sindrome di Bartter, e dall'altro, che pur in presenza di "pregresse
ed autonome menomazioni che tecnicamente vengono definite inabilità non
concorrenti" (dunque in presenza di preesistenti menomazioni "coesistenti") non
si era fatto ricorso al "metodo scalare" inteso a raccordare il grado di invalidità
"differenziale" soltanto ad una frazione (corrispondente alla pregressa ridotta
capacità biologica) e non all'intera capacità biologica del soggetto (fatta pari a
100 in relazione ad un soggetto sano, di pari età e genere).
Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell'art. 11 preleggi; D.L. n. 158
del 2012, art. 3, comma 3; D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139; artt. 1218,
1223, 1226, 2043 e 2059 c.c..
p..3 I ricorrenti impugnano la statuizione della sentenza di appello che ha
ritenuto immediatamente applicabile lo "jus superveniens" della disposizione
del D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012,
che in materia di responsabilità sanitaria della struttura e del medico ha rinviato
per la liquidazione del danno biologico ai parametri già previsti dal D.Lgs. n. 209
del 2005, artt. 138 e 139 in tema di assicurazione della responsabilità civile da
sinistro stradale.
Sostengono i ricorrenti, richiamando diversi precedenti dei Giudici di merito, che
la norma sopravvenuta:
- è inapplicabile ai fatti pregressi, essendosi già perfezionata la fattispecie
dannosa, e dunque ai giudizi in corso, in difetto di espressa previsione di
retroattività (artt. 11 preleggi).
- è inapplicabile ai giudizi in corso, trattandosi di norma di diritto avente "natura
sostanziale" e non processuale, e se applicata verrebbe a ledere il "legittimo
affidamento in ordine alla regola equitativa uniforme" posta a base del
risarcimento del danno biologico.
- è inapplicabile ai giudizi in corso, in quanto andrebbe ad incidere su "diritti
quesiti", tale dovendo essere considerato il credito risarcitorio di valore anche in
relazione al criterio di liquidazione del "quantum", in quanto già insorto nel
patrimonio del danneggiato al momento del fatto dannoso.
3.1 Il motivo è infondato, in relazione alle molteplici questioni prospettate e che
si passano di seguito in esame.
Al fine di una migliore comprensione della problematica occorre prendere le
mosse dalle disposizioni innovative dei plessi normativi che fanno capo al D.L.
13 settembre 2012, n. 158 conv. con modificazione nella L. 8 novembre 2012,
n. 189 recante "Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese
mediante un più alto livello di tutela della salute" (cd. legge Balduzzi) ed alla L.
8 marzo 2017, n. 24 recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e
della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli
esercenti le professioni sanitarie" (cd. legge Gelli-Bianco).
Venendo a provvedere ad un riassetto generale della materia della responsabilità
professionale medica il Legislatore è intervenuto ad introdurre una disciplina
volta ad individuare un punto di equilibrio idoneo a garantire l'attuazione dei
diversi interessi meritevoli di tutela coinvolti in tale materia e precipuamente
l'interesse dei danneggiati ad ottenere un integrale ristoro del danno alla salute
subito in relazione ad errori terapeutici imputabili al medico (art. 32 Cost.,
comma 1), e l'interesse della generalità degli utenti a ricevere - sia dalle
strutture pubbliche che da quelle private - un adeguato trattamento sanitario,
consentendo agli operatori del settore di continuare a praticare la professione -
della quale beneficia e non può fare a meno la intera collettività - in funzione del
perseguimento di elevati livelli di efficienza e risultati di cura delle persone, senza
che l'impegno che la stessa richiede possa essere limitato o influenzato da
considerazioni e comportamenti di "difesa preventiva" rispetto alla proliferazione
che, negli ultimi tempi, si è verificata delle iniziative giudiziarie di risarcimento
danni che, indipendentemente dalla fondatezza o meno, possono innescare - in
considerazione del volume delle richieste risarcitorie - fenomeni di ritrazione
dalla esecuzione di interventi terapeutici a maggior rischio di insuccesso,
incidendo in modo gravemente negativo sulle modalità di erogazione del servizio
sanitario.
A tal fine - per quanto interessa la presenta controversia - il D.L. n. 158 del
2012, con disposizione rimasta immodificata nella legge di conversione, ha
ritenuto di utilizzare anche nel settore sanitario il criterio di liquidazione del
danno "biologico" secondo il sistema tabellare già adottato nel settore dei sinistri
cagionati dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, e definito nel D.Lgs.
7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139 (Codice delle assicurazioni provate)
che, come espressamente previsto dall'art. 138, comma 2, risponde "ai criteri di
valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata
giurisprudenza di legittimità" secondo i principi esplicitati nel medesimo comma
2, lett. da a) ad f).
La norma della legge "Balduzzi" è stata nuovamente riprodotta nella L. 8 marzo
2017, n. 24, art. 7, comma 4, - Legge "Gelli Bianco" - con variazioni od
integrazioni lessicali che non comportano significative modifiche sul piano
prescrizionale ("4. Il danno (la legge Balduzzi specificava: "biologico")
conseguente all'attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o
privata, e dell'esercente la professione sanitaria (la legge Balduzzi si riferiva alla:
"attività dell'esercente della professione sanitaria") è risarcito sulla base delle
tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui
al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura
di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati
articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle
attività di cui al presente articolo").
La trasposizione del criterio tabellare previsto dal C.A.P. al settore della
responsabilità sanitaria trova fondamento nelle analoghe esigenze sottese alle
controversie risarcitorie che interessano le due materie, esigenze evidenziate
direttamente dal Legislatore nella stessa norma ("Al fine di garantire il diritto
delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale
effettivamente subito e di razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo
e sui consumatori...": art. 138, comma 1, CAP) e che debbono rinvenirsi
nell'estensione del regime assicurativo obbligatorio alle strutture aziendali
pubbliche e private ed ai professionisti sanitari, e nell'azione diretta attribuita al
paziente danneggiato nei confronti della impresa assicurativa: esigenze la cui
composizione in un equilibrato bilanciamento degli interessi in conflitto ha
superato il vaglio della verifica di costituzionalità (Corte Cost. sentenza 16
ottobre 2014 n. 235 - con riferimento all'art. 139 CAP -).
Tanto premesso possono ora esaminarsi i diversi rilievi di illegittimità formulati
dai ricorrenti in ordine alla immediata applicabilità anche ai rapporti in corso, ed
ai giudizi pendenti in materia di responsabilità professionale medica, delle norme
del D.L. n. 158 del 2012 conv. in L. n. 189 del 2012 che prevedono l'adozione
del criterio tabellare nella liquidazione del danno non patrimoniale.
A- Difetto di retroattività espressa.
3.2 La mancanza di una disposizione della legge che ne preveda la retroattività
non integra una critica pertinente alla inapplicabilità della norma ai giudizi
pendenti, laddove si osservi come, nel caso di specie, non si verta in tema di
successione di leggi che regolano difformemente il medesimo fenomeno, poichè
la eventuale discrasia applicativa "quoad effecta" corre non tra diverse
disposizioni di legge, bensì tra una (nuova) disposizione normativa ed una prassi
giurisprudenziale finalizzata all'esercizio uniforme della discrezionalità nel
giudizio di equità (come tale priva, ipso facto, di forza di legge).
Non appare pertanto dirimente il precedente di questa Corte Sez. 3, Sentenza
n. 11048 del 13/05/2009, richiamato dai ricorrenti, secondo cui il D.M. Salute in
data 3 luglio 2003 ("Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica
compresa tra 1 e 9 punti di invalidità") emanato in attuazione alla L. 5 marzo
2001, n. 57, art. 5, comma 5, in difetto di previsione legislativa di retroattività,
non poteva trovare applicazione ai sinistri verificatisi anteriormente alla sua
pubblicazione in GU in quanto introduceva "un regime speciale deroga al regime
ordinario codificato dall'art. 2056 c.c.".
La norma sopravvenuta del D.L. n. 158 del 2012 non disciplina, infatti, la
fattispecie costituiva del diritto sostanziale, ma definisce - nella materia della
responsabilità sanitaria - l'ambito delle modalità di esercizio del potere di
liquidazione equitativa del danno attribuito al Giudice dagli artt. 1226 e 2056
c.c., ed è dunque direttamente applicabile nei limiti in cui tale potere sia ancora
esercitabile nel corso del processo che non sia ancora definito. Al riguardo non
appare corretta la lettura della sentenza in data 16 ottobre 2014 n. 235 della
Corte costituzionale, effettuata dai ricorrenti, laddove pronunciando sulla
questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 Codice Assicurazioni Private -
ha rilevato (in motivazione paragr. 3.1), sia pure ai soli fini di escludere la
necessità di una restituzione degli atti al Giudice a quo, che le modifiche -
costituenti jus superveniens - introdotte al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, predetto
art., al comma 2 ed al comma 3 quater dall'art. 32 conv. con mod. in L. 24 marzo
2012, n. 27 (che vengono a condizionare il risarcimento del danno biologico
permanente delle lesioni di lieve entità, all'"accertamento clinico-strumentale
obiettivo" ed il risarcimento del danno biologico temporaneo al riscontro medicolegale
visivo o strumentale della lesione), "in quanto non attinenti alla
consistenza del diritto al risarcimento delle lesioni in questione, bensì solo al
momento successivo del suo accertamento in concreto, si applicano,
conseguentemente, ai giudizi in corso (ancorchè relativi a sinistri verificatasi in
data antecedente alla loro entrata in vigore)", dando in tal modo riscontro alla
consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui il principio
della irretroattività della legge (art. 11 preleggi) comporta che: a) la legge nuova
non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua
entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo,
si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere
efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso; b) la legge
nuova è, invece applicabile ai fatti, agli "status" e alle situazioni esistenti o
sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un
fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge,
debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente
dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che,
attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto
generatore (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1115 del 04/05/1966; id. Sez.
U, Sentenza n. 2926 del 12/12/1967; id. Sez. L, Sentenza n. 2433 del
03/03/2000; id. Sez. 1, Sentenza n. 16620 del 03/07/2013; id. Sez. 3, Sentenza
n. 16039 del 02/08/2016).
La pronuncia della Corte costituzionale n. 235/2014, per un verso, viene a
riconoscere che la controversia in ordine al diritto al risarcimento del danno
implica la esistenza di un rapporto pendente; per altro verso ritiene esterne
all'area della "consistenza del diritto" (intangibile dalla legge successiva), le
modalità tecniche di liquidazione del danno indicate nella norma sopravvenuta -
modificativa dell'art. 139 CAP - pur interessando le stesse una "fase anteriore"
alla quantificazione del danno, qual è quella dell'accertamento della stessa
esistenza ("an") della conseguenza dannosa risarcibile.
3.3 Tanto premesso, si osserva che la fattispecie dell'illecito civile - per quanto
concerne la individuazione e la verifica giudiziale dell'evento lesivo produttivo
del danno da cui insorge la responsabilità per l'obbligazione risarcitoria - non
viene intaccata dalla norma sopravvenuta (legge cd. Balduzzi), che non pone
limiti alla responsabilità civile e neppure viene a negare alla vittima - ovvero
anche soltanto a limitare ingiustificatamente e sproporzionatamente - il diritto
di credito al risarcimento del danno, ma interviene a definire, tra i molteplici
criteri utilizzabili discrezionalmente dal Giudice per procedere alla "aestimatio"
del danno - qualora non possa trovare attuazione il risarcimento in forma
specifica -, quello ritenuto più idoneo a realizzare quel bilanciamento -
perseguito dal Legislatore - tra plurimi interessi di rilevanza costituzionale
(l'interesse del danneggiato ad ottenere il ristoro del danno patito; l'interesse
generale e sociale al perseguimento di fini solidaristici in relazione al
calmieramento dei premi della assicurazione obbligatoria estesa al settore
sanitario), rispondendo la norma sopravvenuta - almeno in parte - alla
medesima logica sottesa alla disciplina della liquidazione del danno biologico nel
settore dell'assicurazione obbligatoria della RCA (venendo in questione, nella
legge del 2012, anche la esigenza di non distogliere risorse indispensabili
all'espletamento del servizio, contrastando i riflessi negativi sulla organizzazione
ed erogazione del servizio sanitario pubblico, determinati dall'incremento
esponenziale degli impegni finanziari delle Aziende sanitarie preoccupate ad
immobilizzare sempre maggiori risorse per fare fronte alle possibili richieste
risarcitorie a decremento dei necessari investimenti strutturali).
Il D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, viene, dunque, ad indicare al Giudice
un criterio di liquidazione del danno che specifica - e non deroga - le norme del
codice civile attributive del potere equitativo integrativo ex artt. 1226 e 2056
c.c., non ponendo, pertanto, alcuna problematica di successione di leggi nel
tempo.
Il nuovo precetto normativo, introducendo un sistema liquidatorio, quello
tabellare, già invalso da tempo negli uffici giudiziari e ritenuto da questa Corte
di legittimità coerente con i principi cui deve informarsi la valutazione equitativa
del "danno biologico" compiuta dal Giudice (valutazione che, secondo la
interpretazione dei predetti artt. 1226 e 2056 c.c. fornita da questa Corte, deve
corrispondere alla duplice esigenza di garantire "non solo una adeguata
valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio
a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che
danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da
differenti Uffici giudiziari": Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del
07/06/2011), non viene ad incidere neppure su quegli elementi valutativi - grado
di invalidità, aspettativa di vita, progressione geometrica del valore punto in
relazione al grado di invalidità e riduzione proporzionale dell'incremento del
valore danno in relazione all'aumento della età - ritenuti determinanti ai fini
dell'accertamento della "entità" del danno biologico, lasciando intatto anche il
criterio di rivedibilità del "valore-punto" secondo periodiche rilevazioni statistiche
della casistica giudiziaria. Ed è appena il caso di osservare come tale criterio di
valutazione del "quantum" non individua un (ulteriore) elemento costitutivo della
fattispecie normativa della responsabilità civile, non integra cioè un fatto-storico
od un elemento normativo presupposti dell'affermazione della imputazione del
danno, ma rappresenta soltanto la espressione della misura monetaria della
perdita di validità biologica ritenuta più adeguata a garantire il ristoro
dell'effettivo danno patito, rispetto ad altri criteri affidati alla cd. discrezionalità
pura cui il Giudice avrebbe potuto ricorrere al momento di procedere alla
"aestimatio": coerentemente, infatti, questa Corte ha statuito come, in tema di
risarcimento danni, la circostanza che l'attore, nel domandare il ristoro del danno
patito, dopo aver quantificato nell'atto di citazione la propria pretesa, all'udienza
di precisazione delle conclusioni, domandi la condanna del convenuto al
pagamento di una somma maggiore, al fine di tenere conto dei "nuovi criteri
standard" di risarcimento (c.d. "tabelle") adottati dal tribunale al momento della
decisione ("nuovi" in quanto debbono essere mutati gli essenziali "parametri
indicatori" assunti a base della determinazione del valore-punto, e non in quanto
sia intervenuta una mera variazione quantitativa del valore-punto conseguente
ai rilevamenti statistici periodici), non costituisce mutamento inammissibile della
domanda, sempre che attraverso tale mutamento non si introducano nel giudizio
fatti nuovi o nuovi temi di indagine (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 17977
del 24/08/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011); ed ancora che,
ferma l'eventuale formazione del giudicato interno sul "quantum", quando,
all'esito del giudizio di primo grado, l'ammontare del danno alla persona sia stato
determinato secondo il sistema "tabellare", la sopravvenuta variazione - nelle
more del giudizio di appello - delle tabelle utilizzate, legittima il soggetto
danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un
maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano
l'applicazione di differenti criteri di liquidazione, atteso che, in questi casi, la
liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non
corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall'art. 1226 c.c. (cfr. Corte
cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n.
22265 del 13/09/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 24155 del 04/10/2018).
B- Perfezionamento della fattispecie di diritto sostanziale (diritto quesito).
3.4 Assumono i ricorrenti che il principio di irretroattività delle norme di legge
ex art. 11 preleggi impedirebbe l'applicazione della sopravvenuta norma
"tabellare" della legge cd. Balduzzi, in quanto in tal modo si andrebbe ad incidere
sulla fattispecie dell'illecito civile già perfezionatasi al momento della condotta
lesiva e della conseguente insorgenza della responsabilità civile e del correlativo
dritto di credito.
3.5 L'argomento non appare condivisibile, in quanto il criterio di liquidazione
equitativa del danno ex artt. 1226 e 2056 c.c. (che soccorre quando
l'ammontare del danno non è predeterminato convenzionalmente o legalmente,
ed appare ontologicamente diverso dal diritto alla liquidazione del danno) non è
elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria scrutinata nella dimensione
sostanziale dell'illecito civile.
Il diritto al risarcimento del danno ha per oggetto un credito di valore che
richiede di essere determinato nel suo ammontare attraverso l'attività di
liquidazione volta a trasporre in valuta - ossia in una espressione monetaria -
quello che viene stimato essere il valore non patrimoniale del bene-salute leso.
Ne segue che il valore del credito, che entra a far parte del patrimonio del
danneggiato, non è predeterminato nel suo ammontare, occorrendo
necessariamente fare ricorso al potere di equità integrativa del Giudice. E' ben
vero, come è stato già rilevato, che la esigenza di uniformità di trattamento di
situazioni analoghe e di certezza del diritto viene assicurato tramite l'utilizzo di
una medesima Tabella di liquidazione del danno biologico che deve avere
applicazione diffusa sull'intero territorio nazionale. Ma a tale principio non segue
anche la definitiva immutabilità di tale Tabella e la cristallizzazione dei valori
tabellari al momento della introduzione della domanda, essendo, invece, tenuto
il Giudice di merito a fare applicazione dei valori delle Tabelle di più recente
edizione, in quanto maggiormente idonee ad esprimere l'adeguatezza della
conversione patrimoniale del danno da invalidità psicofisica subito dalla persona.
3.6 Al proposito occorre considerare che altro è il perfezionamento della
fattispecie sostanziale dell'illecito civile (situazione giuridica protetta - condotta
lesiva della stessa - esito dannoso) che si esaurisce con la produzione dell'effetto
giuridico che fa insorgere in capo all'autore dell'illecito la responsabilità per la
obbligazione risarcitoria, altro è invece l'accertamento dell'equivalente
monetario della conseguenza dannosa che ha esaurito il perfezionamento della
fattispecie illecita.
Non pare dubbio che il principio di irretroattività della legge impedisce
all'intervento del Legislatore di andare ad incidere su effetti giuridici già
interamente prodottisi, in quanto dalla legge ricollegati a determinati fatti
assunti ad elementi della fattispecie- che, una volta venuti ad esistenza nella
realtà, non possono più essere negati o modificati: con la conseguenza che
violerebbe il limite predetto una norma sopravvenuta che: 1-modifichi la
struttura della fattispecie normativa ex artt. 1218 o 2043 c.c., 2-introduca
limitazioni della responsabilità civile sul piano oggettivo o soggettivo, 3-escluda
o comprima la estensione delle "conseguenze-dannose" risarcibili, ad esempio
non riconoscendo alcune "voci" o componenti del danno non patrimoniale (è
notissima la vicenda d'Oltrealpe che, in seguito alle decisioni della CEDU, in data
6.10.2005, n. 1513/2003 Draon c/ Francia e n. 1810/2003 Maurice c/ Francia,
ha portato alla sentenza 11.6.2010 n. 2 del Conseil costitutionnel dichiarativa
della incostituzionalità della L. 11 febbraio 2005, n. 102, art. 2, paragr. II,
comma 2, che aveva disposto la applicazione retroattiva delle norme della L. 4
marzo 2002, n. 303 volte a limitare il risarcimento del danno da malpractice
medica al solo "danno morale", con esclusione del danno patrimoniale futuro
relativo alle spese necessarie per l'assistenza del neonato invalido), od
eliminando il mancato guadagno come voce di danno patrimoniale, in
deroga all'art. 1223 c.c., od ancora precludendo la tutela reale della
reintegrazione in forma specifica, limitandola soltanto a quella indennitaria - per
equivalente (cfr. per quest'ultima ipotesi Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 301 del
09/01/2014: "In materia di licenziamenti individuali, sebbene la L. 28 giugno
2012, n. 92, art. 1, comma 67, preveda l'applicabilità delle disposizioni
processuali da essa introdotte solo alle controversie instaurate dopo la sua
entrata in vigore, in forza del principio generale di irretroattività della legge, di
cui all'art. 11 preleggi, e in assenza, nella L. n. 92 del 2012, di una disposizione
di deroga espressa a detta norma, le modifiche apportate alla disciplina di cui
alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 con previsione di una tutela indennitaria
in luogo di quella reintegratoria, non possono essere applicate neppure ai
rapporti giuridici sorti anteriormente alla nuova disciplina e ancora in corso,
qualora - con l'applicazione della normativa sopravvenuta - vengano a privarsi
di efficacia le conseguenze attuali o future del licenziamento già ritenuto
illegittimo dal giudice di merito").
Gli indicati limiti alla efficacia retroattiva della legge non ricorrono, invece, nella
diversa ipotesi in cui la norma generale ed astratta successiva venga ad incidere
su di un rapporto giuridico ancora in corso di esecuzione, o, come nella specie,
ancora controverso, regolando o definendo le modalità di apprezzamento del
valore monetario equivalente di un bene perduto che deve essere risarcito,
ovvero conformando i limiti entro i quali le prestazioni non ancora eseguite
possono considerarsi leciti.
Non sembra corretto, pertanto, il richiamo, a sostegno della tesi contraria, del
precedente di questa Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 5013 del 28/02/2017,
non essendo in alcun modo rinvenibile dalla lettura della motivazione
l'affermazione per cui il criterio di liquidazione equitativa del danno biologico
deve "cristallizzarsi" nei valori indicati nelle Tabelle vigenti al momento in cui si
è perfezionata la fattispecie dell'illecito civile. La sentenza afferma, invece, il
diverso principio per cui è al momento della "taxatio", e cioè della liquidazione
omnicomprensiva della somma capitale e degli accessori per interessi e
rivalutazione, che occorre riferirsi per verificare se lo spontaneo pagamento
effettuato dal debitore abbia prodotto l'effetto estintivo del debito risarcitorio (in
quanto corrispondente ai criteri liquidatori vigenti in quel momento), o se
l'accordo transattivo sul "quantum" risarcibile debba ritenersi incontestabile ove
non inficiato da errore sui criteri di liquidazione, o ancora se possa ritenersi
corretta la liquidazione giudiziale del danno biologico, in quanto effettuata alla
stregua delle Tabelle più recenti ("...gli arresti di questa Corte.... in cui si afferma
l'obbligo dell'applicazione nella quantificazione del danno da perdita del rapporto
parentale, dei parametri tabellari vigenti al momento della decisione.... non
rappresentano altro che la risposta giurisprudenziale al problema nascente
dall'ontologico iato tra i due momenti sopra illustrati (i.e. l'epoca di verificazione
dell'evento lesivo e quella della liquidazione del danno), con l'affermazione del
principio che la stima e la liquidazione del danno vanno compiute secondo i criteri
praticati al momento della liquidazione": Corte cass. n. 5013/2017 cit., in
motivazione, pag. 14).
C- Natura di diritto sostanziale e non processuale della norma.
3.7 L'argomento critico che si rifà alla distinzione tra "norme di diritto
processuale", di immediata applicazione, e "norme di diritto sostanziale", che
possono applicarsi a fatti pregressi soltanto se dichiarate espressamente
retroattive, non assume rilievo decisivo, bene potendo anche le norme di diritto
sostanziale trovare immediata applicazione ai rapporti in corso o non ancora
esauriti, trovando limite la retroattività nella impossibilità di modificare "ex post"
i fatti genetici (e cioè gli elementi strutturali costitutivi) del rapporto che hanno
ormai esaurito i loro effetti con il perfezionamento della fattispecie normativa;
diversamente, gli aspetti funzionali connessi alla esecuzione del rapporto bene
possono essere regolati diversamente ove sopravvenga una nuova disciplina
normativa dei fatti ed atti che debbono ancora verificarsi od essere compiuti.
D- Legittimo affidamento nei criteri di liquidazione.
3.8 Sostengono i ricorrenti che l'applicazione dello "jus superveniens" alla
controversia pendente, da un lato, violando il principio di irretroattività della
legge (art. 11 preleggi), si porrebbe in contrasto con il fondamento dello Stato
di diritto volto ad assicurare la certezza del diritto; dall'altro, verrebbe a
determinare un ingiustificato differente trattamento di situazioni analoghe in
relazione esclusivamente alla diversa durata dei processi.
3.9 Sono noti i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale: "Al
legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive, sia
innovative che di interpretazione autentica, purchè tale scelta normativa sia
giustificata sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento
tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente
tutelati, potenzialmente lesi dall'efficacia a ritroso della norma adottata. Tra tali
valori - costituenti limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi - sono
ricompresi il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di
introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell'affidamento
legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di
diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; e il rispetto delle
funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario" (Corte Cost.,
sentenza, in data 12 aprile 2017, n. 73). La legittimità costituzionale della norma
con efficacia retroattiva, fermo il limite del giudicato (Corte Cost., sentenza, in
data 1 luglio 2015, n. 127) e delle situazioni giuridiche consolidate (diritti
quesiti), può incidere sui rapporti in corso, sacrificando anche aspettative
legittime, laddove tale sacrificio sia il risultato del bilanciamento operato con altri
interessi di rilevanza costituzionale ritenuti prevalenti (Corte Cost. ordinanza, in
data 22 dicembre 2015, n. 274), e sempre che l'intervento legislativo non sia
diretto specificamente a determinare l'esito di una particolare controversia
giudiziaria in corso in quanto in tal caso si violerebbero i principi relativi ai
rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei
diritti e degli interessi legittimi, determinando lo sbilanciamento tra le due
posizioni in gioco (Corte Cost. sentenza, 30 gennaio 2018, n. 12).
3.10 E' nota altresì la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha affermato
come al Legislatore non sia precluso emanare norme retroattive, purchè la
retroattività trovi adeguata giustificazione in "imperative ragioni di interesse
generale" (non riducibili, tuttavia, al mero interesse finanziario dello Stato), e
sempre che, indipendentemente dal criterio di ragionevolezza della norma
retroattiva in quanto funzionale alla risoluzione di contrasti interpretativi,
l'intervento legislativo possa ritenersi compatibile con l'art. 6, paragr. 1, CEDU
(diritto alla difesa ed al processo equo) e con l'art. 1, n. 1, del Protocollo
addizionale CEDU (per cui l'interferenza del Legislatore sulla "res" controversa è
assimilato ad illegittima ingerenza nella situazione proprietaria, intesa in senso
lato, con riferimento al bene controverso), in relazione al duplice parametro della
"prevedibilità" della iniziativa legislativa e dell'"abuso del processo" (cfr. Corte
EDU, sez. II, ric. n. 58630/11, sentenza Ljaskaj c. Croazia 20 dicembre 2016):
incorrendo, la legge retroattiva, nella violazione delle norme convenzionali
laddove sia ravvisabile, nel comportamento delle autorità pubbliche, l'insorgenza
di un affidamento sul bene disputato che valga a consolidare l'aspettativa di un
determinato esito del giudizio in corso e che renda quindi "imprevedibile" (e per
ciò "abusivo") l'intervento legislativo modificativo, con carattere retroattivo,
inteso a volgere a favore dello Stato parte del processo - l'esito della lite,
realizzando in tal modo una indebita ingerenza nella gestione del contenzioso
giudiziario (cfr. Corte EDU ric. 24846/94, 34165/96, 34173/96, causa Zielinski,
Pradal, Gonzalez e altri v. France, sentenza, 28 ottobre 1999; Corte EDU, Grande
camera, ric. 36813/97, causa Scordino c/ Italia, sentenza, 29 marzo 2006; Corte
EDU ric. 43549/08, 6107/09, 5087/09, causa Agrati ed altri c/ Italia, sentenza,
7 giugno 2011).
3.11 Orbene la categoria della retroattività - così come indagata nella
giurisprudenza nazionale e sovranazionale - non viene legittimamente evocata
nel caso di specie, in quanto la norma in esame, volta ad individuare il "valorepunto"
tabellare, non modifica - come si è detto - la disciplina normativa della
fattispecie dell'illecito civile, modificandone gli elementi costitutivi, ma opera
invece all'interno della stessa, modellando il potere giudiziale di liquidazione
equitativa del danno non patrimoniale.
Il fenomeno descritto non è pertanto assimilabile a quello della successione delle
leggi con effetti abrogativi, atteso che non vi era alcuna norma preesistente volta
a definire il "valore-punto" in modo differente dalla norma successiva. Non
possono ritenersi tali, infatti, le disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c. in quanto
dirette esclusivamente ad attribuire al Giudice il potere di integrazione equitativa
ed anch'esse estranee alla fattispecie dell'illecito civile, da rinvenire
esclusivamente nelle norme che dispongono - nel caso che, dall'inadempimento
contrattuale o dalla condotta illecita extracontrattuale, derivino conseguenze
pregiudizievoli - l'obbligo di risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale
(artt. 1218, 2043 e 2059 c.c.).
Nè la norma sopravvenuta della legge Balduzzi può essere assimilata al
fenomeno cd. del "prospettive overruling", che attiene esclusivamente al piano
dell'attività interpretativa delle norme di diritto, in ordine alla quale non trova,
pertanto, applicazione il principio di irretroattività della legge, al quale rimane
estraneo, tanto il mutamento di giurisprudenza, quanto la risoluzione di contrasti
giurisprudenziali, ancorchè conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte
di cassazione (e neppure in presenza di una interpretazione consolidata della
Corte di legittimità, poichè è jus receptum - Corte cass., S.U., n. 15144/2011;
id. n. 174/2015; id., n. 27775/2018; id., n. 4135/2019) che il valore e la forza
del "diritto vivente", quand'anche proveniente dal Giudice di vertice del plesso
giurisdizionale, è meramente dichiarativo e non si colloca sullo stesso piano della
cogenza che esprime la fonte legale, alla quale il Giudice è soggetto ex art. 101
Cost.), atteso che "un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole,
non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il
difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad
occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i
fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum. L'orientamento espresso
dalla decisione delle Sezioni unite "aspira" indubbiamente ad acquisire stabilità
e generale seguito: ma come lo stesso rimettente riconosce - si tratta di
connotati solo "tendenziali", in quanto basati su una efficacia non cogente, ma
di tipo essenzialmente "persuasivo. Con la conseguenza che, a differenza della
legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova
decisione dell'organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di
essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica,
sia pure con l'onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite
possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni
singole, come in più occasioni è in fatto accaduto" (cfr. Corte costituzionale,
sentenza, in data 12 ottobre 2012, n. 230). Ed è proprio l'assenza di vincolatività
cogente della interpretazione che impedisce che il giudicato ex art. 2909 c.c.,
formatosi su una controversia risolta in base alla precedente interpretazione di
una norma, possa spiegare efficacia vincolante in una successiva controversia in
cui viene in questione la medesima norma: l'esercizio della funzione
giurisdizionale, in un ordinamento processuale nel quale non opera lo "stare
decisis", non può mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da un altro
Giudice (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 23723 del 21/10/2013; id. Sez. 6
- 5, Ordinanza n. 174 del 09/01/2015), con la rilevante conseguenza che la
pretesa immutabilità della interpretazione giurisprudenziale non può integrare il
fondamento esclusivo di un interesse consolidato, e per ciò tutelabile, al legittimo
affidamento sulla risoluzione della controversia giudiziale (cfr. Corte cass. n.
174/2015 cit., che richiama Corte EDU, ric. 20153/04, causa Unedic c. Francia,
sentenza, 18 dicembre 2008, e Corte EDU causa Nejdet Sahin e Perihan Sahin,
sentenza, 20 ottobre 2011), pur dovendosi precisare per completezza che, "in
un sistema che valorizza l'affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l'adozione
di una soluzione difforme dai precedenti non può essere nè gratuita, nè
immotivata, nè immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa
consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più
facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione" (cfr. Corte cass. Sez. U
-, Sentenza n. 11747 del 03/05/2019).
Non si ha, peraltro, nel caso dello jus superveniens della legge Balduzzi, neppure
la sostituzione del precetto normativo con un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, atteso che non vengono in questione le categorie giuridiche
individuatrici delle "voci" e dei "tipi" di danno risarcibile, nè tanto meno i principi
di diritto concernenti la funzione reintegrativa del risarcimento del danno, od
ancora il fondamento egualitario della modalità di ristoro del danno alla salute,
che anzi vengono ad essere confermati proprio dalla disciplina legislativa
sopravvenuta che, tramite il richiamo all'art. 138 CAD, viene a riconoscere la
correttezza ed adeguatezza del criterio tabellare in quanto portato della
precedente elaborazione giurisprudenziale in materia (in tal senso, infatti, deve
essere correttamente inteso l'arresto di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408
del 07/06/2011, in quanto rivolto a garantire la uniformità di trattamento
sull'intero territorio nazionale, e non anche a stabilire o addirittura a cristallizzare
il valore del "punto base" calcolato nelle Tabelle milanesi, sempre suscettibile di
modifica nel tempo in relazione alla variazione - oltre che dei fenomeni di
svalutazione della moneta - dei dati statistici rilevati dalla media delle
liquidazioni operate dagli Uffici giudiziari o di più aggiornati criteri di rilevazione
degli indici di determinazione di detto valore: il riferimento alle Tabelle milanesi
trovava giustificazione, non in una verifica selettiva peraltro impossibile avuto
riguardo ai limiti del sindacato di legittimità - dei valori più adeguati tra tutte le
Tabelle di liquidazione del danno biologico in uso, ma nella maggiore diffusione
pratica che le stesse avevano avuto tra gli Uffici giudiziari rispetto ad altre
Tabelle pure in uso).
3.12 Nella specie si viene, invece, a riscontrare il diverso fenomeno in cui il
diritto positivo viene a disciplinare un settore - quello della quantificazione del
danno non patrimoniale nelle controversie per responsabilità sanitariaprecedentemente
lasciato al potere giudiziale integrativo, venendo di fatto a
ridurre l'ambito della discrezionalità del Giudice, definito dagli artt. 1226 e 2056
c.c., predeterminando -in via generale ed astratta - il "valore del punto base" da
assumere per la liquidazione del danno biologico relativo alle cd.
"micropermanenti" (non essendo stata data ancora attuazione all'art. 138,
comma 1, CAD che prevede la redazione di una apposita Tabella unica nazionale
per le lesioni determinati invalidità superiori al 9%), sostituendosi la norma di
legge alle prassi di calcolo in uso presso gli Uffici giudiziari, dovendosi al
proposito precisare che - allo stato - la norma dell'art. 139 CAD trova piena
applicazione, essendo state elaborati i coefficienti moltiplicatori corrispondenti ai
singoli incrementi del grado di invalidità (da 1% a 9%), con variazione del
valore-punto base (cfr., da ultimo, DM Sviluppo Economico, in data 9.1.2019),
così come trova piena attuazione il criterio di liquidazione del danno biologico
temporaneo, essendo stato determinato (da ultimo con il decreto ministeriale
indicato) l'importo relativo ad ogni giorno di inabilità assoluta (modulabile in caso
di inabilità parziale in relazione alla effettiva riduzione percentuale della capacità
biologica: art. 138, comma 2, lett. f); art. 139, comma 1, lett. b) CAD). Trovano,
altresì, immediata applicazione anche i criteri di liquidazione intesi a
"personalizzare" il valore dell'ammontare del danno da invalidità permanente,
secondo gli aumenti individuati per le micropermanenti (fino al - 20%,
comprensivo, per espresso dictum del giudice delle leggi, anche della - voce di
danno morale: art. 139, comma 3, CAD) e per le lesioni di maggiore gravità
(personalizzazione del danno dinamico relazionale fino al 30%: art. 138, comma
3, CAD).
Orbene, tale intervento legislativo, proprio perchè non va ad incidere su alcuno
degli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non
intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite nel patrimonio del
soggetto, e dunque è insuscettibile di ledere l'affidamento riposto dai soggetti di
diritto nella stabilità dei rapporti già insorti ed esauriti e nella prevedibilità degli
effetti giuridici che la legge preesistente ricollega a determinati fatti o condotte.
La norma sopravvenuta si rivolge esclusivamente al Giudice delimitandone
l'ambito di discrezionalità nella liquidazione del danno con criterio equitativo e
indicando quale più adeguato il criterio tabellare, onde porre al riparo l'esercizio
del potere giurisdizionale - conformatosi al criterio legale - da eventuali critiche
in diritto per violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., volte a contestare la
arbitrarietà, illogicità od assenza di motivazione della quantificazione del danno
non patrimoniale.
3.13 Deve, dunque, concludersi affermando che le norme legislative del 2012
(immodificate, per quanto concerne i criteri di liquidazione del danno non
patrimoniale, dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco), trovano
diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione
del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale con il solo limite
della formazione del giudicato interno sul "quantum" -, non essendo ostativa la
circostanza che la condotta illecita sia stata commessa ed il danno si sia prodotto
anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l'azione risarcitoria sia
stata promossa prima dell'intervento legislativo, nè potendo configurarsi una
ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi
pendenti, tenuto conto che proprio e soltanto la definizione del giudizio - e la
formazione del giudicato - preclude una modifica retroattiva della regola
giudiziale che disciplina il rapporto, a garanzia della autonomia della funzione
giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere
giudiziario.
3.14 In relazione alle questioni esaminate deve, pertanto, enunciarsi il seguente
principio di diritto:
"Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi
della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il
risarcimento di conseguenze - dannose già realizzatisi), il D.L. 13 settembre
2012, n. 138, art. 3, comma 3, convertito, con modificazioni, nella L. 8
novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l'applicazione, nelle
controversie concernenti la responsabilità - contrattuale od extracontrattuale -
per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del
danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139
del CAD - criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche
dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco -), trova diretta
applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in
pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non
patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul
"quantum".
Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa,
ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o
che l'azione risarcitoria sia stata promossa prima dell'entrata in vigore del
predetto decreto legge; nè può configurarsi una ingiustificata disparità di
trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio
e soltanto la definizione del giudizio - e la formazione del giudicato - preclude
una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della
funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere
giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in
ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in
quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al
Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della
fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha,
infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla
condotta illecita, nè ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al
risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie".
p..4 In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Il perdurante contrasto nelle soluzioni adottate dalla giurisprudenza di merito in
ordine alla questione esaminata, e la assoluta novità delle questioni trattate, che
hanno necessitato dell'intervento nomofilattico di questa Corte, costituiscono
ragioni idonee a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito
dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma,
per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o
mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle
generalità e degli altri dati identificativi di T.R., To.El. ed TA.EL. riportati nella
sentenza.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 04-07-2019) 11-11-2019, n. 28991
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCODITTI Enrico - rel. Consigliere -
Dott. VALLE Cristiano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16754-2017 proposto da:
G.E., elettivamente domiciliata in PIAZZA COLA DI RIENZO 68, presso lo
dell'avvocato ANDREA ZANELLO, rappresentata e difesa dall'avvocato ANDREA
NOCCESI;
- ricorrente -
contro
AZIENDA UNITA' SANITARIA LOCALE TOSCANA CENTRO già AZIENDA USL N.
(OMISSIS), in persona del Commissario e Legale Rappresentante pro tempore
Dott. GO.EM., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE N. 22,
presso lo studio dell'avvocato ALESSIO LOTTI, rappresentata e difesa
dall'avvocato PIETRO PECORINI;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 758/2017 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata
il 04/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal
Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI
CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato ANDREA NOCCESI.
Svolgimento del processo
1. G.E. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze l'Azienda Unità
Sanitaria Locale 10 di Firenze chiedendo il risarcimento del danno, sia iure
proprio che ereditario, per la morte della propria madre B.M.L. deducendo che
la causa del decesso era imputabile a colpa medica. Il Tribunale adito rigettò la
domanda. Avverso detta sentenza propose appello la G.. Con sentenza di data
4 aprile 2017 la Corte d'appello di Firenze, previa CTU, rigettò l'appello.
2. Osservò la corte territoriale, premesso che l'onere della prova circa il nesso
causale era a carico dell'attrice, che il CTU, dopo avere escluso che la causa del
decesso fosse stata la pancreatite (non di tipo emorragico), aveva evidenziato
per un verso che una TAC all'addome, che pure sarebbe stato opportuno
effettuare, non avrebbe fornito elementi decisivi ai fini dell'opzione di un nuovo
trattamento chirurgico, per l'altro che, benchè l'ipotesi di un terzo intervento
chirurgico fosse stata un'ipotesi da considerare, altrettanto valida era stata la
scelta attendista dei sanitari, in quanto l'eventuale terzo trattamento chirurgico
avrebbe realizzato chances di sopravvivenza quantificabili in misura di poco
superiori al 40%, ma vi sarebbe stato un elevatissimo rischio di mortalità
perioperatoria. Aggiunse che il CTU medesimo aveva concluso che, pur in
presenza di qualche condotta ipoteticamente colposa dei sanitari, era incerta la
correlazione causale fra tale condotta ed il decesso, di cui non era stato possibile
identificare con precisione la causa, attribuibile genericamente ad uno stato di
shock ed insufficienza multiorgano. Osservò quindi che non risultava raggiunta
la soglia del "più probabile che non" quanto alla correlazione causale fra la morte
e la condotta dei sanitari e che irrilevante era l'ulteriore affermazione del CTU
circa l'obiettiva incertezza sulle ragioni effettive della morte, una volta che era
stata esclusa la riconducibilità dell'evento ai sanitari.
3. Ha proposto ricorso per cassazione G.E. sulla base di tre motivi e resiste con
controricorso la parte intimata. Successivamente alla fissazione del ricorso in
camera di consiglio ai sensi dell'art. 380 bis.1 c.p.c. è stata disposta la
trattazione in pubblica udienza. E' stata presentata memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 1218 e 2697
c.c.. Osserva la ricorrente che l'incertezza in ordine al nesso causale si ripercuote
negativamente sulla struttura sanitaria, su cui incombe il relativo onere
probatorio, con conseguente necessità di valutare la colpa dei sanitari, e che il
giudice di appello è pervenuto al convincimento dell'assenza del nesso causale
argomentando dalla percentuale di possibilità di sopravvivenza che la paziente
avrebbe avuto in caso di effettuazione dell'intervento chirurgico, laddove invece
avrebbe dovuto chiedersi quante possibilità di sopravvivenza avrebbe avuto la
paziente senza essere sottoposta ad intervento e solo qualora le stesse fossero
state superiori al 42% avrebbe dovuto ritenere lecita la condotta attendista (ma
priva di approfondimenti diagnostici) dei sanitari.
1.1. Il motivo è infondato. La questione posta dal motivo di censura attiene al
rapporto fra responsabilità contrattuale nel campo medico e causalità materiale.
Negare che incomba sul paziente creditore di provare l'esistenza del nesso di
causalità fra l'inadempimento ed il pregiudizio alla salute, come si assume nel
motivo, significa espungere dalla fattispecie costitutiva del diritto l'elemento
della causalità materiale. Di contro va osservato che la causalità relativa tanto
all'evento pregiudizievole, quanto al danno conseguenziale, è comune ad ogni
fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, quale portato
della distinzione fra causalità ed imputazione.
La causalità attiene al collegamento naturalistico fra fatti accertato sulla base
delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali. Essa
attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla
prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e fra quest'ultimo e le
conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale,
integrato, se del caso, da quelli dello scopo della norma violata e dell'aumento
del rischio tipico, previa analitica descrizione dell'evento (cfr. Cass. sez. U. 11
gennaio 2008, n. 576 pag. 13 e Cass. 11 luglio 2017, n. 17084), mentre su un
piano diverso si colloca la dimensione soggettiva dell'imputazione. Quest'ultima
corrisponde all'effetto giuridico che la norma collega ad un determinato
comportamento sulla base di un criterio di valore, che è rappresentato
dall'inadempienza nella responsabilità contrattuale e dalla colpa o il dolo in
quell'aquiliana (salvo i casi di imputazione oggettiva dell'evento nell'illecito
aquiliano - artt. 2049, 2050, 2051 e 2053 c.c.).
Che la causalità materiale si iscriva a pieno titolo anche nella dimensione della
responsabilità contrattuale trova una testuale conferma nell'art. 1227 c.c.,
comma 1, che disciplina proprio il fenomeno della causalità materiale rispetto al
danno evento sotto il profilo del concorso del fatto colposo del creditore (Cass.
19 luglio 2018, n. 19218; 21 luglio 2011, n. 15991), mentre il comma 2 attiene,
come è noto, alle conseguenze pregiudizievoli del danno evento (c.d. causalità
giuridica). Ogni forma di responsabilità è dunque connotata dalla congiunzione
di causalità ed imputazione. Su questo tronco comune intervengono le
peculiarità della responsabilità contrattuale.
1.1.1. Il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa
della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un
rapporto obbligatorio. Il danno derivante dall'inadempimento dell'obbligazione
non richiede la qualifica dell'ingiustizia, che si rinviene nella responsabilità
extracontrattuale, perchè la rilevanza dell'interesse leso dall'inadempimento non
è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua
dell'ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all'art. 2043
c.c. (cfr. Cass. Sez. U. 22 luglio 1999, n. 500), ma alla corrispondenza
dell'interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (arg. ex art. 1174 c.c.). E'
la fonte contrattuale dell'obbligazione che conferisce rilevanza giuridica
all'interesse regolato.
Se la soddisfazione dell'interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto
dell'obbligazione vuol dire che la lesione dell'interesse, in cui si concretizza il
danno evento, è cagionata dall'inadempimento.
La causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall'inadempimento per la
differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile
dall'inadempimento, perchè quest'ultimo corrisponde alla lesione dell'interesse
tutelato dal contratto e dunque al danno evento. La causalità acquista qui
autonomia di valutazione solo quale causalità giuridica, e dunque quale
delimitazione del danno risarcibile attraverso l'identificazione del nesso
eziologico fra evento di danno e danno conseguenza (art. 1223
c.c.). L'assorbimento pratico della causalità materiale nell'inadempimento fa si
che tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (oltre
che della fonte del diritto di credito), perchè, come affermato da Cass. Sez. U.
30 ottobre 2001 n. 13533 del 2001, è onere del debitore provare l'adempimento
o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.),
mentre l'inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve
essere solo allegato dal creditore. Non c'è quindi un onere di specifica allegazione
(e tanto meno di prova) della causalità materiale perchè allegare
l'inadempimento significa allegare anche nesso di causalità e danno evento.
Tale forma del rapporto fra causalità materiale e responsabilità contrattuale
attiene tuttavia allo schema classico dell'obbligazione di dare o di fare contenuto
nel codice civile. Nel diverso territorio del facere professionale la causalità
materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della
riconducibilità dell'evento alla condotta secondo le regole generali sopra
richiamate. Sul punto valgono le seguenti considerazioni.
1.1.2. Se l'interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale
all'interesse primario del creditore, causalità ed imputazione per inadempimento
tornano a distinguersi anche sul piano funzionale (e non solo su quello
strutturale) perchè il danno evento consta non della lesione dell'interesse alla
cui soddisfazione è preposta l'obbligazione, ma della lesione dell'interesse
presupposto a quello contrattualmente regolato. La distinzione fra interesse
strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione, ed
interesse primario emerge nel campo delle obbligazioni di diligenza
professionale. La prestazione oggetto dell'obbligazione non è la guarigione dalla
malattia o la vittoria della causa, ma il perseguimento delle leges artis nella cura
dell'interesse del creditore. Il danno evento in termini di aggravamento della
situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l'interesse
affidato all'adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto
corrispondente al diritto alla salute.
Benchè guarigione dalla malattia o vittoria della causa non siano dedotte in
obbligazione, esse non costituiscono un motivo soggettivo che resti estrinseco
rispetto al contratto d'opera professionale, ma sono tipicamente connesse
all'interesse regolato perchè la possibilità del loro soddisfacimento è condizionata
dai mutamenti intermedi nello stato di fatto determinati dalla prestazione
professionale. L'interesse corrispondente alla prestazione oggetto di
obbligazione ha natura strumentale rispetto ad un interesse primario o
presupposto, il quale non ricade nel motivo irrilevante dal punto di vista
contrattuale perchè non attiene alla soddisfazione del contingente ed occasionale
bisogno soggettivo ma è connesso all'interesse regolato già sul piano della
programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della
causa del contratto. Non c'è obbligazione di diligenza professionale del medico o
dell'avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione
dalla malattia o della vittoria della causa.
Dato che il danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda,
come si è detto, non l'interesse corrispondente alla prestazione ma l'interesse
presupposto, la causalità materiale non è praticamente assorbita
dall'inadempimento. Quest'ultimo coincide con la lesione dell'interesse
strumentale, ma non significa necessariamente lesione dell'interesse
presupposto, e dunque allegare l'inadempimento non significa allegare anche il
danno evento il quale, per riguardare un interesse ulteriore rispetto a quello
perseguito dalla prestazione, non è necessariamente collegabile al mancato
rispetto delle leges artis ma potrebbe essere riconducibile ad una causa diversa
dall'inadempimento.
La violazione delle regole della diligenza professionale non ha dunque
un'intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento. Aggravamento
della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie non sono immanenti
alla violazione delle leges artis e potrebbero avere una diversa eziologia. Si
riespande così, anche sul piano funzionale, la distinzione fra causalità ed
imputazione soggettiva sopra delineata. Persiste, nonostante l'inadempienza, la
questione pratica del nesso eziologico fra il danno evento (lesione dell'interesse
primario) e la condotta materiale suscettibile di qualificazione in termini di
inadempimento. Il creditore ha l'onere di allegare la connessione puramente
naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della
situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico
e, posto che il danno evento non è immanente all'inadempimento, ha anche
l'onere di provare quella connessione, e lo deve fare sul piano meramente
naturalistico sia perchè la qualifica di inadempienza deve essere da lui solo
allegata, ma non provata (appartenendo gli oneri probatori sul punto al
debitore), sia perchè si tratta del solo profilo della causalità materiale, il quale è
indifferente alla qualifica in termini di valore rappresentata dall'inadempimento
dell'obbligazione ed attiene esclusivamente al fatto materiale che soggiace a
quella qualifica. La prova della causalità materiale da parte del creditore può
naturalmente essere raggiunta anche mediante presunzione.
Argomentare diversamente, e cioè sostenere che anche nell'inadempimento
dell'obbligazione di diligenza professionale non emerga un problema pratico di
causalità materiale e danno evento, vorrebbe dire implicitamente riconoscere
che oggetto della prestazione è lo stato di salute in termini di guarigione o
impedimento della sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie, ma
ciò non è perchè il parametro per valutare se c'è stato inadempimento
dell'obbligazione professionale è fornito dall'art. 1176 c.c., comma 2, il quale
determina il contenuto della prestazione in termini di comportamento idoneo per
il conseguimento del risultato utile. Per riprendere le parole di un'autorevole
dottrina della metà del secolo scorso, la guarigione o l'impedimento della
sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie dipendono troppo poco
dalla volontà del medico e dalla collaborazione del malato perchè possano essere
dedotte in obbligazione. Lo stato di salute, come si è detto, integra la causa del
contratto, ma l'obbligazione resta di diligenza professionale.
La causalità materiale nella disciplina delle obbligazioni non è così soltanto causa
di esonero da responsabilità per il debitore (art. 1218 c.c.), e perciò materia
dell'onere probatorio di quest'ultimo, ma è nelle obbligazioni di diligenza
professionale anche elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ove
risulti allegato il danno evento in termini di aggravamento della situazione
patologica o di insorgenza di nuove patologie. Il creditore di prestazione
professionale che alleghi un evento di danno alla salute, non solo deve provare
quest'ultimo e le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate (c.d.
causalità giuridica), ma deve provare anche, avvalendosi eventualmente pure di
presunzioni, il nesso di causalità fra quell'evento e la condotta del professionista
nella sua materialità, impregiudicata la natura di inadempienza di quella
condotta, inadempienza che al creditore spetta solo di allegare.
1.1.3. Una volta che il creditore abbia provato, anche mediante presunzioni, il
nesso eziologico fra la condotta del debitore, nella sua materialità, e
l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie,
sorgono gli oneri probatori del debitore, il quale deve provare o l'adempimento
o che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a
lui non imputabile. Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento
dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il nesso
di causalità materiale che il creditore della prestazione professionale deve
provare è quello fra intervento del sanitario e danno evento in termini di
aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie; il
nesso eziologico che invece spetta al debitore di provare, dopo che il creditore
abbia assolto il suo onere probatorio, è quello fra causa esterna, imprevedibile
ed inevitabile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176, comma 1,
ed impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale (art.
1218). Se la prova della causa di esonero è stata raggiunta vuol dire che
l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di una nuova patologia
è si eziologicamente riconducibile all'intervento sanitario, ma il rispetto delle
leges artis è nella specie mancato per causa non imputabile al medico. Ne
discende che, se resta ignota anche mediante l'utilizzo di presunzioni la causa
dell'evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul
creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa di
impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero
resta indimostrata l'imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze
sfavorevoli ricadono sul debitore.
E' bene rammentare che tali principi si collocano nell'ambito delle regole
sull'onere della prova, le quali assumono rilievo solo nel caso di causa rimasta
ignota. Si tratta quindi della regola residuale di giudizio grazie alla quale la
mancanza, in seno alle risultanze istruttorie, di elementi idonei all'accertamento,
anche in via presuntiva, della sussistenza o insussistenza del diritto in
contestazione determina la soccombenza della parte onerata della dimostrazione
rispettivamente dei relativi fatti costitutivi o di quelli modificativi o estintivi
(Cass. 16 giugno 1998, n. 5980; 16 giugno 2000, n. 8195; 7 agosto 2002, n.
11911; 21 marzo 2003, n. 4126).
1.1.4. Va data così continuità all'orientamento di questa Corte che nel tempo si
è consolidato e secondo cui incombe sul creditore l'onere di provare il nesso di
causalità fra la condotta del sanitario e l'evento di danno quale fatto costitutivo
della domanda risarcitoria, non solo nel caso di responsabilità da fatto illecito ma
anche nel caso di responsabilità contrattuale (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392,
cui sono conformi: Cass. 26 febbraio 2019, n. 5487; 17 gennaio 2019, n. 1045;
20 novembre 2018, n. 29853; 30 ottobre 2018, nn. 27455, 27449, 27447,
27446; 23 ottobre 2018, n. 26700; 20 agosto 2018, n. 20812; 13 settembre
2018, n. 22278; 22 agosto 2018, n. 20905; 19 luglio 2018, n. 19204; 19 luglio
2018, n. 19199; 13 luglio 2018, n. 18549; 13 luglio 2018, n. 18540; 9 marzo
2018, n. 5641; 15 febbraio 2018, nn. 3704 e 3698; 7 dicembre 2017, n. 29315;
14 novembre 2017, n. 26824; si vedano tuttavia già prima Cass. 24 maggio
2006, n. 12362; 17 gennaio 2008, n. 867; 16 gennaio 2009, n. 975; 9 ottobre
2012, n. 17143; 26 febbraio 2013, n. 4792; 31 luglio 2013, n. 18341; 12
settembre 2013, n. 20904; 20 ottobre 2015, n. 21177; 9 giugno 2016, n.
11789).
1.1.5. In conclusione va affermato ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, il
seguente principio di diritto: "ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del
sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la
lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo
di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione
patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre
è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio
onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile
l'esatta esecuzione della prestazione".
1.2. Con l'ulteriore argomento contenuto nel motivo di censura la ricorrente
prospetta una responsabilità per omissione dei sanitari e denuncia che il giudice
di appello avrebbe dovuto procedere al relativo giudizio controfattuale. La corte
territoriale ha affermato che l'esistenza di una patologia addominale era soltanto
ipotetica e che comunque, anche ammettendo l'esistenza di una tale patologia,
la scelta attendista dei medici fu altrettanto valida di quella dell'esecuzione
dell'intervento chirurgico perchè, a fronte della realizzazione di chances di
sopravvivenza quantificabili in misura di poco superiore al 40%, vi era un
elevatissimo rischio di mortalità perioperatoria. Il giudizio di fatto del giudice di
merito non è stato quindi nel senso che vi era un 40% di possibilità di
sopravvivenza se l'intervento chirurgico fosse stato eseguito, ma è stato nel
senso che non era stata accertata l'esistenza di patologia addominale, sicchè la
possibilità di sopravvivenza conseguente all'intervento va valutata non rispetto
ad un dato accertato, ma rispetto ad una semplice ipotesi (e cioè ove ammessa
l'esistenza della patologia addominale). Non essendo stata accertata la premessa
fattuale della condotta medica che avrebbe sortito l'esito positivo per la paziente,
non ricorreva per il giudice di merito il presupposto per il giudizio controfattuale
richiesto dalla valutazione della responsabilità per omissione.
In secondo luogo, e tale aspetto concerne non il giudizio di diritto ma l'indagine
fattuale del giudice di merito, questi ha accertato che non poteva aversi rilevanza
sul piano dell'efficienza naturalistica dell'omissione perchè l'identificata
possibilità di sopravvivenza era comunque controbilanciata dall'elevatissimo
rischio di mortalità perioperatoria, al punto che, ma trattasi di profilo rilevante
non sul piano causale ma di quello soggettivo del rispetto delle leges artis,
opportuna era stata la scelta attendista dei sanitari.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell'art. 115 c.p.c.. Osserva la
ricorrente che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello secondo
cui il CTU aveva riconosciuto l'esistenza della responsabilità solo con
l'affermazione che pur in presenza di qualche condotta ipoteticamente colposa
dei sanitari era incerta la correlazione causale fra tale condotta ed il decesso, in
altri luoghi dell'elaborato della consulenza vi era il riconoscimento dell'omesso
approfondimento diagnostico da parte dei sanitari e che in violazione dell'art.
115 vi era un palese errore di percezione delle risultanze della CTU (su cui Cass.
n. 9356 del 2017).
3. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo e controverso.
Osserva la ricorrente che il giudice di appello ha omesso di esaminare il fatto
confermato dal CTU di omesso approfondimento diagnostico, ascrivibile a colpa
dei sanitari, e che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, il
CTU non aveva escluso l'ipotesi della pancreatite acuta, limitandosi a sostenere
che non era stata di contenuto emorragico.
4. I motivi secondo e terzo, in quanto afferenti al profilo dell'inadempimento
della prestazione sanitaria, devono intendersi assorbiti una volta che sia stato
escluso il nesso di causalità, il quale integra una questione pregiudiziale rispetto
a quello del rispetto delle lese artis. Il terzo motivo è comunque inammissibile
con riferimento alla circostanza della pancreatite sia perchè la denuncia di vizio
motivazionale attinge non un fatto, ma la valutazione del CTU, sia perchè tale
valutazione risulta contemplata dalla motivazione.
5. L'assestamento in corso della giurisprudenza sulla questione del nesso causale
costituisce ragione per compensare le spese processuali.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene
disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1 - quater della sussistenza
dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo del ricorso, dichiara in parte inammissibile il terzo motivo
e per il resto assorbito il ricorso.
Dispone la compensazione delle spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n.
228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma
1-bis.
Dispone che in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma,
per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o
mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle
generalità e degli altri dati identificativi delle persone fisiche riportati nella
sentenza.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 04-07-2019) 11-11-2019, n. 28992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCODITTI Enrico - rel. Consigliere -
Dott. VALLE Cristiano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27225-2017 proposto da:
C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. VICO 22, presso lo studio
dell'avvocato CARLO PICARONE, rappresentato e difeso dall'avvocato PAOLO
ROBERTO RISOTTI;
- ricorrente -
contro
V.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO, 76, presso lo studio
dell'avvocato FAUSTO TARSITANO, che lo rappresenta e difende;
ISTITUTO ORTOPEDICO GALEAZZI SPA, in persona del Vice Presidente Dott.
R.P., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI, 44,
presso lo studio dell'avvocato NICOLA ADRAGNA, che lo rappresenta e difende
unitamente agli avvocati STEFANO DALLE DONNE, VITTORIO GELPI;
- controricorrenti -
e contro
UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA;
- intimata -
avverso la sentenza n. 2109/2017 della CORTE D'APPELLO di MILANO,
depositata il 16/05/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal
Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo,
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l'Avvocato ROBERTO RISOTTI PAOLO;
udito l'Avvocato NICOLA ADRAGNA;
udito l'Avvocato FAUSTO TARSITANO;
Svolgimento del processo
1. C.L. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Milano l'Istituto Clinico San
Siro s.p.a. (poi Istituto Ortopedico Galeazzi s.p.a.) e V.R. chiedendo il
risarcimento del danno nella misura di Euro 392.496,00 o altro importo di
giustizia. Espose in particolare parte attrice quanto segue. Nell'anno 2002 il C.
aveva subito presso l'Istituto Clinico San Siro intervento chirurgico di
menistectomia al ginocchio sinistro, cui nel 2003 aveva fatto seguito presso la
medesima struttura sanitaria, con il Dott. V. quale operatore, l'artroprotesi totale
nel ginocchio sinistro. Dopo circa due settimane dall'ultima operazione era
emersa al ginocchio sinistro una patologia flogistica settica per la quale il V.
aveva eseguito ripetute artrocentesi (drenaggi percutanei con siringa) le quali
avevano avuto come conseguenza la formazione di sepsi con setticemia. Fra il
2007 ed il 2009 nuovamente il V. aveva sottoposto l'attore a due interventi di
sinoviectomia, con ricovero dopo il secondo intervento per una grave sepsi al
ginocchio sinistro. In seguito nel 2009 e nel 2010 presso l'Ospedale Luigi Sacco
di Milano il C. era stato sottoposto a due ulteriori interventi, il primo di rimozione
della protesi settica ed il secondo di impianto di una nuova protesi.
Si costituirono entrambi i convenuti chiedendo il rigetto della domanda e
chiamando in causa le società assicuratrici.
2. Il Tribunale adito, previa CTU, rigettò la domanda.
3. Avverso detta sentenza propose appello il C.. Si costituirono le parti appellate
chiedendo il rigetto dell'appello.
4. Con sentenza di data 16 maggio 2017 la Corte d'appello di Milano rigettò
l'appello. Osservò la corte territoriale che sia nel caso di responsabilità
extracontrattuale che nel caso di responsabilità contrattuale incombeva
sull'attore l'onere della prova del nesso di causalità fra la condotta del sanitario
e l'evento e che non solo l'onere non era stato assolto, ma dalla CTU era
positivamente emersa l'assenza del nesso eziologico ed in particolare: la sepsi
da stafilococco non aureo, apparsa nel ricovero del febbraio 2009, a sei anni di
distanza dal primo intervento chirurgico, non era attribuibile alla protesizzazione
del ginocchio sinistro, non essendo state documentate complicanze infettive in
sede di intervento e nulla era emerso dalla documentazione relativa al periodo
10 ottobre 2003-12 novembre 2007, sicchè costituiva una complicanza infettiva
insorta per la prima volta nel ricovero del gennaio 2009, limitata ai tessuti molli
superficiali del ginocchio, facilmente debellata con il trattamento antibiotico ed
insorta nonostante la corretta applicazione dei protocolli di profilassi infettiva in
ambito ortopedico, sulla quale aveva verosimilmente inciso lo stato diabetico del
paziente; i ripetuti episodi di tenosinovite manifestatisi nel 2007 erano
riconducibili ad un complesso clinico-patologico a carattere neoplastico benigno
ad insorgenza spontanea. Concluse nel senso che era da escludere che
l'insorgenza della sepsi con setticemia fosse stata causata dagli interventi di
artrocentesi e dalla veicolazione dello stafilococco mediante uno strumento
chirurgico non adeguatamente sterilizzato.
5. Ha proposto ricorso per cassazione C.L. sulla base di quattro motivi. Resistono
con distinti controricorsi l'Istituto Ortopedico Galeazzi s.p.a. e V.R.. E' stata
depositata memoria di parte.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt.
1218, 2043, 2697 e 1123 c.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Osserva il ricorrente che il creditore deve provare solo la sussistenza del
contratto ed allegare l'inadempimento del medico e che, sulla base della regola
del "più probabile che non", doveva ritenersi che lo stafilococco era stato
necessariamente trasmesso con uno strumento chirurgico non adeguatamente
sterilizzato e/o causa di una o più delle numerose atrocentesi.
1.1. Il motivo è infondato. La questione posta dal motivo di censura attiene al
rapporto fra responsabilità contrattuale nel campo medico e causalità materiale.
Negare che incomba sul paziente creditore di provare l'esistenza del nesso di
causalità fra l'inadempimento ed il pregiudizio alla salute, come si assume nel
motivo, significa espungere dalla fattispecie costitutiva del diritto l'elemento
della causalità materiale. Di contro va osservato che la causalità relativa tanto
all'evento pregiudizievole, quanto al danno conseguenziale, è comune ad ogni
fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, quale portato
della distinzione fra causalità ed imputazione.
La causalità attiene al collegamento naturalistico fra fatti accertato sulla base
delle cognizioni scientifiche del tempo ovvero su basi logico-inferenziali. Essa
attiene alla relazione probabilistica (svincolata da ogni riferimento alla
prevedibilità soggettiva) tra condotta ed evento di danno (e fra quest'ultimo e le
conseguenze risarcibili), da ricostruirsi secondo un criterio di regolarità causale,
integrato, se del caso, da quelli dello scopo della norma violata e dell'aumento
del rischio tipico, previa analitica descrizione dell'evento (cfr. Cass. sez. U. 11
gennaio 2008, n. 576 pag. 13 e Cass. 11 luglio 2017, n. 17084), mentre su un
piano diverso si colloca la dimensione soggettiva dell'imputazione. Quest'ultima
corrisponde all'effetto giuridico che la norma collega ad un determinato
comportamento sulla base di un criterio di valore, che è rappresentato
dall'inadempienza nella responsabilità contrattuale e dalla colpa o il dolo in
quell'aquiliana (salvo i casi di imputazione oggettiva dell'evento nell'illecito
aquiliano - artt. 2049, 2050, 2051 e 2053 c.c.).
Che la causalità materiale si iscriva a pieno titolo anche nella dimensione della
responsabilità contrattuale trova una testuale conferma nell'art. 1227 c.c.,
comma 1, che disciplina proprio il fenomeno della causalità materiale rispetto al
danno evento sotto il profilo del concorso del fatto colposo del creditore (Cass.
19 luglio 2018, n. 19218; 21 luglio 2011, n. 15991), mentre il comma 2 attiene,
come è noto, alle conseguenze pregiudizievoli del danno evento (c.d. causalità
giuridica). Ogni forma di responsabilità è dunque connotata dalla congiunzione
di causalità ed imputazione. Su questo tronco comune intervengono le
peculiarità della responsabilità contrattuale.
1.1.1. Il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa
della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un
rapporto obbligatorio. Il danno derivante dall'inadempimento dell'obbligazione
non richiede la qualifica dell'ingiustizia, che si rinviene nella responsabilità
extracontrattuale, perchè la rilevanza dell'interesse leso dall'inadempimento non
è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua
dell'ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all'art. 2043
c.c. (cfr. Cass. Sez. U. 22 luglio 1999, n. 500), ma alla corrispondenza
dell'interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (arg. ex art. 1174 c.c.). E'
la fonte contrattuale dell'obbligazione che conferisce rilevanza giuridica
all'interesse regolato.
Se la soddisfazione dell'interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto
dell'obbligazione vuol dire che la lesione dell'interesse, in cui si concretizza il
danno evento, è cagionata dall'inadempimento.
La causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall'inadempimento per la
differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile
dall'inadempimento, perchè quest'ultimo corrisponde alla lesione dell'interesse
tutelato dal contratto e dunque al danno evento. La causalità acquista qui
autonomia di valutazione solo quale causalità giuridica, e dunque quale
delimitazione del danno risarcibile attraverso l'identificazione del nesso
eziologico fra evento di danno e danno conseguenza (art. 1223
c.c.). L'assorbimento pratico della causalità materiale nell'inadempimento fa si
che tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (oltre
che della fonte del diritto di credito), perchè, come affermato da Cass. Sez. U.
30 ottobre 2001 n. 13533 del 2001, è onere del debitore provare l'adempimento
o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.),
mentre l'inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve
essere solo allegato dal creditore. Non c'è quindi un onere di specifica allegazione
(e tanto meno di prova) della causalità materiale perchè allegare
l'inadempimento significa allegare anche nesso di causalità e danno evento.
Tale forma del rapporto fra causalità materiale e responsabilità contrattuale
attiene tuttavia allo schema classico dell'obbligazione di dare o di fare contenuto
nel codice civile. Nel diverso territorio del facere professionale la causalità
materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della
riconducibilità dell'evento alla condotta secondo le regole generali sopra
richiamate. Sul punto valgono le seguenti considerazioni.
1.1.2. Se l'interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale
all'interesse primario del creditore, causalità ed imputazione per inadempimento
tornano a distinguersi anche sul piano funzionale (e non solo su quello
strutturale) perchè il danno evento consta non della lesione dell'interesse alla
cui soddisfazione è preposta l'obbligazione, ma della lesione dell'interesse
presupposto a quello contrattualmente regolato. La distinzione fra interesse
strumentale, affidato alla cura della prestazione oggetto di obbligazione, ed
interesse primario emerge nel campo delle obbligazioni di diligenza
professionale. La prestazione oggetto dell'obbligazione non è la guarigione dalla
malattia o la vittoria della causa, ma il perseguimento delle leges artis nella cura
dell'interesse del creditore. Il danno evento in termini di aggravamento della
situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l'interesse
affidato all'adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto
corrispondente al diritto alla salute.
Benchè guarigione dalla malattia o vittoria della causa non siano dedotte in
obbligazione, esse non costituiscono un motivo soggettivo che resti estrinseco
rispetto al contratto d'opera professionale, ma sono tipicamente connesse
all'interesse regolato perchè la possibilità del loro soddisfacimento è condizionata
dai mutamenti intermedi nello stato di fatto determinati dalla prestazione
professionale. L'interesse corrispondente alla prestazione oggetto di
obbligazione ha natura strumentale rispetto ad un interesse primario o
presupposto, il quale non ricade nel motivo irrilevante dal punto di vista
contrattuale perchè non attiene alla soddisfazione del contingente ed occasionale
bisogno soggettivo ma è connesso all'interesse regolato già sul piano della
programmazione negoziale e dunque del motivo comune rilevante al livello della
causa del contratto. Non c'è obbligazione di diligenza professionale del medico o
dell'avvocato se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione
dalla malattia o della vittoria della causa.
Dato che il danno evento nelle obbligazioni di diligenza professionale riguarda,
come si è detto, non l'interesse corrispondente alla prestazione ma l'interesse
presupposto, la causalità materiale non è praticamente assorbita
dall'inadempimento. Quest'ultimo coincide con la lesione dell'interesse
strumentale, ma non significa necessariamente lesione dell'interesse
presupposto, e dunque allegare l'inadempimento non significa allegare anche il
danno evento il quale, per riguardare un interesse ulteriore rispetto a quello
perseguito dalla prestazione, non è necessariamente collegabile al mancato
rispetto delle leges artis ma potrebbe essere riconducibile ad una causa diversa
dall'inadempimento.
La violazione delle regole della diligenza professionale non ha dunque
un'intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento. Aggravamento
della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie non sono immanenti
alla violazione delle leges artis e potrebbero avere una diversa eziologia. Si
riespande così, anche sul piano funzionale, la distinzione fra causalità ed
imputazione soggettiva sopra delineata. Persiste, nonostante l'inadempienza, la
questione pratica del nesso eziologico fra il danno evento (lesione dell'interesse
primario) e la condotta materiale suscettibile di qualificazione in termini di
inadempimento. Il creditore ha l'onere di allegare la connessione puramente
naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della
situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico
e, posto che il danno evento non è immanente all'inadempimento, ha anche
l'onere di provare quella connessione, e lo deve fare sul piano meramente
naturalistico sia perchè la qualifica di inadempienza deve essere da lui solo
allegata, ma non provata (appartenendo gli oneri probatori sul punto al
debitore), sia perchè si tratta del solo profilo della causalità materiale, il quale è
indifferente alla qualifica in termini di valore rappresentata dall'inadempimento
dell'obbligazione ed attiene esclusivamente al fatto materiale che soggiace a
quella qualifica. La prova della causalità materiale da parte del creditore può
naturalmente essere raggiunta anche mediante presunzione.
Argomentare diversamente, e cioè sostenere che anche nell'inadempimento
dell'obbligazione di diligenza professionale non emerga un problema pratico di
causalità materiale e danno evento, vorrebbe dire implicitamente riconoscere
che oggetto della prestazione è lo stato di salute in termini di guarigione o
impedimento della sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie, ma
ciò non è perchè il parametro per valutare se c'è stato inadempimento
dell'obbligazione professionale è fornito dall'art. 1176 c.c., comma 2, il quale
determina il contenuto della prestazione in termini di comportamento idoneo per
il conseguimento del risultato utile. Per riprendere le parole di un'autorevole
dottrina della metà del secolo scorso, la guarigione o l'impedimento della
sopravvenienza dell'aggravamento o di nuove patologie dipendono troppo poco
dalla volontà del medico e dalla collaborazione del malato perchè possano essere
dedotte in obbligazione. Lo stato di salute, come si è detto, integra la causa del
contratto, ma l'obbligazione resta di diligenza professionale.
La causalità materiale nella disciplina delle obbligazioni non è così soltanto causa
di esonero da responsabilità per il debitore (art. 1218 c.c.), e perciò materia
dell'onere probatorio di quest'ultimo, ma è nelle obbligazioni di diligenza
professionale anche elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ove
risulti allegato il danno evento in termini di aggravamento della situazione
patologica o di insorgenza di nuove patologie. Il creditore di prestazione
professionale che alleghi un evento di danno alla salute, non solo deve provare
quest'ultimo e le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate (c.d.
causalità giuridica), ma deve provare anche, avvalendosi eventualmente pure di
presunzioni, il nesso di causalità fra quell'evento e la condotta del professionista
nella sua materialità, impregiudicata la natura di inadempienza di quella
condotta, inadempienza che al creditore spetta solo di allegare.
1.1.3. Una volta che il creditore abbia provato, anche mediante presunzioni, il
nesso eziologico fra la condotta del debitore, nella sua materialità, e
l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie,
sorgono gli oneri probatori del debitore, il quale deve provare o l'adempimento
o che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a
lui non imputabile. Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento
dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il nesso
di causalità materiale che il creditore della prestazione professionale deve
provare è quello fra intervento del sanitario e danno evento in termini di
aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie; il
nesso eziologico che invece spetta al debitore di provare, dopo che il creditore
abbia assolto il suo onere probatorio, è quello fra causa esterna, imprevedibile
ed inevitabile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176, comma 1,
ed impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale (art.
1218). Se la prova della causa di esonero è stata raggiunta vuol dire che
l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di una nuova patologia
è si eziologicamente riconducibile all'intervento sanitario, ma il rispetto delle
leges artis è nella specie mancato per causa non imputabile al medico. Ne
discende che, se resta ignota anche mediante l'utilizzo di presunzioni la causa
dell'evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul
creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa di
impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero
resta indimostrata l'imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze
sfavorevoli ricadono sul debitore.
E' bene rammentare che tali principi si collocano nell'ambito delle regole
sull'onere della prova, le quali assumono rilievo solo nel caso di causa rimasta
ignota. Si tratta quindi della regola residuale di giudizio grazie alla quale la
mancanza, in seno alle risultanze istruttorie, di elementi idonei all'accertamento,
anche in via presuntiva, della sussistenza o insussistenza del diritto in
contestazione determina la soccombenza della parte onerata della dimostrazione
rispettivamente dei relativi fatti costitutivi o di quelli modificativi o estintivi
(Cass. 16 giugno 1998, n. 5980; 16 giugno 2000, n. 8195; 7 agosto 2002, n.
11911; 21 marzo 2003, n. 4126).
1.1.4. Va data così continuità all'orientamento di questa Corte che nel tempo si
è consolidato e secondo cui incombe sul creditore l'onere di provare il nesso di
causalità fra la condotta del sanitario e l'evento di danno quale fatto costitutivo
della domanda risarcitoria, non solo nel caso di responsabilità da fatto illecito ma
anche nel caso di responsabilità contrattuale (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392,
cui sono conformi: Cass. 26 febbraio 2019, n. 5487; 17 gennaio 2019, n. 1045;
20 novembre 2018, n. 29853; 30 ottobre 2018, nn. 27455, 27449, 27447,
27446; 23 ottobre 2018, n. 26700; 20 agosto 2018, n. 20812; 13 settembre
2018, n. 22278; 22 agosto 2018, n. 20905; 19 luglio 2018, n. 19204; 19 luglio
2018, n. 19199; 13 luglio 2018, n. 18549; 13 luglio 2018, n. 18540; 9 marzo
2018, n. 5641; 15 febbraio 2018, nn. 3704 e 3698; 7 dicembre 2017, n. 29315;
14 novembre 2017, n. 26824; si vedano tuttavia già prima Cass. 24 maggio
2006, n. 12362; 17 gennaio 2008, n. 867; 16 gennaio 2009, n. 975; 9 ottobre
2012, n. 17143; 26 febbraio 2013, n. 4792; 31 luglio 2013, n. 18341; 12
settembre 2013, n. 20904; 20 ottobre 2015, n. 21177; 9 giugno 2016, n.
11789).
1.1.5. In conclusione va affermato ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, il
seguente principio di diritto: "ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del
sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la
lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo
di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione
patologica, o l'insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre
è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio
onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile
l'esatta esecuzione della prestazione".
A tale principio di diritto si è attenuta la corte territoriale. Quanto al resto la
censura attiene al giudizio di fatto in ordine all'assolvimento dell'onere
probatorio che è giudizio non sindacabile in quanto tale nella presente sede di
legittimità.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 115
c.p.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che non
è controversa la circostanza della pluralità di artrocentesi eseguite e che alla luce
delle numerosissime artrocentesi non era comprensibile come la Corte d'appello
avesse potuto sostenere che era stata riscontrata l'assenza di complicanze
infettive dal primo intervento fino al 2007.
2.1. Il motivo è inammissibile. La censura attiene al giudizio di fatto il quale in
quanto tale non è sindacabile nella presente sede di legittimità. Peraltro il
giudizio di fatto svolto dalla corte territoriale contempla la circostanza che il
ricorrente definisce come incontroversa.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 61,
196 e 359 c.p.c., art. 111 Cost., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Osserva il ricorrente che il CTU era un medico specializzato in ortopedia e che
sia il Tribunale che la Corte d'appello hanno disatteso l'istanza di nuova
consulenza a mezzo di un medico infettivologo. Aggiunge che il CTU non ha in
alcun modo indagato sulle origini dell'insorgere dell'infezione, nè ha svolto
accertamenti sulle numerose artrocentesi, essendosi limitato a parlare di
corretta applicazione dei protocolli di profilassi infettiva in ambito ortopedico.
3.1. Il motivo è inammissibile. Il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri
discrezionali del giudice di merito (Cass. 24 gennaio 2019, n. 2103; 29
settembre 2017, n. 22799). Le circostanze relative alla consulenza tecnica
possono rilevare sul piano motivazionale, quale omesso esame di fatto
controverso e decisivo o di assenza del requisito motivazionale dell'atto
giurisdizionale, ma non quale sindacato sull'esercizio del potere di disporre la
consulenza.
4. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio
oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Osserva il ricorrente che la corte territoriale ha omesso di esaminare le seguenti
circostanze: mancanza di competenze infettivologhe da parte del consulente; la
CTU non fornisce spiegazioni circa le differenze fra stafilococco non aureo e
stafilococco epidermidis; non è stato esaminato se un processo infettivo vi fosse
già a partire dal 2003; il ricovero nel 2009 per sepsi setticemica e la rimozione
della protesi smentiscono le conclusioni del consulente; mancato esame del fatto
che il 5 maggio 2009, in pieno corso della gravissima infezione, al C. fosse stato
prescritto l'uso di farmaci omeopatici; era stata disattesa l'istanza di esibizione
ai sensi dell'art. 210 c.p.c. di tutte le cartelle cliniche e schede ambulatoriali.
4.1 Il motivo è inammissibile. La denuncia di vizio motivazionale non attiene a
fatti storici, di cui sarebbe stato omesso l'esame, ma a valutazioni e rilievi in
ordine alla CTU svolta, oltre che al mancato accoglimento di istanza istruttoria.
L'unica circostanza di fatto denunciata è quella della prescrizione di farmaci
omeopatici, ma rispetto a tale circostanza non si indicano le specifiche ragioni di
decisività nel quadro dei fatti costitutivi della domanda.
5. L'assestamento della giurisprudenza in ordine alla questione del nesso causale
costituisce ragione di compensazione delle spese processuali.
Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene
rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre
2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1 - quater all'art. 13
del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza
dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Dispone la compensazione delle spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n.
228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello
stesso art. 13.
Dispone che in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma,
per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o
mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle
generalità e degli altri dati identificativi delle persone fisiche riportati nella
sentenza.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 04-07-2019) 11-11-2019, n. 28993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere -
Dott. VALLE Cristiano - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 29314/2017 proposto da:
C.R. in proprio e nella qualità di procuratrice speciale di C.A. e C.M., tutti in
proprio e quali eredi di V.M., elettivamente domiciliati in Roma alla via Catone,
n. 15 presso lo studio dell'AVVOCATO FAFONE CLEMENTINA che li rappresenta
e difende unitamente agli AVVOCATI COLAPIETRO GIUSEPPE e MAZZUCCHIELLO
GIUSEPPE;
- ricorrenti -
contro
Azienda Socio Sanitaria Territoriale (OMISSIS), in persona del legale
rappresentante in carica, elettivamente domiciliato in Roma, alla via Delle
Fornaci n. 38, presso lo studio dell'AVVOCATO ALBERICI FABIO che lo
rappresenta e difende unitamente agli AVVOCATI DONDE' STENO, STELLA
GIOVANNI e VIGEZZI DONATO GIUSEPPE;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 03953 del 15/09/2017 della CORTE di APPELLO di Milano;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal
consigliere relatore Cristiano Valle;
udito l'Avvocato Maria Gaetana Di Nocera per i ricorrenti e l'Avvocato Giovanni
Stella per la controricorrente;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Sgroi Carmelo, che
ha concluso per l'accoglimento del secondo motivo del ricorso, con assorbimento
del terzo e rigetto nel resto.
osserva:
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 03953 del 2017, ha confermato la
sentenza del Tribunale, della stessa sede, di rigetto della domanda di
risarcimento danni proposta da C.A., R. e M., in proprio e quali eredi di V.M.,
deceduta in (OMISSIS) presso l‘(allora) Azienda Ospedaliera (OMISSIS), in data
(OMISSIS), a seguito dell'intervento chirurgico per asportazione di tumore al
timo alla quale si era sottoposta il (OMISSIS).
La sentenza della Corte territoriale è impugnata da C.A., R. e M., rispettivamente
marito e figli di V.M., con quattro motivi di ricorso.
Resiste con controricorso l‘(attuale) Azienda Sanitaria (OMISSIS).
Nell'imminenza dell'udienza del 4 luglio 2019, e nel rispetto del termine di legge,
sono state depositate memorie da entrambe le parti.
Il P.M. in sede di discussione ha concluso per l'accoglimento del secondo motivo
di ricorso, assorbito il terzo, rigetto dei restanti.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso (pagg. da 12 a 27) assume la violazione dell'art. 360
c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione agli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e art.
132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 111 Cost., artt. 1218, 2697, 2727, 2729 e 2043
c.c. e degli artt. 40 e 41 c.p. per avere la Corte d'Appello di Milano escluso
erroneamente il nesso di causalità tra l'intervento di timectomia e la lesione
aortica mortale patita da V.M., con motivazione perplessa e/o apparente e in
contrasto con i principi giuridici in tema di responsabilità contrattuale medica,
segnatamente operando inversione dell'onere della prova e trascurando di
applicare il criterio di vicinanza della prova e del "più probabile che non".
Il secondo mezzo (pagg. da 27 a 37) deduce violazione degli artt. 112, 115, 116
e 132 cod. proc. civ., art. 111 Cost., nonchè degli artt. 1218, 1223, 2236, 2697,
2727 e 2729 c.c. e degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma
1, nn. 3 e 4, per avere la Corte di Appello erroneamente escluso il nesso di
causalità tra tardivo ed inadeguato reintervento ed il decesso di V.M., con
motivazione apparente ed in contrasto con i principi in tema di responsabilità
contrattuale medica, segnatamente operando inversione dell'onere della prova,
omettendo di applicare il criterio di vicinanza della prova e del "più probabile che
non".
Il terzo motivo (pagg. da 37 a 44) deduce violazione degli artt. 112, 115 e 132
cod. proc. civ., art. 111 Cost., nonchè degli artt. 1218, 1223, 2697 e 2727 c.c. e
degli artt. 40 e 41 c.p. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per
avere la Corte di Appello erroneamente escluso il nesso causale tra
l'inadempimento sanitario da tardivo ed inadeguato reintervento e la perdita
delle chance terapeutiche per V.M., con conseguente motivazione apparente in
contrasto sia con l'espletata consulenza tecnica di ufficio che con i principi
giuridici in tema di responsabilità contrattuale medica.
Il quarto mezzo (pagg da 44 a seguire) deduce violazione degli artt. 112, 115 e
132, 163 e 183 cod. proc. civ., art. 111 Cost., nonchè degli artt. 1218, 2697 e
2727 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per avere la
Corte di Appello erroneamente dichiarato l'inammissibilità della domanda di
risarcimento dei danni da lesione dell'autodeterminazione di V.M. per carente
consenso informato ed erroneamente dichiarato l'infondatezza della domanda di
ristoro dei danni da lesione della salute di V.M. da carente consenso informato,
con motivazione apparente, nonchè con omesso esame di un fatto decisivo e
controverso ed in contrasto con i principi giuridici in tema di responsabilità
contrattuale medica.
Il primo ed il secondo motivo di ricorso possono essere congiuntamente
esaminati (salvo quanto si chiarirà per i profili comuni al secondo ed al terzo
mezzo), in quanto connessi e prospettanti entrambi questioni relative alla
sussistenza del nesso causale tra i due successivi interventi chirurgici cui venne
sottoposta, nell'arco di meno di 24 ore, V.M..
I due motivi sono in parte inammissibili, in considerazione della loro formale
prospettazione quale vizio di sussunzione, ma in realtà avanzando entrambi una
richiesta di rivalutazione del fatto (in quanto tale preclusa, alla stregua della
vigente formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: Sez. U n. 08053 del
07/04/2014 e più di recente Cass. n. 23940 del 12/10/2017), ed in parte
infondati, in quanto la sentenza d'appello ha, con motivazione logica e coerente,
adeguatamente ancorata alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio e non
incrinata dai motivi del ricorso, escluso che vi fosse nesso causale tra la condotta
dei sanitari dell'Azienda Sanitaria (OMISSIS) ed il decesso della V., affermando
che (pagg. da 13 a 16 della motivazione) non poteva ritenersi individuabile nesso
causale tra l'operazione di timectomia, con necessaria "cruentazione del
distretto" e la lesione aortica, potendo questa individuarsi quale lesione di origine
ignota comunque non accertabile, il cui accadimento doveva ritenersi
complicanza dell'intervento del tutto rara ed inusuale e "non oggettivamente
dimostrabile nella sua morfologia per mancanza di riscontro topografico della
lesione all'angio TC, mancata descrizione macroscopica della precisa sede in
sede chirurgica ed autoptica mancanza di una prova istologica di meiopragia
della parete aortica, insufficiente descrizione degli interventi".
L'insussistenza di ragioni di accoglimento del primo e del secondo motivo di
ricorso (anche, con riferimento a questo secondo mezzo, in considerazione di
quanto si esporrà in relazione al terzo), comporta la necessità di esaminare il
terzo mezzo prospettato dai ricorrenti (il quarto affronta tematica in gran parte
avulsa dai precedenti del valido e consapevole consenso informato da parte della
V.).
La decisione del detto terzo motivo di ricorso presuppone la risoluzione delle
problematiche questioni in ordine alle possibilità di sopravvivenza della V. nel
caso in cui fosse stata tempestivamente diagnosticata l'emorragia interna in atto
e fosse stata disposta una nuova operazione prima delle ore 24 del 17/03/2006,
non più solo sul versante del nesso causale tra condotta dei sanitari e decesso
della V., bensì in relazione alla cd. perdita delle chance terapeutiche.
Il detto mezzo attiene, quindi, alla vigilanza del personale medico sul decorso
postoperatorio (dopo la prima operazione di timectomia) ed il secondo intervento
operatorio, effettuato sulla V. dopo che ella era uscita dalla sala operatoria, con
prognosi sostanzialmente favorevole, ed era stata riportata in corsia.
Il terzo motivo di ricorso censura in particolare la sentenza impugnata nella parte
in cui ha affermato che anche se, come prospettato dai consulenti tecnici di
ufficio, il secondo intervento operatorio fosse iniziato alle 22.30 anzichè alle 24
del (OMISSIS), le possibilità di sopravvivenza della V. sarebbero state
sostanzialmente non apprezzabili in termini statistici e scientifici (pag. 24 della
sentenza d'appello).
La sentenza in scrutinio ha, pertanto escluso che vi fosse lesione risarcibile,
anche i termini di cd. perdita di chance, ossia di possibilità di conseguire un
risultato diverso, nel caso di specie consistente nella possibilità di allungamento
della vita della V., che, in quanto sottopostasi ad intervento elettivo di
asportazione di un tumore benigno, avrebbe potuto ancora vivere, in discrete
condizioni di salute, diversi anni (dieci, nella prospettazione di parte ricorrente);
in breve il motivo attiene alla perdita di chance terapeutiche.
Sul profilo della perdita di chance si osserva quanto segue.
1) La delicatezza e la complessità della questione della perdita di chance trova
la sua sintesi più felice nel pensiero di un celebre filosofo ed economista, il quale,
dopo aver premesso come "the natural interpretation of "chance" is subjective",
definirà poi la chance come "the measure of our ignorance".
2) Il modello teorico di riferimento della perdita di chance (la cui matrice
essenzialmente giurisprudenziale è conseguenza di un significativo silenzio
normativo, fatte naturalmente salve le imponenti elaborazioni dottrinali sul
tema) è stato e tuttora resta (come si legge nelle numerose pronunce di
legittimità e di merito che affrontano la questione) il danno patrimoniale,
dibattuta essendone la sola forma - e cioè quella di danno emergente piuttosto
che di lucro cessante.
3) Come già di recente affermato da questa stessa Corte (Cass. n. 05641 del
09/03/2018), il duplice paralogismo che ha accompagnato l'evoluzione storica
della teoria della chance perduta si risolve nel ricostruirne, da un canto, i tratti
caratterizzanti in termini di danno patrimoniale, dall'altro, nell'avere sovrapposto
uno degli elementi essenziali della fattispecie dell'illecito - il nesso causale - con
il suo oggetto - il sacrificio della possibilità di un risultato migliore - tanto da
indurre autorevole dottrina a contestarne in radice la legittimità della sua stessa
esistenza e della relativa teorizzazione.
4) Il modello "patrimonialistico" della chance non appare, di per sè, del tutto
sovrapponibile alla perdita della possibilità di conseguire, per il soggetto che si
dichiari danneggiato da una condotta commissiva (o più spesso omissiva)
colpevole, un risultato migliore sul piano non patrimoniale, sebbene appiano
tracciabili le linee di talune coordinate comuni.
5) La chance patrimoniale presenta, in apparenza, le stimmate dell'interesse
pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa, sia pur soltanto
in parte qua, attese le evidenti differenze morfologiche tra l'interesse legittimo
e la chance: mentre il primo incarna l'aspirazione - e la pretesa - alla legittimità
dell'azione amministrativa e preesiste, dunque, all'azione amministrativa stessa,
la chance viene in rilievo quando essa è stata perduta e cioè quando l'attività
amministrativa, ormai esauritasi, è irrimediabilmente viziata e il vizio ha
cagionato un danno risarcibile), e cioè postula la preesistenza di una situazione
"positiva", i.e. di un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta
colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa (il
partecipante ad un concorso è portatore di conoscenze e preparazione che
preesistono all'intervento "soppressivo" del preposto all'esame; l'azienda che
prende parte ad una gara ad evidenza pubblica è portatrice di professionalità e
strutture operative che preesistono all'intervento "eliminativo" dell'ente pubblico
che ha bandito la gara per poi impedirne illegittimamente la partecipazione).
6) La chance "non pretensiva", rappresentata anch'essa (e segnatamente nel
sottosistema della responsabilità sanitaria), sul piano funzionale, dalla possibilità
di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente, diverge
strutturalmente dalla prima, volta che l'apparire del sanitario sulla scena della
vicenda patologica lamentata dal paziente coincide sincronicamente con la
creazione di una chance, prima ancora che con la sua (eventuale) cancellazione
colpevole, e si innesta su di una preesistente situazione "non favorevole" (una
situazione, cioè, patologica) rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi
un quid inteso come "un pregresso positivo", e positivamente identificabile ex
ante (il paziente è portatore di una condizione di salute che, prima dell'intervento
del medico, rappresenta un pejus, e non un quid in positivo, sul piano della
chance, allo stato inesistente senza l'intervento medico).
7) Oltre che sul piano concettuale, la distinzione rileva anche su quello degli
effetti (i.e., sull'aspetto risarcitorio), dovendo il giudice di merito inevitabilmente
tener conto, in una dimensione strettamente equitativa, di tale diversità nella
liquidazione del danno. Se, difatti, in sede di accertamento del valore di una
chance patrimoniale è spesso possibile il riferimento a valori oggettivi (il giudice
amministrativo, in alcune sue passate decisioni, ha adottato il parametro del
10% del valore dell'appalto all'atto del riconoscimento di una perdita di chance
di vittoria da parte dell'impresa illegittimamente esclusa), diverso sarà il criterio
di liquidazione da adottare per la perdita di una chance a carattere non
patrimoniale, rispetto alla quale il risarcimento non potrà essere proporzionale
al risultato perduto, ma commisurato, in via equitativa, alla possibilità perduta
di realizzarlo.
8) Per integrare gli estremi del danno risarcibile, la perdita di chance (giusta
l'insegnamento delle sezioni unite di questa Corte in tema di danno non
patrimoniale: Sez. U n. 26792 del 11/11/2008) dovrà peraltro attingere ai
parametri della apprezzabilità, serietà, consistenza, rispetto ai quali il valore
statistico/percentuale - se in concreto accertabile - potrà costituire al più criterio
orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto, onde
distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza (la sottrazione di un
biglietto della lotteria appare irrilevante a fini risarcitori), senza che ciò
costituisca (come erroneamente opinato talvolta in dottrina) una "contraddizione
in termini costituita dalla possibilità di istituire un nesso causale fondato sul più
probabile che non con un evento di danno rappresentato da una possibilità non
probabile", essendo evidente, in tale ricostruzione, la confusione concettuale tra
l'analisi del nesso eziologico e quella dell'evento di danno lamentato.
8) L'ulteriore paralogismo in cui talvolta incorre la giurisprudenza di legittimità
e di merito, oltre che parte della dottrina specialistica, è costituito dalla
"contrazione" (che si risolve in una vera e propria elisione in parte qua)
dell'analisi degli elementi destinati ad integrare diacronicamente la fattispecie
dell'illecito, sovrapponendosi, da un canto, l'accertamento dell'elemento causale
a quello dell'evento di danno (a cagione dell'equivocità del lessico usato per
definire la chance), ed errandosi poi nell'identificazione stessa di quell'evento,
sovente ricondotto al concetto di chance pur non avendone, di essa - specie in
tema di responsabilità sanitaria - carattere alcuno.
9) La connotazione della chance - intesa, al pari di ogni altra conseguenza della
condotta illecita, non come regola (a)causale, ma come evento di danno - in
termini di possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale non
esclude nè elide, difatti, la necessaria e preliminare indagine sulla relazione
eziologica tra la condotta e l'evento (in senso difforme, non condivisibilmente,
Cass. n. 21619 del 16/10/2007): è priva di consistenza, pertanto, l'obiezione
secondo cui l'ineludibile incertezza dell'evento non potrebbe non riverberare i
suoi effetti sulla ricostruzione del nesso causale che, viceversa, sostanziandosi
in una relazione probabilistica tra fatti (destinata a sfociare in un giudizio di
accertamento sul piano processuale), si pone su di un piano del tutto speculare
rispetto a quello rappresentato dall'incertezza eventistica (i. e. dal sacrificio della
possibilità di un risultato migliore).
10) Evapora così la distinzione (che appare sovente motivo di confusione
concettuale e applicativa) tra chance cd. "ontologica" e chance "eziologica", volta
che quest'ultima sovrappone inammissibilmente la dimensione della causalità
con quella dell'evento di danno, mentre la prima evoca una impredicabile
fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall'esistenza e dalla prova
di un danno-conseguenza risarcibile.
11) L'attività del giudice dovrà, pertanto, muovere dalla previa disamina della
condotta (e della sua colpevolezza) e dall'accertamento della relazione causale
tra tale condotta e l'evento di danno (la possibilità perduta, ovverossia il
sacrificio della possibilità di conseguire un risultato migliore), senza che i concetti
di probabilità causale e di possibilità (e cioè di incertezza) del risultato
realizzabile possano legittimamente sovrapporsi, elidersi o fondersi insieme: la
dimostrazione di una apprezzabile possibilità di giungere al risultato migliore sul
piano dell'evento di danno non equivale, in altri termini, alla prova della
probabilità che la condotta dell'agente abbia cagionato il danno da perdita di
chance sul piano causale.
12) Sul piano della corretta individuazione del diritto leso, la chance, pur
mostrando i caratteri della fattispecie "a consistenza variabile" nella sua
dimensione cronologica (variabile, cioè, a seconda del tempo in cui la si
consideri), non può comunque rappresentare una entità concettualmente
distinta dal "risultato finale", poichè la condotta dell'agente è pur sempre
destinata a rilevare sul piano della lesione del diritto alla salute (e/o del diritto
di autodeterminazione) del paziente, cui appare riconducibile pur se in una
diversa accezione, che corrisponde ad una anticipazione di tutela dello stesso
bene giuridico, meritevole di ricevere una autonoma considerazione.
13) La domanda giudiziale che configuri una ipotesi di danno da perdita di chance
di sopravvivenza (fatto valere dai congiunti della vittima iure hereditario), e un
danno da perdita di chance di godere del rapporto parentale fatto valere dai
parenti iure proprio, ripete, pertanto, il suo autonomo fondamento (e la
autonomia del conseguente petitum processuale) in ragione della incertezza
sull'anticipazione dell'evento morte.
14) Le stesse pretese si tramutano, di converso, in domanda di risarcimento tout
court del danno da perdita anticipata del rapporto parentale, ove sia certo e
dimostrabile, sul piano eventistico, che la condotta illecita abbia cagionato
l'anticipazione dell'evento fatale, costituendo, in tale ipotesi, un evidente
paralogismo l'evocazione della fattispecie della chance - fondato sull'equivoco
lessicale indotto dalla locuzione "perdita della possibilità di vivere meglio e più a
lungo", mentre l'evento di danno è specularmente costituito dalla perdita
anticipata della vita e dall'impedimento a vivere il tempo residuo in condizioni
migliori e consapevoli.
15) La chance si sostanzia, in definitiva, nell'incertezza del risultato, la cui
"perdita", ossia l'evento di danno, è il precipitato di una chimica di insuperabile
incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie
di cura del tempo rapportate alle condizioni soggettive del danneggiato. Tale
evento di danno sarà risarcibile a seguito della lesione di una situazione
soggettiva rilevante - che pur sempre attiene al "bene salute" - sempre che esso
sia stato allegato e (con particolare riguardo al diritto all'autodeterminazione,
inteso anche in termini di possibilità di "battersi" consapevolmente per un
possibile esito più favorevole dell'evolversi della malattia) provato in giudizio
nella sua già ricordata dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza, e non
già soltanto in base alla pura e semplice relazione causale tra condotta ed
evento, in guisa di danno in re ipsa.
16) Pertanto, nei casi in cui l'evento di danno sia costituito non da una possibilità
- sinonimo di incertezza del risultato sperato - ma dal (mancato) risultato stesso,
non di chance perduta par lecito discorrere, bensì di altro e diverso evento di
danno (in ambito sanitario, la perdita anticipata della vita, rigorosamente
accertata come conseguenza dell'omissione sul piano causale).
17) Applicando tali criteri alla responsabilità sanitaria (segnatamente in ambito
oncologico), sulla premessa che l'illecito da chance perduta si dipana secondo la
tradizionale scansione:
- CONDOTTA COLPOSA (omessa, erronea o ritardata diagnosi);
- LESIONE DI UN DIRITTO (il diritto alla salute e/o all'autodeterminazione,
entrambi costituzionalmente tutelati);
- EVENTO DI DANNO (sacrificio della possibilità di un risultato migliore);
- CONSEGUENZE DANNOSE RISARCIBILI (valutabili in via equitativa) possono
formularsi le seguenti ipotesi:
A) La condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal
sanitario ha cagionato la morte del paziente, mentre una diversa condotta
(diagnosi corretta e tempestiva) ne avrebbe consentito la guarigione, alla luce
dell'accertamento della disposta CTU. In tal caso l'evento (conseguenza del
concorso di due cause, la malattia e la condotta colpevole) sarà attribuibile
interamente al sanitario, chiamato a rispondere del danno biologico cagionato al
paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.
B) La condotta colpevole ha cagionato non la morte del paziente (che si sarebbe
comunque verificata) bensì una significativa riduzione della durata della sua vita
ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata, in base
all'accertamento compiuto dal CTU. In tal caso il sanitario sarà chiamato a
rispondere dell'evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e
dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita
di chance - senza, cioè, che l'equivoco lessicale costituito dal sintagma
"possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore" incida sulla qualificazione
dell'evento, caratterizzato non dalla "possibilità di un risultato migliore", bensì
dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo
maggiori sofferenze fisiche e spirituali.
C) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale
sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull'esito finale, rilevando di
converso, in pejus, sulla sola (e diversa) qualità ed organizzazione della vita del
paziente (anche sotto l'aspetto del mancato ricorso a cure palliative): l'evento di
danno (e il danno risarcibile) sarà in tal caso rappresentato da tale (diversa e
peggiore) qualità della vita (intesa altresì nel senso di mancata predisposizione
e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo), conseguente
alla lesione del diritto di autodeterminazione, purchè allegato e provato (senza
che, ancora una volta, sia lecito evocare la fattispecie della chance).
D) La condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale
sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualità della vita medio
tempore e sull'esito finale. La mancanza, sul piano eziologico, di conseguenze
dannose della pur colpevole condotta medica impedisce qualsiasi risarcimento.
E) La condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento
di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di
insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di
minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze
scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità - i.e. tale
incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di
chance perduta) - sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le
circostanze del caso, come possibilità perduta - se provato il nesso causale,
secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la
possibilità perduta) - ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli
(ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la
necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza.
18) L'incertezza del risultato, va ribadito, è destinata ad incidere non sulla analisi
del nesso causale, ma sulla identificazione del danno, poichè la possibilità
perduta di un risultato sperato (nella quale si sostanzia la chance) è la
qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione di una
situazione soggettiva rilevante (comunque afferente al diritto alla salute), e non
della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta
positivamente prima e a prescindere dall'analisi dell'evento lamentato come
fonte di danno. In tali sensi, pertanto, la chance risulta un diminutivo astratto
dell'illecito, inteso come sinonimo di possibilità priva di misura (ma non di
contenuto), da risarcirsi equitativamente, e non necessariamente quale frazione
eventualmente percentualistica del danno finale.
19) Pertanto, ove risulti provato, sul piano etiologico, che la condotta imperita
del sanitario abbia cagionato la morte anticipata del paziente, che sarebbe
(certamente o probabilmente) sopravvissuto più a lungo e in condizioni di vita
(fisiche e spirituali) diverse e migliori per un periodo specificamente indicato dal
CTU (sia pur con gli inevitabili margini di approssimazione), non di "maggiori
chance di sopravvivenza" sarà lecito discorrere, bensì di un evento di danno
rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla
sua peggiore qualità (fisica e spirituale).
20) Viene in tal guisa scongiurato il rischio di confondere il grado di incertezza
della chance perduta con il grado di incertezza sul nesso causale. Il nesso di
causalità sarà difatti escluso, al di là ed a prescindere dall'esistenza della
possibilità di un risultato migliore, dalla presenza di fattori alternativi che ne
interrompano la relazione logica con l'evento (quale il sopravvenire di altra
patologia determinante di per sè sola dell'exitus o di altri eventi ascrivibili alla
condotta di terzi o dello stesso danneggiato).
21) Sarà altresì esclusa ogni rilevanza causale della condotta, sul piano
probabilistico, in tutti i casi di incertezza - ad esempio, nell'ipotesi di cd.
multifattorialità dell'evento - sul rapporto di derivazione eziologica tra la
condotta stessa e l'evento, pur nella sua astratta configurabilità in termini di
possibilità perduta, qualora la multifattorialità non sia rappresentata (come
talvolta, ma erroneamente, si è ipotizzato) da un accertato concorso di causa
umana e causa naturale (ciò che consente il frazionamento del risarcimento
"differenziale" in applicazione dei principi che regolano la causalità giuridica:
Cass. n. 15991 del 21/07/2011 e successive conformi), bensì da un concorso di
cause la cui disamina si risolva, nelle conclusioni del CTU, in termini di insanabile
incertezza causale rispetto all'evento.
22) Non può pertanto condividersi l'assunto secondo il quale il danno da perdita
di chance resterebbe occultato, "in una sorta di effetto matrioska", nelle viscere
del danno alla salute, dalle quali riemerge quando non si riesca a raggiungere la
prova del nesso casuale rispetto alla lesione di quest'ultimo. Premesso che,
nell'un caso come nell'altro, il diritto leso è pur sempre quello alla salute, sia pur
nelle sue rispettive, differenti dimensioni, la risarcibilità della perdita di chance
non si pone in alcun modo come conseguenza di una insufficiente relazione
causale con il danno (come erroneamente ipotizzato nella sentenza n. 21619 del
16/10/2007 di questa stessa Corte), ma come incertezza eventistica
conseguente al previo accertamento di quel nesso con la condotta omissiva.
23) A quanto sinora esposto consegue che, provato il nesso causale secondo le
ordinarie regole civilistiche, rispetto ad un evento di danno accertato nella sua
esistenza e nelle sue conseguenze, il risarcimento di quel danno sarà dovuto
integralmente. Sul medesimo piano d'indagine, che si estende dal nesso al
danno, ove quest'ultimo venisse morfologicamente identificato, in una
dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale
possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente (come
scelta, hic et nunc, di politica del diritto, condivisa, peraltro, anche dalla
giurisprudenza di altri Paesi di Common e di Civil law) di temperare
equitativamente il criterio risarcitorio del cd. all or nothing, senza per questo
essere destinata ad incidere sui criteri di causalità, nè ad integrarne il necessario
livello probatorio.
IN SINTESI:
a) Sul piano funzionale, chance patrimoniale e chance non patrimoniale
partecipano della stessa natura.
b) La diversità morfologica tra chance patrimoniale e chance non patrimoniale
da responsabilità sanitaria va individuata nella diversità della situazione
preesistente: - Preesistenza negativa (chance non patrimoniale);
- Preesistenza positiva (chance patrimoniale);
c) Tale preesistenza postula, nella chance patrimoniale, una situazione positiva
(titoli, professionalità, curricula, esperienze pregresse, attitudini specifiche
ecc.); in quella non patrimoniale, una situazione di salute (già) patologica (i.e.
"negativa").
d) Entrambe le forme di chance presuppongono:
- Una condotta colpevole dell'agente;
- Un evento di danno (la lesione di un diritto);
- Un nesso di causalità tra la condotta e l'evento;
- Una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non; - Un nesso di
causalità tra l'evento e le conseguenze dannose.
A quanto sopra esposto, con riferimento al terzo motivo del ricorso in esame,
consegue che non sussiste, nel caso di specie, alcun margine di apprezzabilità
di perdita di chance, avendo la CTU espletata in primo grado compiuto, come
risulta dalla motivazione della sentenza di appello, una valutazione "in termini di
possibilità di sopravvivenza della stessa ( V.) assolutamente generica ed
ipotetica anche in considerazione dell'elevata mortalità di eventi astrattamente
confrontabili con quello in esame, la disseccazione acuta dell'aorta, che può
portare ad una percentuale di mortalità del 15-20% in reparti ad altissima
specializzazione come sono quelli di cardiochirurgia". La sentenza della Corte
territoriale, laddove ha concluso che la possibilità per V.M. di sopravvivere alla
situazione ingravescente anche se fosse stata curata con assistenza di specialisti
diversi e differenti apparecchiature, tenuto pure conto delle sue condizioni
generali assolutamente scadute ben prima che si verificassero i ritardi
terapeutici, e dei rischi del trasferimento presso altra struttura sanitaria con
procedura d'urgenza, con concreto pericolo di arresto cardiaco, fosse talmente
labile e teorica da non poter essere determinata neppure in termini statistici e
scientifici probabilistici e ancor meno, equitativamente quantificata, si sottrare
alle critiche proposte con il terzo motivo di ricorso, avendo coerentemente e
logicamente escluso la sussistenza di una perdita di chance.
Il quarto motivo di ricorso attiene alla mancanza di un valido consenso informato
da parte di V.M..
Il mezzo è inammissibile, come già ritenuto dalla Corte territoriale, con
riferimento al profilo dell'autodeterminazione e delle conseguenze risarcitorie,
non risultando proposta idonea domanda dalla citazione introduttiva del giudizio
in prime cure.
Sul diverso versante della diversa determinazione della paziente qualora avesse
ricevuto idonee informazioni si rileva che, come prospettato dal giudice di
merito, non sono state neppure allegate circostanze idonee a ritenere che, se
correttamente informata, la V. avrebbe negato il proprio consenso (Cass. n.
20885 del 22/08/2018: "L'inadempimento dell'obbligo di informazione
sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori -
anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute
non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione - a condizione che sia
allegata e provata, da parte dell'attore, l'esistenza di pregiudizi non patrimoniali
derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in sè
considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta
dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi
o fastidi").
Il ricorso, deve, pertanto, essere integralmente rigettato.
Le spese di lite di questo giudizio di legittimità possono essere compensate,
ricorrendo novità delle questioni trattate in tema di perdita di chance ed in
considerazione dell'intervento recente della Corte Costituzionale sul punto (Corte
Cost. n. 77 del 19 aprile 2018 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
92 c.p.c., comma 2, nel testo modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n.
132, art. 13, comma 1, recante Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed
altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile,
convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in
cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti,
parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed
eccezionali ragioni).
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Si reputa opportuno disporre che in caso di utilizzazione della presente sentenza
in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche,
supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa
l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati
nella sentenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
compensa le spese di lite di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone oscuramento dati identificativi e generalità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della
Corte di Cassazione, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 04-07-2019) 11-11-2019, n. 28994
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -
Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -
Dott. OLIVIERI Stefano - Consigliere -
Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere -
Dott. VALLE Cristiano - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 09584/2017 proposto da:
G.N., elettivamente domiciliato in Roma al viale di Villa Pamphili, n. 61 presso lo
studio dell'avvocato Giorgio Gallone che lo rappresenta e difende;
- ricorrente -
contro
Allianz Assicurazioni S.p.a., A.V. quale tutore di S.B., Cattolica Assicurazioni Soc.
Coop., Fallimento Di Cura Privata (OMISSIS) S.r.l.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 00243/2016 della CORTE d'APPELLO di L'AQUILA,
depositata il 26/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 da
Cristiano Valle;
udito l'Avvocato Giorgio Gallone per il ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento
del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Sgroi Carmelo, che
ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 00243 del 26 aprile 2016 la Corte di appello di L'Aquila rigettava
l'impugnazione, proposta dal medico Dott. G.N., avverso la sentenza del
Tribunale di Avezzano che lo aveva condannato al risarcimento dei danni in
favore di A.V., quale genitore esercente la potestà (e successivamente tutore)
sul figlio minorenne S.B..
Il G., quale medico curante di A.V., sia durante la gravidanza che nella fase
terminale di essa, sfociata in parto naturale ma con neonato affetto da gravi
patologie nEurologiche, era stato ritenuto responsabile, dai giudici di merito,
delle conseguenze patologiche del parto, non avendo adeguatamente seguito la
gestazione della A., che all'ottavo mese aveva accusato una minaccia di aborto
ed era affetta, nel terzo trimestre di gestazione, da gestosi, non avendole
sconsigliato il ricovero, avvenuto tre giorni prima del parto, in struttura sanitaria
non adeguatamente attrezzata per la terapia neonatale.
Non risultano controricorsi.
Con ordinanza n. 05217 del 21/02/2019, resa all'esito della camera di consiglio
seguita all'adunanza camerale non partecipata del 20 dicembre 2018, il collegio,
ritenuto che l'esame dei motivi di ricorso prospettati da G.N. comportava la
decisione di questioni suscettibili di assumere valenza nomofilattica, in quanto
relativi alla prospettata retroattività della disciplina introdotta con il D.L. 13
settembre 2012, n. 158, convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189 e recante
"Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto
livello di tutela della salute" e che pertanto appariva opportuno rimettertene la
decisione all'udienza pubblica, rinviava la decisione del ricorso a nuovo ruolo e
quindi, con separato provvedimento, era fissata l'udienza pubblica del 4 luglio
2019.
Non sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
G.N. ha impugnato per cassazione la sentenza della Corte territoriale con tre
motivi, di cui il primo ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 con riferimento
agli artt. 2043 e 2697 c.c. e del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 1, comma
1, convertito con modificazioni nella L. 8 novembre 2012, n. 189 affermando che
nel caso di specie la responsabilità era regolata dall'art. 2043 c.c. e non
pertanto, di ambito contrattuale o, comunque, da cd. contatto sociale;
con il secondo mezzo il ricorrente ha gravato la sentenza di appello ai
sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione all'art. 2043 c.c. e art. 41
c.p., deducendo vizio di sussunzione in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso
causale;
infine con il terzo motivo il ricorrente censura la pronuncia della Corte territoriale
in forza dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all'art. 115
c.p.c. nonchè art. 1221 c.c. e art. 41 c.p. per non avere i giudici di merito
adeguatamente individuato cause naturali concorrenti sulle conseguenze subite
dal feto.
In ordine al primo motivo di ricorso si osserva quanto segue.
La L. n. 189 del 2012, di conversione con modificazioni del D.L. n. 158 del
2012 all'art. 3, comma 1, prevede(va):
"L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività
si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo
l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del
risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo
periodo".
La norma è stata successivamente abrogata e dal 01/04 del 2017 è in vigore
la L. n. 24 del 2017, art. 7, comma 3, che prevede:
"L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio
operato ai sensi dell'art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell'adempimento di
obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella
determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta
dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5".
Entrambe le norme non possono ritenersi, in assenza di specifica disposizione
transitoria, non contenuta nè nella stessa L. n. 189 del 2012 (o nel decreto legge
convertito) o nella successiva L. n. 24 del 2017, avere efficacia retroattiva. Esse,
pertanto, conformemente all'art. 11 preleggi regolano unicamente fattispecie
verificatesi successivamente alla loro entrata in vigore.
Deve, inoltre, ribadirsi che secondo la lettura data da questa Corte alla L. n. 189
del 2012, art. 3, comma 1, nelle sue prime applicazioni ai giudizi in corso, la
norma si limita ad escludere la rilevanza della colpa lieve ma non configura la
responsabilità del sanitario quale extracontrattuale (Cass. n. 08940 del
17/04/2014).
La L. n. 189 del 2012, art. 3 in concreto, non specificava la natura della
responsabilità medica, ma si limitava a stabilire che, se il medico evita la
condanna penale quando sia in colpa lieve, per lui "resta fermo l'obbligo di
cui all'art. 2043 c.c." e l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. non è che l'obbligo di
risarcire il danno. La L. n. 189 del 2012, art. 3 nel richiamare l'art. 2043 c.c. non
applicava al medico lo statuto della responsabilità civile aquiliana, ma lo
richiamava solo per definire in modo indiretto l'oggetto dell'obbligazione.
Analoghe conclusioni in termini di non applicabilità a fattispecie verificatesi prima
del 01/04/2017 valgono, giusta quanto rilevato con riferimento alla mancanza
di norme transitorie, anche per la successiva L. 8 marzo 2017, n. 24. In linea
generale può richiamarsi l'orientamento oramai risalente di questa Corte, che
afferma (Cass. n. 15652 del 12/08/2004): "In mancanza di una disposizione
esplicita di retroattività della legge, l'interprete, dato il carattere eccezionale di
tale efficacia, può ricavare la "mens legis", rivolta a attuarla implicitamente,
sull'unica base della locuzione testuale della norma, solo, cioè, se il significato
letterale non sia compatibile con la normale destinazione della legge a disporre
esclusivamente per il futuro. Quando, invece, tale compatibilità sussiste,
l'interprete è tenuto a ritenere osservati e a osservare egli stesso i principi
generali sulla legge, orientando in particolare l'interpretazione al rispetto del
principio generale della irretroattività enunciato nell'art. 11 disp. gen.".
Con specifico riferimento alla materia della responsabilità civile si è affermato
(Cass. n. 13158 del 10/09/2002): "La disciplina dettata dal D.P.R. 24 maggio
1988, n. 244, in materia di responsabilità del produttore per prodotti difettosi è
priva di efficacia retroattiva, e pertanto non è applicabile ai fatti verificatisi prima
della sua entrata in vigore".
Sulla portata non retroattiva delle norme sostanziali contenute nella legge
Balduzzi (e, specularmente, in quelle di cui alla L. n. 24 del 2017) valgano le
seguenti considerazioni:
1. La questione della applicazione retroattiva della L. n. 189 del 2012 e della L.
n. 24 del 2017 ai processi in corso, ed iniziati in epoca precedente,
rispettivamente, al primo gennaio 2013 ed al primo aprile 2017, è stata
affrontata e variamente risolto da alcune sentenze di merito.
2. In favore della retroattività della normativa si è espresso il Tribunale di Milano,
con la sentenza 11.12.2018 n. 12472, mentre, nell'opposto senso della
irretroattività della norma di cui alla L. n. 24, art. 7 si sono espressi il Tribunale
di Avellino con la sentenza n. 1806 del 2017 e il Tribunale di Roma, con la
sentenza n. 18685/2017.
3. E' convincimento di questa Corte che meriti accoglimento il secondo degli
indirizzi interpretativi sopra riportati.
4. Va premesso come la questione della applicazione retroattiva della L. n. 189
del 2013 e della L. n. 24 del 2017 non possa essere esaminata unitariamente,
in quanto occorre distinguere tra disposizioni che effettivamente pongono una
questione di rapporto diacronico tra fonti (e, segnatamente, di successione di
leggi nel tempo e di natura dell'intervento legislativo) e disposizioni che si
collocano su un piano diverso.
5. Questo diverso piano riguarda, in particolare, il comma 3 della legge Balduzzi
(quand'anche se ne volesse adottare, sia pur non condivisibilmente,
un'interpretazione predicativa dell'introduzione di un principio di
extracontrattualità della responsabilità del sanitario) e dell'art. 7, i commi da 1
a 3 (prima parte) che qualificano la natura della responsabilità civile della
struttura sanitaria e di coloro dei quali la struttura stessa si avvale
nell'adempimento della propria obbligazione (ossia del personale sanitario).
6. La L. n. 24 del 2017, comma 3, prima parte, qualifica in termini di
responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell'art. 2043 c.c., la responsabilità
dell'esercente la professione sanitaria di cui ai precedenti commi 1 e 2 (ossia dei
sanitari di cui si avvale la struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica e privata),
"salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta
con il paziente"; sicchè il sanitario risponde, in quest'ultimo caso, a titolo di
responsabilità contrattuale.
7. La L. n. 24 del 2017 ha, quindi, operato in via immediata e diretta la
qualificazione giuridica dei rapporti inerenti ai titoli di responsabilità civile
riguardanti la struttura sanitaria e l'esercente la professione sanitaria, per un
verso (quello concernente la struttura) recuperando l'interpretazione fornita
dalla giurisprudenza consolidatasi nel tempo, per altro verso (quello del sanitario
operante nell'ambito della struttura, salvo l'ipotesi residuale dell'obbligazione
assunta contrattualmente da quest'ultimo), discostandosi nettamente dal "diritto
vivente", che, a far data dal 1999 (Cass. n. 589/1999), aveva qualificato come
di natura contrattuale la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria,
facendo leva sulla teorica del cd. "contatto sociale".
8. Tale operazione il legislatore ha compiuto in base alle disposizioni del codice
civile, senza che, dunque, vi sia stata alcuna successione di leggi nel tempo che
abbiano dettato, tra loro, una disciplina sostanziale (almeno in parte) differente.
9. Un siffatto rapporto successorio - e, in ogni caso, ogni altro rapporto tra fonti
aventi valore e forza di legge - è, del resto, da escludere che possa essersi
istituito con riguardo all'interpretazione consolidata della Corte di cassazione in
materia, poichè deve ritenersi jus receptum (tra le altre, Cass., S.U., n.
15144/2011, Cass. n. 174/2015, Cass., S. U., n. 27775/2018, Cass., S. U., n.
4135/2019) il principio secondo il quale il valore e la forza del "diritto vivente",
quand'anche proveniente dal giudice di vertice del plesso giurisdizionale, è
meramente dichiarativo e non si colloca sullo stesso piano della cogenza che
esprime la fonte legale (in tal senso la stessa Corte costituzionale, con la
sentenza n. 230 del 2012), alla quale il giudice è soggetto (art. 101 Cost.), tant'è
che lo stesso mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non
soggiace al principio di irretroattività, nè è assimilabile allo ius superveniens.
10. Non si pone, pertanto, nella specie, una problematica affine a quella della
successione di leggi nel tempo, perchè non v'è una successione di discipline
normative diverse dettate dal legislatore (venendo in rilievo sempre e comunque
la medesima disciplina di ordine legale, ossia quella recata dal codice civile in
tema di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale); nè - come detto è
possibile configurare un siffatto rapporto diacronico tra il "diritto vivente" e
l'intervento legislativo.
11. Il fenomeno che, nel caso in esame, si è verificato è, dunque, quello della
qualificazione, da parte del legislatore, di una classe di fatti e della loro
sussunzione in una fattispecie legale, già presente nell'ordinamento. Non, quindi,
la creazione di una fattispecie legale astratta (nel nostro caso, come detto, già
declinata dal codice civile) cui ricondurre, da parte del giudice, nell'esercizio del
potere giurisdizionale suo proprio, i fatti, onde operarne la conseguente
qualificazione.
12. Un siffatto modus operandi da parte del legislatore implica la necessità di
un'actio finium regundorum rispetto all'analogo potere qualificatorio che spetta
al giudice, e che rientra nell'alveo della riserva di giurisdizione
costituzionalmente garantita (artt. 101 e 104 Cost.), ossia quella che include
anche il potere di interpretare autonomamente non già le disposizioni di legge,
ma gli stessi fatti rilevanti per la qualificazione del rapporto giuridico (latamente
inteso).
13. La stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 76 del 2015, n. 121 del
1993 e n. 115 del 1994; meno di recente, Corte Cost. n. 51 del 1967), seppure
in una materia particolare, assistita da garanzie puntuali e diversificate, come
quella del lavoro e della previdenza sociale, ha affermato che la qualificazione
normativa di un rapporto lavorativo non può snaturarne l'oggettività ove, tramite
questa operazione, si determini l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste
dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati
dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato.
14. Ancora, la stessa Corte costituzionale si è chiaramente pronunciata in
materia di limiti imposti al legislatore ordinario nell'emanare leggi retroattive,
pur adottando, fin dal suo esordio, un atteggiamento possibilista nei riguardi
delle leggi retroattive, rimettendo l'osservanza del tradizionale principio
dell'irretroattività alla prudente valutazione del legislatore, "il quale peraltro -
salvo estrema necessità - dovrebbe a esso attenersi, essendo, sia nel diritto
pubblico che in quello privato, la certezza dei rapporti preferiti uno dei cardini
della tranquillità sociale e del vivere civile" (Corte Cost. n. 118/1957).
15. Questo orientamento si è nel tempo consolidato attraverso l'affermazione
del principio che segue: "al di fuori della materia penale (dove il divieto di
retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall'art. 25
Cost.), l'emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore
incontra una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato, e che
attengono alla salvaguardia, tra l'altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica
posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali
vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di
eguaglianza, la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale
principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni
costituzionalmente riservate al potere giudiziario" (Corte Cost. n. 69/2014, n.
308/2013, n. 257/2011, n. 74/2008).
16. A sua volta, questa Corte ha da tempo chiarito che "il principio della
irretroattività della legge comporta che la nuova norma non possa essere
applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in
vigore, a quelli sorti anteriormente ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano
gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto
o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso, sicchè la disciplina
sopravvenuta è invece applicabile ai fatti, agli "status" e alle situazioni esistenti
o venute in essere alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad
un fatto passato, quando essi, ai nuovi fini, debbano essere presi in
considerazione in se stessi, prescindendosi dal collegamento con il fatto che li
ha generati" (ex multis, Cass. n. 16039/2016 e Cass. SU, n. 2926/1967;
implicitamente nel senso dell'irretroattività della novella, di recente, Cass. n.
26517/2017).
17. Analoga efficacia paradigmatica sembra rivestire la pronuncia della Corte
EDU del 6 ottobre 2005, resa con riguardo ad una questione assimilabile a quella
della retroattività della L. n. 24 del 2017. Nel caso di specie, dopo l'approvazione
della Loi Kouchner in tema di irrisarcibilità del danno subito iure proprio dal nato
malformato, avente dichiarato effetto retroattivo, i cittadini francesi che al
momento dell'entrata in vigore della legge avevano una causa pendente,
avevano adito la Corte Europea dei diritti dell'uomo lamentando che la
limitazione ai risarcimenti imposta da tale novella legislativa violasse l'art. 1 del
Protocollo n. 1 della C.e.d.u. Per la Corte Europea, la nuova legge, che aveva
escluso e limitato la risarcibilità di alcune voci di danno, aveva privato i genitori
di un asse patrimoniale su cui essi avevano legittimamente fatto affidamento,
sulla base dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, e pertanto è stata
ritenuta lesiva dell'art. 1 suddetto.
18. In altri termini e più in generale: il legislatore può intervenire nella
qualificazione stessa di un rapporto giuridico, ma soltanto se tale esito non metta
in discussione, nel suo nucleo essenziale ed irriducibile, la tutela costituzionale
che il rapporto stesso riceva in ragione del suo carattere fenomenologico, ovvero
dei beni che esso abbia ad oggetto.
19. Nella specie, non sembra revocabile in dubbio che, anche in forza del titolo
di responsabilità ex art. 2043 c.c., non verrebbe elusa la tutela del diritto
fondamentale alla salute imposta dall'art. 32 Cost..
20. Altro piano sul quale la qualificazione legislativa di un rapporto giuridico può
interferire con la riserva di giurisdizione costituzionalmente garantita è quello
della ingerenza concreta nei singoli processi, che non è di per sè salvaguardata
dalla astrattezza della qualificazione effettuata dal legislatore - e cioè il suo
riferirsi ad una classe indeterminata di fatti.
21. Ciò premesso, sussistono plurime ragioni per escludere che la qualificazione
legislativa delle condotte determinanti la responsabilità sanitaria, operata, in
astratta ipotesi, dalla L. n. 189 del 2012, e in concreto dalla L. n. 24 del 2017,
abbia effetti retroattivi.
22. Ai sensi dell'art. 11 preleggi, la legge non ha effetto che per l'avvenire, per
cui la sua retroattività deve essere esplicitamente prevista dalla nuova legge,
ovvero deve trovare indici sicuri che ne consentano di postularla con certezza.
23. Nella specie, non vi è alcuna declaratoria di retroattività in nessuna dei due
testi legislativi in parola.
24. Si configura, viceversa, come indice inequivocabilmente contrario alla
retroattività la circostanza che un siffatto intervento legislativo verrebbe ad
interferire comunque con il potere ordinariamente riservato al giudice di
interpretare i fatti e qualificarli giuridicamente, venendo così inammissibilmente
ad incidere, seppur indirettamente, sui singoli processi in corso, con patente
lesione dell'affidamento di chi ha intrapreso un'azione giudiziaria sulla base di
regole sostanziali certe, come quelle della natura "contrattuale" della
responsabilità del sanitario - con dirompenti conseguenze sul riparto dell'onere
di prova e sulla prescrizione - applicate in base al "diritto vivente": ciò che
esclude la legittimità della sussunzione dei fatti costituenti responsabilità civile
del sanitario in termini di responsabilità extracontrattuale in epoca anteriore al
primo gennaio 2013 ed al primo aprile 2017.
25. Si configura ancora come indice contrario alla retroattività anche l'ulteriore
circostanza, correlata a quanto appena posto in rilievo, della sua incidenza
diversificata a seconda della fase e del grado in cui i singoli processi si trovano,
cosicchè, in base alla formazione o meno di preclusioni allegatorie e del giudicato
interno, dovrebbe o meno operare la qualificazione ex lege del titolo di
responsabilità, tanto da creare disparità di trattamento non solo tra i vari giudizi,
ma anche all'interno dello stesso processo, con evidenti irragionevoli riflessi sul
fisiologico esercizio della giurisdizione sulla materia.
Va, pertanto affermato il seguente principio di diritto:
Le norme sostanziali contenute nella L. n. 189 del 2012, al pari di quelle di cui
alla L. n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi
ai fatti avvenuti in epoca precedente alla loro entrata in vigore, a differenza di
quelle che, richiamando gli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni private in
punto di liquidazione del danno, sono di immediata applicazione anche ai fatti
pregressi (per tale ultimo principio, funditus, Cassazione Sez. 3, sentenza in
causa R. G. n. 05361/2017 deliberata all'udienza del 04/07/2019, depositata in
pari data della presente).
Nel caso di specie i fatti per i quali è stata ritenuta la responsabilità risarcitoria
del G. risalgono al 1992. Deve, pertanto, escludersi che essi possano ritenersi
regolati, sul piano del diritto sostanziale, dalla legge intervenuta nel 2012.
I giudici di merito hanno affermato, con accertamenti di fatto non
adeguatamente incisi dal motivo di ricorso, che: il Dott. G.N. era il medico
curante di A.V., e comunque aveva seguito la gestante durante la gravidanza ed
era a conoscenza di una minaccia di aborto già subita all'ottavo mese; il Dott.
G. prestava la sua opera professionale presso la Casa di Cura (OMISSIS), priva
di adeguate strutture mediche di neonatologia e in particolare di terapia
intensiva e rianimazione neonatale; il Dott. G. era a conoscenza della gestosi da
cui era affetta A.V. e non aveva, pur in presenza di detto quadro clinico,
sconsigliato il ricovero nella detta struttura, del tutto priva di un reparto di
terapia intensiva neonatale, con la conseguenza che sin dal giorno successivo
alla nascita il neonato dovette essere trasferito all'ospedale di L'Aquila,
adeguatamente munito di reparto di neonatologia.
L'affermazione della responsabilità del sanitario a titolo contrattuale, e più
specificamente di cd. contatto sociale risulta, pertanto logicamente ed
esaustivamente affermata dai giudici del merito.
Il primo motivo di ricorso è, pertanto, rigettato.
Il secondo mezzo verte sulla eziologia del danno.
Il mezzo è inammissibile in quanto prospetta un controllo sulla completezza della
motivazione della sentenza e in particolare sul rilievo da attribuire alla
consulenza tecnica di ufficio espletata in primo grado in ordine ad eventuali
preesistenze iatrogene sul minore (o addirittura sul feto), non concretizzandosi,
quindi, una censura di sussunzione bensì integrando un mero dissenso sulla
motivazione, scrutinabile oramai nei ristretti limiti di cui all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5 come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con
modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134.
Il motivo è altresì infondato: la Corte territoriale ha ritenuto il medico
responsabile per non avere sconsigliato il parto in struttura privata non
adeguatamente attrezzate per la neonatologia in situazione di elevato rischio per
inadeguato accrescimento del feto, già riscontrato nel novembre 1992, a fronte
di un parto avvenuto il 09/12/1992, per gestosi della partoriente ed ha rilevato
l'incompleta tenuta della cartella clinica, imputandola al Dott. G., medico curante
ed inserito nella casa di cura.
Il motivo confligge, inoltre, con il più recente orientamento di questa Corte
(Cass. n. 15859 del 12/06/2019), secondo il quale: "Nel giudizio civile di rinvio
ex art. 622 c.p.p. si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda
civile, sicchè la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione
in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole
processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente,
adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio
causale del "più probabile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di
probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente
contenute nella sentenza penale di rinvio".
Il terzo mezzo è inammissibile in quanto, pur risultando il tema della diversa
efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (e non solo di
quella dell'evento) sollevato nelle fasi di merito, seppure soltanto con evocazione
della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15991 del 21/07/2011), deve
rilevarsi che esso non incide adeguatamente la motivazione della sentenza di
appello, che ha correttamente rilevato l'incompletezza - incontestata - della
cartella clinica, imputandola al G. quale medico curante e comunque in quanto
egli aveva seguito il parto, e, non potendo individuare, a causa della detta
carenza documentale, cause patologiche concorrenti con quelle derivanti
dall'inesatta predisposizione di adeguate misure per effettuare il parto, ha
ricondotto la colpa al Dott. G. ed alla casa di cura, conformemente alla
giurisprudenza di questa Corte sul punto (Cass. n. 12218 del 12/06/2015: "In
tema di responsabilità professionale sanitaria, l'eventuale incompletezza della
cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere
presuntivamente dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato
del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale
incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico
e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente
idonea a provocare la lesione"), fermo restando che, nei rapporti interni, tra i
detti soggetti valeva la presunzione di cui all'art. 1298 c.c., comma 2.
Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Nulla per le spese di lite non risultando essersi costituita alcuna altra parte in
questo giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente,
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Si reputa opportuno disporre che in caso di utilizzazione della presente sentenza
in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche,
supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa
l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati
nella sentenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
nulla spese;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente
dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il
ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Dispone oscuramento dati identificativi e generalità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione
III civile, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019
Avv. Antonino Sugamele

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