In tema di prescrizione, in relazione ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, durante il tempo necessario all'espletamento della procedura di informativa alla persona offesa della facoltà di proporre querela, prevista dalla disciplina transitoria di cui all'art. 12, comma 2, del predetto decreto, non opera la sospensione del corso della prescrizione del reato, non potendo gravare sull'imputato l'impiego di un termine per consentire alla persona offesa di esprimersi, con la possibilità di far proseguire il processo pendente. (Dichiara inammissibile, App. Catania, 30/11/2017)
Cassazione Penale
Sez. Unite, Sent. n. 40150 del 07 settembre 2018
Svolgimento del processo
1. Ha proposto ricorso per cassazione S.S. avverso la sentenza della Corte di appello di Catania in data 30 novembre 2017 con la quale è stata parzialmente modificata quella di primo grado e, per l'effetto confermato il giudizio di responsabilità in ordine al reato di appropriazione indebita in danno di I.V. - è stato rideterminato il trattamento sanzionatorio a seguito della esclusione della contestata recidiva.
Al ricorrente, nella qualità di amministratore unico della G.A.P. s.r.l. fino all'11 aprile 2010, e di datore di lavoro di I., è stato addebitato di essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, delle somme dovute alla lavoratrice predetta a titolo di indennità di maternità, omettendo il versamento delle indennità relative ai mesi da febbraio ad agosto 2010, per un ammontare complessivo di 4.120 Euro. La contestazione include la aggravante dell'avere commesso il fatto con abuso di relazioni di prestazione d'opera, ciò che rendeva il reato, ai sensi dell'art. 646 c.p., comma 3, allora vigente, procedibile di ufficio.
In punto di fatto, come si evince dalla lettura combinata delle sentenze di merito, era rimasto accertato che il ricorrente si era reso inadempiente al dovere di versare le indennità di maternità che spettavano alla denunciante. La Corte, peraltro, individuava il soggetto creditore di tali versamenti anche nell'INPS, contestualmente affermando, in risposta ad un motivo di appello, che la contestata aggravante ex art. 61, primo comma, n. 11 c.p. doveva ritenersi configurabile nella specie, essendosi, l'imputato, avvalso dei poteri di amministratore per realizzare l'appropriazione.
2. Il difensore ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento alla attestazione che egli rivestisse il ruolo apicale di cui alla imputazione al tempo cui si riferisce la contestazione. Egli era chiamato in causa come amministratore fino al mese di aprile del 2010 sicchè la condotta appropriativa addebitatagli, formalmente contestata dalla stessa accusa come consumata da aprile ad agosto dello stesso anno, non poteva essergli attribuita e tanto meno poteva esserlo con la circostanza dell'abuso di relazioni di prestazione d'opera, non essendovi stato, tra esso ricorrente e la I., nel periodo in questione, alcun rapporto lavorativo.
Per di più egli era stato amministratore solo formale, come desumibile dalle stesse affermazioni della dipendente I. debitamente portate alla attenzione della Corte territoriale con specifici motivi di appello, trascurati dal giudice della impugnazione: la denunciante aveva detto di non conoscere l'imputato ma altri soggetti che amministravano la società, dal che si sarebbe dovuto dedurre che egli non poteva essere amministratore di fatto dopo la scadenza del mandato; inoltre non si era considerato che egli non disponeva della somma di cui alla imputazione.
In secondo luogo deduce la violazione di legge nonchè il vizio di motivazione con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto.
Invoca la giurisprudenza favorevole alla tesi secondo cui la condotta del datore di lavoro che, avendo esposto fittiziamente l'avvenuta corresponsione di somme al lavoratore a titolo di indennità per malattia o maternità o assegni familiari, ottenga dall'INPS il conguaglio di tali somme con quelle da lui dovute all'Istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e/o assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso Istituto le corrispondenti erogazioni, va inquadrata non nella cornice normativa della appropriazione indebita, ma in quella del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p. (Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, Talone, Rv. 261140).
Del reato di appropriazione indebita difetta, infatti, il requisito della "altruità" della cosa di cui l'agente dovrebbe avere acquisito il possesso prima di porre in essere la condotta appropriativa; inoltre, si tratterebbe di condotta che comporta in ipotesi la configurazione di reato in danno dell'INPS - sempre che il datore di lavoro ottenga dall'Istituto il citato conguaglio - e non del lavoratore.
D'altra parte, anche considerando i fatti con riferimento al diritto della lavoratrice alla indennità di maternità ai sensi della L. 26 marzo 2001, n. 151, in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, sostiene il ricorrente che l'esito finale del procedimento dovrebbe essere ugualmente liberatorio. Vertendosi in tema di somme che il datore di lavoro è tenuto ad anticipare per conto dell'INPS, per poi recuperarle dal capitolo delle somme dovute all'Istituto previdenziale per i contributi da versare in relazione alle posizioni dei propri dipendenti, si tratterebbe di denaro che proviene dal patrimonio dello stesso datore di lavoro. Su di esso, anche una volta maturato il diritto del lavoratore al soddisfacimento del credito, questi non acquisisce contestualmente un diritto di proprietà relativamente alla somma che invece rimane in capo al datore di lavoro, con la conseguenza che il comportamento omissivo del primo si atteggia a mera inadempienza di natura civilistica, come attestato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 1327 del 2004.
Il ricorrente fa anche notare che, essendo il diritto del lavoratore relativo, comunque, alla indennità per cinque e non per sette mesi, diversamente da quanto contestato, il vantaggio per l'imputato si risolverebbe in una ottenuta esenzione dal pagamento di contributi per importo inferiore a quello previsto dall'art. 316-ter c.p. come soglia minima per la rilevanza penale della condotta.
3. Il ricorso è stato segnalato dal Coordinatore dell'Ufficio per l'esame preliminare dei ricorsi penali al Primo Presidente, per una eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in ordine alla questione giuridica, ritenuta di particolare rilevanza, relativa all'entrata in vigore del D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, recante disposizioni di modifica della disciplina del regime di procedibilità in attuazione della delega di cui alla L. 23 giugno 2017, n. 103 (art. 1, commi 16 e 17), che ha stabilito la procedibilità a querela di alcuni reati originariamente perseguibili d'ufficio, tra cui quello contestato al ricorrente (art. 646 c.p., comma 3).
In particolare, si è evidenziato che la novella legislativa è destinata ad operare, in base alla disciplina transitoria fissata dall'art. 12 D.Lgs. cit., anche in relazione ai reati commessi prima della entrata in vigore dello stesso. Per essi è prevista una sorta di restituzione nel termine della persona offesa ai fini della proposizione della querela, termine destinato a decorrere, per la persona offesa che ha avuto già conoscenza del fatto costituente reato, dalla entrata in vigore della legge. Nel secondo comma dell'art. 12 è altresì previsto, per il caso di procedimento pendente, che, a cura del pubblico ministero o del giudice, la persona offesa sia informata del diritto di querela, con la conseguenza che in relazione a tale ipotesi, la decorrenza del termine per l'esercizio del diritto è procrastinata fino al giorno in cui tale avviso sia dato.
La rimessione alle Sezioni Unite sarebbe giustificata in primo luogo dalla necessità di chiarire se - ritenuto l'incombente configurabile anche nella sede della legittimità - l'avviso alla persona offesa debba essere dato in relazione ai ricorsi che l'Ufficio spoglio della Corte di cassazione seleziona per l'inoltro alla speciale Sezione per le inammissibilità (eccetto quelli ivi destinati per la rilevazione della già maturata prescrizione del reato) e comunque, in generale, in relazione ai ricorsi inammissibili: ricorsi ai quali la giurisprudenza consolidata della Cassazione non riconosce l'inidoneità alla costituzione di un valido rapporto processuale e che quindi reputa insensibili ad una serie di eventi processuali successivi, quali il venire a maturazione del termine di prescrizione, cui potrebbe equipararsi il diritto alla proposizione della querela introdotto dalla novella legislativa in esame. Evenienza, quest'ultima, non sovrapponibile alla rilevazione della estinzione del reato per remissione di querela, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto di far operare anche in presenza di un ricorso inammissibile per la peculiarità della disciplina che la riguarda (art. 152 c.p., comma 3). Questa, invero, ne prevede la operatività fino alla "condanna", in tal modo mostrando di individuare come termine ad quem quello della formazione del giudicato in senso formale.
In secondo luogo la rimessione alle Sezioni Unite è volta a sollecitare la soluzione della questione riguardante la possibilità o meno di far operare, per il termine trimestrale di cui la persona offesa usufruisce per la proposizione della querela, il regime di sospensione del termine della prescrizione previsto dall'art. 159 c.p..
4. Con decreto del 16 maggio 2018, il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell'art. 610 c.p.p., comma 2, l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all'odierna udienza pubblica.
5. Il Procuratore generale aggiunto, nel corso della discussione, in relazione alla questione giuridica controversa, ha sostenuto che il filo rosso della disamina debba essere quello già tracciato dalla sentenza Chiasserini in tema di rapporti tra ricorso inammissibile e remissione di querela nel senso della prevalenza degli eventi capaci di far apprezzare il venir meno o, come nel caso di specie, la sopravvenuta inesistenza della condizione di procedibilità, da considerarsi anche omologabile ad una condizione per la punibilità in ragione della portata sostanziale dei suoi effetti.
Una prevalenza rilevabile di ufficio, in ogni stato e grado del processo, ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 2.
Il requirente ha, in particolare, criticato la distinzione, di creazione giurisprudenziale, tra giudicato formale e giudicato sostanziale, sostenendo che soltanto il primo è previsto e regolato dal codice di rito nell'art. 648, con la conseguenza che se non ci si trova al cospetto del giudicato per la scadenza dei termini di presentazione del ricorso - evenienza che renderebbe il ricorso stesso addirittura "irricevibile" - o comunque di provvedimento dichiarativo della inammissibilità, la proposizione del ricorso in tutti gli altri casi rende il procedimento sensibile al fenomeno della successione delle leggi nel tempo ed in particolare alle sopravvenienze in mitius, quale deve ritenersi il sopraggiungere di una normativa che trasforma il regime di procedibilità da quello di ufficio a quello soggetto a querela di parte.
Motivi della decisione
1. Le questioni sottoposte alle Sezioni Unite sono le seguenti:
"Se, in presenza di un ricorso inammissibile, debba darsi alla persona offesa l'avviso previsto dal D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela";
"Se durante i novanta giorni decorrenti dall'avviso dato alla persona offesa, ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. cit., operi la sospensione del termine di prescrizione".
2. Deve darsi atto, preliminarmente alla disamina delle questioni sottoposte alle Sezioni Unite, della inammissibilità del ricorso proposto, in quanto fondato su ragioni diverse da quelle che possono essere sottoposte al giudice della legittimità. Con l'effetto che la prescrizione riguardante potenzialmente talune delle condotte contestate in continuazione, non è maturata dopo la sentenza di appello, poichè il ricorso inammissibile non genera una utile fase processuale ai fini del perfezionarsi della causa estintiva, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).
2.1. Con il primo motivo, infatti, il ricorrente contrappone, alla motivazione esibita dalla Corte di appello, una nuova questione di fatto, la cui decisività non è apprezzabile da questa Corte, trascurando essa i rilievi che invece la Corte di merito ha ritenuto fondanti dell'intero suo ragionamento: si è sostenuto che il S. non potesse essere chiamato a rispondere della condotta omissiva addebitatagli in qualità di amministratore della società, essendo il suo mandato formalmente cessato prima della consumazione delle inadempienze di rilevanza penale. Tale evenienza sarebbe deducibile dalla stessa formulazione del capo di imputazione che pone in evidenza come egli sia stato rappresentante legale della società, alle cui dipendenze lavorava la persona offesa, fino all'11 aprile 2010, mentre le inadempienze relative alle indennità non versate sarebbero riferibili ad epoca successiva.
Si deve sottolineare che, invece, proprio il capo di imputazione fa riferimento anche ad indennità concernente mensilità precedenti ad aprile, sicchè va rilevato che l'addebito delle condotte è avvenuto, nella sentenza di primo grado, sulla base del rilievo che il ricorrente fosse amministratore, dunque anche di fatto, della società.
L' affermazione risulta genericamente contestata nei motivi di appello con il rilievo che l'imputato esercitasse i propri poteri soltanto in modo apparente, sotto le direttive dei reali "domini", tali D.G. e P. poichè solo costoro, a dire della persona offesa, sarebbero stati i soggetti con i quali essa aveva avuto rapporti lavorativi.
Il tema introdotto dall'allora appellante era stato, cioè, soltanto quello dell'essere stato amministratore "apparente", che è questione diversa da quella posta per la prima volta nel ricorso, dell'essere stato egli, invece, amministratore non apparente, ma solo fino ad una certa data: una prospettiva, la prima, che la Corte di appello aveva già adeguatamente disconosciuto osservando, con considerazioni di fatto non manifestamente illogiche, che, al contrario, dalla documentazione acquisita, compresa quella in possesso dell'INPS, e dalle stesse dichiarazioni della persona offesa, era emerso che questa conoscesse l'imputato e il ruolo apicale da quello effettivamente svolto all'interno della società, ruolo che aveva comportato, in capo al medesimo ricorrente, la perfetta consapevolezza del debito creato nei confronti dell'INPS con riferimento alla posizione della I. a partire da febbraio 2010 ed anche successivamente.
2.2. Il secondo motivo è inammissibile in parte per difetto di interesse e in altra parte perchè precluso.
All'imputato è addebitato il reato di appropriazione indebita in danno della dipendente, relativamente all'omesso versamento ad essa delle indennità dovute per maternità, mentre egli invoca, deducendo violazione di legge, la riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 316-ter c.p..
Va in primo luogo evidenziata la insussistenza del profilo di interesse dallo stesso evocato a sostegno di tale richiesta, interesse collegato alla ulteriore richiesta di constatare il mancato raggiungimento della soglia di punibilità prevista dal secondo comma dell'articolo citato.
Una simile evenienza presupporrebbe tuttavia la delimitazione della condotta omissiva ad un numero di indennità non versate inferiore a quelle indicate nel capo di imputazione, e cioè ad una conclusione non supportata da alcuna univoca allegazione in fatto agevolmente apprezzabile da questa Corte di legittimità e soprattutto in contrasto con la narrazione del capo di imputazione.
La riqualificazione è poi improponibile nel caso di specie posto che tra il reato contestato e quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato vi sarebbe non una mutazione del paradigma giuridico ma la configurazione di un fatto nuovo, con conseguente necessaria investitura del pubblico ministero, come disposto dall'art. 518 c.p.p..
Basta osservare, al riguardo che il reato di cui all'art. 316-ter c.p. vedrebbe come persona offesa una pubblica amministrazione, l'I.N.P.S., ossia l'ente pubblico che sarebbe coinvolto nella concessione di erogazioni a causa della presentazione, ad opera del datore di lavoro, di dichiarazioni non vere; al contrario, il reato contestato nella specie è quello di appropriazione indebita in danno della lavoratrice.
Tale marcata differenziazione si comprende osservando che la giurisprudenza sull'art. 316-ter si riferisce alla condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, quale anticipazione effettuata per conto dell'I.N.P.S., ottiene dall'ente pubblico il conguaglio degli importi fittiziamente indicati con quelli da lui dovuti al medesimo istituto a titolo di contributi previdenziali e assistenziali (Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, Talone, Rv. 261140).
Come bene precisato in motivazione da Sez. 2, n. 18762 del 15/01/2013, Meloni, Rv 255194, nei modelli DM 10 (prospetti con i quali mensilmente il datore di lavoro denuncia all'I.N.P.S. le retribuzioni mensili corrisposte ai dipendenti, i contributi dovuti e l'eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell'ente, delle agevolazioni e degli sgravi; il versamento dei contributi dovuti sulla base dei dati indicati sul modello DM 10 viene invece effettuato con il modello F24) la falsa rappresentazione può riguardare l'anticipazione delle relative somme al lavoratore.
Le somme dovute per assegni familiari e indennità di malattia in favore del lavoratore costituiscono infatti un debito dell'I.N.P.S. e non del datore di lavoro che, in forza del D.L. n. 633 del 1979, art. 1, è tenuto ad anticiparle salvo conguaglio.
Allorchè la discordanza tra la situazione rappresentata all'I.N.P.S. e quella reale riguardi solo l'effettiva erogazione di somme che l'ente previdenziale è tenuto a corrispondere al lavoratore tramite il datore di lavoro e quest'ultimo sostanzialmente riconosca il suo obbligo di corrisponderle, pur non avendole di fatto, ancora, corrisposte, nei confronti dell'ente previdenziale, il datore di lavoro realizza - o, quanto meno, pone in essere atti idonei a realizzare - l'ingiusto profitto del conguaglio delle prestazioni che assume di aver anticipato, con conseguente possibile contestazione ad esso del reato di cui all'articolo citato ovvero, secondo altri approdi, di quello di truffa o di appropriazione indebita in danno dell'ente.
La prospettiva muta radicalmente con riferimento alla qualificazione della condotta sopra descritta in relazione al lavoratore, non venendo in considerazione, direttamente, sotto tale profilo il conseguimento di proventi in danno dell'ente erogatore.
La disamina della condotta del datore di lavoro, in questo caso, apre effettivamente lo scenario della contestabilità del reato di appropriazione indebita in contrapposizione a quello della inesistenza di qualsiasi reato, come sostenuto nel ricorso evocando la sentenza Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 2005, Li Calzi, Rv. 229634, seguita da Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, Rv. 250974. Queste hanno infatti posto in evidenza la difficoltà di ravvisare il requisito della "altruità" della cosa di cui all'art. 646 c.p. in relazione al puro e semplice inadempimento, da parte del datore di lavoro, di obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo.
Uno scenario che tuttavia sarebbe condizionato dall'accertamento della condotta antecedente tenuta dal datore di lavoro nei confronti dell'INPS posto che, come ancora affermato nella sentenza Meloni, ben può configurarsi il reato di appropriazione indebita nei confronti del lavoratore da parte del datore di lavoro che trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio in relazione a prestazioni di cui si è sostanzialmente riconosciuto debitore per conto dell'ente previdenziale e corrispondenti a somme di denaro determinate nel loro ammontare e già fatte figurare come erogate al lavoratore.
La necessità di accertamento della eventuale insussistenza di una o più di tali circostanze - a fronte del silenzio sul punto nella sentenza impugnata - rende evidente come la questione della qualificazione giuridica o comunque della azionabilità dell'art. 129 c.p.p. non possa essere proposta per la prima volta alla Corte di cassazione, tantomeno nei termini assolutamente generici in concreto utilizzati.
Se è vero, infatti, che la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel novero di quelle su cui la Corte di cassazione può decidere ex art. 609 c.p.p., comma 2, è anche vero che può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto di fatto (ex plurimis, Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, Rossi, Rv. 259730).
3. La rilevata inammissibilità del ricorso rende rilevante la prima questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite.
Atteso, cioè, che il procedimento in esame ha ad oggetto un reato l'appropriazione indebita aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., comma 1, n. 11, - che, originariamente previsto nel codice come procedibile di ufficio, è divenuto, assieme ad altri, procedibile a querela della persona offesa per effetto del D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, entrato in vigore il 9 maggio successivo, si pone il problema di definire l'impatto di tale innovazione sui reati commessi antecedentemente, per i quali sia già iniziato il procedimento.
Più in particolare, non essendo oggetto di contrasto, come si vedrà, che la disciplina si applichi retroattivamente per effetto della normativa transitoria e che riguardi anche il giudizio di legittimità, il dubbio si concentra sulla eventuale rilevanza di limiti alla operatività della detta norma transitoria in relazione a procedimenti per i quali sia stato presentato ricorso per cassazione inammissibile.
3.1. Per quanto concerne, in generale, la applicazione del nuovo regime di procedibilità a querela, è sufficiente qui osservare che:
- come si evince dalla Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, il legislatore della delega ha voluto un ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela per migliorare l'efficienza del sistema penale, condizionando la repressione penale di un fatto, astrattamente offensivo, alla valutazione in concreto ed alla sovranità della persona offesa;
- analogamente a quanto disposto con gli ultimi interventi sistematici operati nella medesima direzione con la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 99 e, successivamente, con la L. 25 giugno 1999, n. 205, art. 19 (recante delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario), è stata predisposta una disciplina transitoria (art. 12) per regolare le modalità con le quali, in relazione ai reati per i quali è mutato regime di procedibilità, la persona offesa viene messa nelle condizioni di valutare l'opportunità di esercitare nei termini il diritto di formulare l'atto propulsivo;
- tale disciplina transitoria è operativa anche in riferimento ai procedimenti pendenti in Cassazione, come si desume dal fatto che la originaria previsione, contenuta nello schema di decreto legislativo (art. 14), di escludere che la trasformazione del regime di procedibilità operasse nel giudizio di legittimità, è stata espunta, su sollecitazione della Commissione Giustizia del Senato, per il profilarsi di un eccesso di delega e, ancor più, come evidenziato anche dalla dottrina a posteriori, di situazioni di ingiustificata disparità di trattamento;
- la disciplina transitoria contenuta nell'art. 12 cit. va interpretata secondo i principi già indicati da Sez. U, n. 5540 del 17/04/1982, Corapi, Rv. 154076 in relazione alla corrispondente norma, formulata in termini sovrapponibili, nel contesto della L. 24 novembre 1981, n. 689 (art. 99), principi dai quali non vi è motivo di scostarsi. Hanno cioè affermato le Sezioni Unite che l'art. 99 è da interpretare nel senso che per i reati commessi prima del giorno di entrata in vigore dell'anzidetta legge e divenuti perseguibili a querela, il termine di proponibilità della querela stessa decorre, ove il procedimento non sia pendente, da detto giorno allorchè la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto mentre, in caso di pendenza del procedimento, dal giorno in cui quella persona sia stata informata dall'autorità giudiziaria, ancorchè abbia già avuto notizia del fatto costituente reato; e ciò perchè la circostanza che discrimina la previsione del secondo comma rispetto a quella del comma 1 della citata disposizione dell'art. 99 è costituita dalla pendenza del procedimento e non dalla conoscenza del fatto costituente reato da parte della persona offesa. Il correttivo del secondo comma dell'art. 99 alla regola posta nel primo comma della stessa norma è da spiegare con l'intento di impedire che i procedimenti promossi per reati originariamente perseguibili di ufficio possano chiudersi con una sentenza di proscioglimento per mancanza di querela sulla base della "fictio legis" e non già a seguito di una formale informativa rivolta dal giudice alla persona offesa in ordine alla facoltà di esercizio della privata doglianza. In senso conforme, con riferimento alla L. n. 205 del 1999, art. 19, Sez. 5, n. 3780 del 6/07/2000, Giordo, Rv. 216730.
3.2. Tutto ciò osservato, deve tornarsi alla questione premessa e cioè se l'informativa alla persona offesa debba essere data, nel giudizio di legittimità, in ogni caso e, in particolare, anche quando il ricorso sia inammissibile.
E' di tutta evidenza che, più in generale, come già condivisibilmente posto in evidenza nella sentenza Corapi, onde evitare conseguenze aberranti derivanti da una interpretazione formalistica della norma transitoria, l'avviso alla persona offesa non debba essere dato quando risulti dagli atti che il diritto di querela sia già stato formalmente esercitato; che l'offeso abbia, in qualsiasi atto del procedimento, manifestato la volontà di instare per la punizione dell'imputato; che l'offeso abbia rinunciato al diritto di querela in modo espresso o tacito ai sensi dell'art. 124, c.p.; che il diritto di querela sia estinto a norma dell'art. 126 c.p.; che sia intervenuta remissione della querela; che la persona offesa non sia stata identificata ovvero risulti irreperibile. Nelle indicate situazioni deve essere immediatamente dichiarata l'improcedibilità dell'azione penale per mancanza o per remissione di querela.
Nel solco di tale giurisprudenza vale la pena ricordare Sez. 5, n. 43478 del 19/10/2001, Cosenza, Rv. 220259, secondo cui la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione; ne consegue che tale volontà può essere riconosciuta anche nell'atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonchè nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (cfr., Sez. 2, n. 19077 del 03/05/2011, Maglia, Rv. 250318; Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013, dep. 2014, Anzalone, Rv. 260557; Sez. 5, n. 21359 del 16/10/2015, dep. 2016, Giammatteo, Rv. 267138; Sez. 5, n. 29205 del 16/02/2016, Rahul Jetrenda, Rv. 267619).
3.3. Va poi considerata la questione del se l'avviso di cui alla predetta disposizione debba essere fatto anche nel caso in cui per il reato divenuto perseguibile a querela sia già intervenuta una causa di estinzione, quale la prescrizione o la morte dell'imputato.
Ancora una volta i condivisibili principi espressi dalla sentenza Corapi vanno qui richiamati. Essi sono nel senso che la maturata causa di estinzione non possa essere recessiva rispetto alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa atteso che, valutato il problema dal punto di vista di quest'ultima, una volta esercitato il diritto di querela, il procedimento è comunque destinato a concludersi con una declaratoria di estinzione del reato; valutato il problema dal punto di vista dell'imputato, non può prescindersi dal rilevare che nel caso di solo "potenziale" e non anche "attuale" sussistenza di una causa di impromuovibilità o di improseguibilità dell'azione penale e di una causa di estinzione del reato, quest'ultima è destinata ad operare con immediatezza come disposto dall'art. 129 c.p.p., comma 1, in quanto è sottratto al giudice il potere di esaminare e di decidere ogni altra questione relativa all'azione penale.
3.4. Tutte le situazioni fin qui ricordate, ostative all'insorgere del dovere del pubblico ministero o del giudice di informare la persona offesa, necessitano di un puntuale vaglio che non può che essere demandato al pubblico ministero ovvero al giudice che procede (con riguardo al giudizio di legittimità tale vaglio non può certo spettare al singolo magistrato addetto allo spoglio preliminare dei ricorsi, trattandosi di una determinazione che deve assumere il collegio).
4. Anche la inammissibilità del ricorso deve ritenersi ostativa alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa.
4.1. In tale prospettiva occorre in primo luogo evidenziare che la inammissibilità dovuta a tardività del ricorso per la sua intempestiva presentazione costituisce una ipotesi di indiscussa ostatività alla rilevazione di cause di non punibilità o improcedibilità.
Come anche di recente ribadito da Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106-8 - nella quale, oltre al richiamo della immediatamente precedente Sez. U, n. 33040 del 2015, Jazouli, si rinviene un efficace panorama della giurisprudenza omologa delle Sezioni Unite sul tema - il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del ricorso determina, secondo la lettera dell'art. 648, secondo comma, cod. proc. pen, il formarsi del giudicato formale ed il ricorso presentato con le dette modalità non è altro che un "simulacro di gravame" sicchè il provvedimento giudiziale di inammissibilità che ne consegue, per la sua natura dichiarativa, non fa altro che rimuoverlo dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine. Ben può affermarsi che ci si trova in presenza di un atto inidoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione ed alla instaurazione di un valido rapporto processuale.
Il ricorso inammissibile per tardività, dunque, non ritenuto idoneo a far rilevare la illegalità della pena neppure se derivante da una declaratoria di illegittimità costituzionale, a maggior ragione va considerato inidoneo a dar vita alla fase nella quale dovrebbe avere luogo la attività complessa volta alla verifica delle condizioni per la declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela.
4.2. Conduce alle medesime conclusioni l'inammissibilità per cause diverse che è anche l'ipotesi di immediato interesse per il ricorso in esame.
Una tradizione assolutamente coerente e lineare della giurisprudenza delle Sezioni Unite, utile a costruire una nuova dogmatica del rapporto tra presentazione di ricorso inammissibile e obbligo di immediata rilevazione delle cause di non punibilità, si è consolidata nella vigenza dell'attuale codice di rito, facendo leva sulla nuova ed istantanea modalità di presentazione del ricorso regolata dall'art. 581 c.p.p., con la soppressione cioè dello iato possibile tra presentazione dell'atto e illustrazione dei motivi a sostegno.
A partire da Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903, per poi proseguire con Sez. U, n. 11493 del 26/06/1998, Verga, Rv. 211469, e Sez. U, n. 30 del 30 giugno 1999, Piepoli, Rv. 213981, nonchè Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 e Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; concludendo da ultimo con Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164 e Sez. U, n. 12602, 17/11/2015, Ricci, Rv. 266818, la giurisprudenza di legittimità si è mossa nel solco di una ricostruzione della categoria della inammissibilità del ricorso - nell'ottica dei rapporti di questa con l'obbligo del giudice di rilevare in ogni stato e grado del processo le cause di non punibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p. - svincolata dallo schema delineato dall'art. 648 c.p.p.: uno schema, quest'ultimo, reputato idoneo soltanto a regolamentare il giudicato formale per dare avvio alla fase esecutiva.
La giurisprudenza cui ci si richiama fà leva sulle norme che regolano le impugnazioni ed in particolare sugli artt. 581 e 591 c.p.p., art. 606 c.p.p., comma 3, - nei quali sono elencate le diverse tipologie di cause di inammissibilità, da considerarsi unitariamente - ritenendole capaci di supportare, tutte allo stesso modo, una pronuncia soltanto dichiarativa, con effetti esclusivamente processuali: quelle cause, in ragione della loro essenza che attiene sempre geneticamente all'atto, impediscono il passaggio alla fase successiva dell'impugnazione.
La rigorosa tipizzazione delle modalità di ingresso nel giudizio di legittimità ha indotto a ritenere - nelle prime sentenze distinguendo fra le cause originarie e quelle sopravvenute di inammissibilità e poi progressivamente superando tale distinzione, fatta eccezione per la "rinuncia" che rimane da ascriversi alla seconda delle dette categorie ed è direttamente finalizzata alla formazione del giudicato formale - che la pronuncia di inammissibilità ha sempre natura dichiarativa ed è meramente ricognitiva della mancata instaurazione del giudizio di cassazione poichè rileva un vizio che affligge geneticamente l'atto.
Tale constatazione si compendia nella rilevazione che la proposizione di un atto di impugnazione non consentito dà luogo alla formazione di un giudicato che attende di essere formalizzato con le modalità previste dall'art. 648 c.p.p. e, per distinguersi da questo, viene definito "sostanziale" ma che, ciò nondimeno, produce l'effetto di rendere giuridicamente indifferenti fatti processuali come l'integrazione di cause di non punibilità precedentemente non rilevate perchè non dedotte oppure integrate successivamente al giudicato stesso.
4.3. E' fatta eccezione per cause di non punibilità rigorosamente individuate quali l'abolito criminis o la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, che producono effetto ex tunc, travolgendo anche il giudicato formale (v. Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale; più di recente Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera), alle quali vanno aggiunte l'ipotesi dell'estinzione del reato per morte dell'imputato, quella delle modifiche normative sopravvenute in termini di attenuazione della pena -Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111, che ha inquadrato il motivo come "costituzionalmente imposto" ex art. 1 c.p., art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., comma 1, nonchè 7 p. 1, CEDU, essendo stata anche preceduta dalla sentenza Sez. U, 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, che aveva ammesso la superabilità del giudicato quando interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio - e, come si vedrà, quella ulteriore della estinzione per remissione di querela, perfezionatasi in pendenza del ricorso per cassazione.
Va da ultimo annoverata, nella medesima prospettiva, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., che le Sezioni Unite (n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593) hanno ritenuto rilevabile anche in presenza di ricorso inammissibile rimarcandone la capacità di operare come una depenalizzazione in concreto (Sez. U, n. 53683 del 22/06/2017, Pmp, Rv. 271587), pure dovendosi sottolineare la dissimetria, rispetto alle decisioni precedenti, della interpretazione che ha disancorato tale eccezionale attitudine, dalla capacità di determinare la revoca del giudicato.
4.4. Altrimenti detto, come bene chiarito dalla sentenza delle Sezioni Unite Ricci, non è l'art. 648 c.p.p. la norma che disciplina le impugnazioni inammissibili e tantomeno i poteri che il giudice può esercitare nella fase di cognizione a fronte di un ricorso inammissibile.
Sicchè, si riesce a contestualizzare, in riferimento a tale valutazione, il disposto dell'art. 129 c.p.p. che, nel rendere doveroso per il giudice rilevare in ogni stato e grado del processo una eventuale causa di non punibilità, pure coordinato con l'art. 609 c.p.p., comma 2, sui poteri di ufficio della Corte di cassazione, non pone una regola in contrasto con quanto qui affermato bensì un precetto che in tanto si rende operativo, in quanto abbia avuto esito positivo il previo scrutinio sulla ammissibilità dell'impugnazione: uno scrutinio che deve coniugarsi col principio dispositivo delle impugnazioni. Cioè quello che consente l'introduzione del giudizio di impugnazione esclusivamente nei limiti concretamente individuati dalle parti e nel necessario rispetto delle regole poste dal codice.
Tanto più, il ricorso inammissibile preclude di procedere all'iter complesso previsto dal legislatore del 2018 per la eventuale realizzazione delle condizioni di procedibilità del reato, a querela di parte.
La sentenza Ricci, ponendosi nel solco di Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529, efficacemente ribadisce che l'art. 129 c.p.p. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l'epilogo del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che presuppone il pieno esercizio della giurisdizione. Non riveste, cioè, per quanto qui interessa, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).
4.5. E', in definitiva, da escludersi che, in presenza di ricorso inammissibile e senza che si apprezzi alcuna novità normativa o sistematica atta a riaprire il dibattito sulla eventuale distinguibilità fra cause di ontologica invalidità del ricorso (come nel caso di atto non sottoscritto o presentato da soggetto non legittimato) e cause che richiedano un meno evidente apprezzamento da parte del giudice (come nel caso di manifesta infondatezza dei motivi) - possa affermarsi, nell'ottica dell'attivazione della disciplina transitoria posta dal citato art. 12, che, alle condizioni suddette, il procedimento sia "pendente".
E tale affermazione non è neppure in contrasto con i diritti fondamentali sul giusto processo garantiti dalla CEDU, se si considera che, come sottolineato anche dalla sentenza Ricci, è la parte interessata ad essere onerata di attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l'equità o la razionalità del processo.
5. E' anche da escludere che la sopravvenienza della procedibilità a querela e, ancor prima, la procedura finalizzata all'eventuale accertamento della improcedibilità per mancanza di querela a seguito dell'esito negativo della informativa data alla persona offesa, possano essere ritenute idonee ad operare come una ipotesi di abolitio criminis (e finalizzazione all'accertamento di aboliti criminis), capace di prevalere sulla inammissibilità del ricorso.
La sopravvenuta eventualità della improcedibilità, dovuta all'abbandono del regime di perseguimento di ufficio del reato, non opera infatti come la richiamata ipotesi abrogativa la quale è destinata ad essere rilevata anche in sede esecutiva mediante la revoca della sentenza ai sensi dell'art. 673 c.p.p. e per tale ragione - essenzialmente di economia processuale - è stata ritenuta dalla giurisprudenza apprezzabile anche in fase di cognizione ed in presenza di ricorso inammissibile.
E' invero da escludere che il giudice dell'esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità. Ed anche nel giudizio di legittimità, la mancanza di tale condizione viene comunemente trattata come una questione di fatto, soggetta alle regole della autosufficienza del ricorso (Sez. 6, n. 44774 del 08/10/2015, Raggi, Rv. 265343) ed ai limiti dei poteri di accertamento della Cassazione (Sez. 3, n. 39188 del 14/10/2010, S., Rv. 248568), sicchè non può dirsi che la declaratoria di inammissibilità del ricorso sia destinata ad essere messa in crisi da una ipotetica, incondizionata necessità di verifica dello stato della condizione di procedibilità come richiesta dalla normativa subentrata.
Va sottolineato che la querela, per come disciplinata nel vigente codice di rito, che le ha riservato una collocazione sistematica di univoca significatività nel Titolo III del Libro V, tra le condizioni di procedibilità, presenta una vocazione essenzialmente processuale, vocazione che risulta più accentuata che in passato.
I tratti che sul piano dogmatico la caratterizzano non sono però univoci, come messo in evidenza dalla giurisprudenza penale, che non ne sottovaluta anche la attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato; infatti, a differenza della giurisprudenza civile (cfr., Sez. U, n. 27337 del 18 novembre 2008, Rv. 605537 - 01, che nega alla querela la idoneità a definire il tipo di illecito) e della prevalente dottrina, la giurisprudenza penale ne sottolinea, in continuità col passato, anche un profilo sostanziale, così aderendo alla c.d. teoria "mista".
In virtù di tale polimorfismo, le questioni sulla verifica della querela di cui è sopraggiunta la necessità per effetto di successione di leggi nel tempo, ed in assenza di disciplina transitoria, non vengono trattate in base al principio del tempus regit actum.
Non vengono neppure trattate, per converso - non richiedendolo neppure i sostenitori della natura prevalentemente sostanziale dell'istituto - come riguardanti un elemento essenziale del reato, un elemento, cioè, che concorra all'esistenza stessa del reato, in mancanza del quale, stante la sopravvenuta sostituzione del precedente regime giuridico di procedibilità di ufficio, possa venire in considerazione la previsione dell'art. 2 c.p., comma 2, tale da comportare il travolgimento anche del giudicato formale e, a maggior ragione, la inammissibilità del ricorso.
La giurisprudenza, piuttosto, non dissimilmente, in questo, dalla dottrina, ha accreditato la querela come istituto da assimilare a quelli che entrano a comporre il quadro per la determinazione dell'an e del quomodo di applicazione del precetto, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4, (v., in tema di procedibilità d'ufficio per i reati di violenza sessuale, Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 e Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188; in tema di procedibilità a querela introdotta per il reato di cui all'art. 642 c.p., Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabrò, Rv. 241862), giungendo per via interpretativa, quando non vi ha provveduto il legislatore con una specifica norma transitoria, alla conclusione della applicazione retroattiva dei soli mutamenti favorevoli (sostituzione del regime della procedibilità di ufficio con quello della procedibilità a querela), senza che possa valere la regola della cedevolezza del giudicato.
Nel caso che ci occupa, la disciplina transitoria del D.Lgs. n. 36 del 2018, art. 12 ha regolato positivamente la retroattività del nuovo regime di procedibilità e le condizioni alle quali esso opera, senza peraltro che dalla norma stessa o dalla disciplina codicistica dei mutamenti normativi favorevoli diversi dalla abolitio criminis possano trarsi argomenti per sostenere che le innovazioni che introducono la procedibilità a querela, nel rapporto con il ricorso inammissibile, non sarebbero da uniformare al trattamento riservato, in base alla giurisprudenza assolutamente prevalente, ai mutamenti favorevoli in tema, in generale, di cause di non punibilità ed in particolare di cause estintive del reato, aventi natura più marcatamente sostanziale: retroattività, col limite della presentazione di ricorso inammissibile.
6. Non osta a tale conclusione neppure il principio enunciato dalla sentenza Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681, incentrata sulla "remissione di querela" che sia intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e sia stata ritualmente accettata: in relazione ad essa ha affermato che, nel determinare l'estinzione del reato, prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, sempre che il ricorso sia stato tempestivamente proposto.
La affermazione prende le mosse da un inquadramento della remissione della querela non tanto come istituto sostanziale e per questo assimilabile alle altre cause di estinzione del reato, quanto piuttosto in ragione della sua capacità di differenziarsi dalle dette altre cause di estinzione per la caratteristica che essa presenta non solo di estinguere il diritto punitivo dello Stato, ma di paralizzare la perseguibilità stessa del reato: con la conseguenza della massima estensione da attribuire al termine ultimo per la sua rilevazione, secondo il disposto dell'art. 152 c.p., comma 3, e cioè fino alla condanna irrevocabile in senso formale, che è evenienza processuale sicuramente posteriore e indipendente dal fatto in sè della presentazione di un ricorso inammissibile e utile ai fini in esame, salvo il caso della inammissibilità per tardività.
La stessa sentenza Chiasserini non manca però di rilevare, in primo luogo, che in caso non di remissione, ma di "mancanza" di una condizione di procedibilità, la problematica appare "davvero non coincidente" non fosse altro, si aggiunge qui, perchè il tempo per la relativa rilevazione, sia secondo il disposto dell'art. 129 c.p.p., comma 1, sia secondo quello dell'art. 609 c.p.p., comma 2, per l'esercizio dei poteri officiosi, sia, soprattutto, secondo la norma transitoria dell'art. 12 cit., è, per la rilevazione tanto della mancanza originaria quanto di quella sopravvenuta, quello della pendenza di un "processo", preclusa, per quanto sopra osservato, dalla presentazione di ricorso inammissibile, che deve ritenersi quindi idonea a determinare il giudicato sostanziale.
Ma soprattutto perchè il confine ampliato per la rilevazione della remissione di querela, su un terreno che privilegia il dato cronologico (fino alla condanna irrevocabile e cioè al giudicato formale) su quello dei rapporti processuali validi, in linea generale, per le altre cause di non punibilità (pendenza del processo in ragione della presentazione di un ricorso ammissibile, e quindi mancata formazione del giudicato sostanziale) può valere per registrare gli effetti dell'esercizio (extra-processuale) del diritto potestativo della persona offesa a far cadere la già espressa manifestazione di volontà negoziale; viceversa, non trattandosi qui della constatazione diretta della mancanza di querela, ma dell'espletamento di un procedimento incidentale a effetto eventuale, quale quello a tutela della persona offesa, volto a verificarne la volontà nell'ottica della presentazione della querela ai sensi del D.Lgs. n. 36 del 2018, art. 12, non può non rilevarsene la inidoneità ad essere assimilato al caso precedente e a beneficiare degli stessi ambiti di operatività.
Infatti, - fermo il fatto che una volontà espressa in senso affermativo dalla persona offesa nulla apporterebbe all'interesse dell'imputato al proscioglimento in caso invece di esito negativo, a fronte pure di un prolungamento sine die dei tempi processuali, si consentirebbe il consolidarsi di una condizione di improcedibilità con impropri effetti sananti delle inammissibilità che affliggevano il ricorso proposto.
7. Deve pertanto essere affermato il seguente principio di diritto:
"In presenza di un ricorso inammissibile non deve darsi alla persona offesa l'avviso previsto dal D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, art. 12, comma 2, per l'eventuale esercizio del diritto di querela".
8. Viene ora in considerazione il secondo quesito sottoposto alle Sezioni Unite, relativo - con riferimento ai casi in cui, invece, la procedura per la informativa alla persona offesa debba essere espletata - alla possibilità o meno che per tutto il periodo interessato operi la sospensione del termine di prescrizione.
Anche a tale quesito va data risposta negativa.
8.1. La norma codicistica che regola la sospensione del corso della prescrizione, l'art. 159 c.p., lo fa in relazione ad una casistica molto dettagliata e di stretta interpretazione, andando ad incidere sul diritto dell'imputato di vedere definito il processo in tempi ragionevoli e, in caso contrario, di vedere riconosciuta la cessazione dell'interesse dello Stato all'accertamento della responsabilità e alla punizione.
La norma generale è quella contenuta nel primo comma dell'articolo citato ove la sospensione della prescrizione viene agganciata, quale corollario, a tutti i casi in cui, ancor prima, "una particolare disposizione di legge" abbia imposto la sospensione del procedimento o del processo.
Non basta, cioè, che la legge extra-codice preveda o meglio imponga una determinata attività processuale a carico della autorità giudiziaria con riferimento ai processi in corso, per inferirsene che tale previsione comporti, di per sè, la sospensione della prescrizione. E' richiesto, piuttosto, che il legislatore abbia previsto, unitamente a quella, la sospensione del procedimento o del processo.
8.2. E nella specie non lo ha fatto, serbando un silenzio che non risulta per nulla equivoco se si analizza unitariamente la volontà del legislatore delegante del 2017.
Invero, la procedibilità a querela prevista con il D.Lgs. n. 36 del 2018 trae origine dalla L. Delega n. 103 del 2017 comprensiva, assieme al progetto di normativa che qui direttamente interessa (art. 1, comma 16 della legge delega), del novello istituto della messa alla prova, inserito nel codice penale con l'art. 162-ter (art. 1, comma 2, legge cit.): ebbene, in riferimento a questo ed agli incombenti che presuppone a carico dell'interessato nel comma 3, è espressamente prevista, nel comma 4, la obbligatoria sospensione del processo (il cui progredire sarebbe del tutto irragionevole nel caso dell'accoglimento della domanda) e della prescrizione.
La scelta da ultimo menzionata evidenzia la appropriatezza, al caso che ci occupa direttamente, del brocardo "ubi lex voluit, dixit".
D'altra parte, non potrebbe sostenersi neppure la eventualità che il legislatore abbia sottinteso una sospensione di fatto del procedimento o del processo ai fini della operatività della disposizione transitoria, se si considera che nella stragrande maggioranza dei casi e cioè in quelli relativi alla operatività durante le indagini preliminari e il processo di merito, l'avvio delle attività per la identificazione e la informazione della persona offesa è compatibile con le altre ordinarie scansioni del procedimento o del processo, delle quali non può dirsi, dunque che "devono" essere sospese.
Deve anche evidenziarsi, nella medesima prospettiva, che gli avvisi e le interlocuzioni con le parti e i protagonisti del rito rientrano nella ordinaria dinamica processuale e non sono causa di aggravi a carico dell'imputato, come ad esempio dimostra la costante giurisprudenza in tema di citazione del responsabile civile, la quale esclude la sospendibilità della prescrizione (ex multis, Sez. 4, Sentenza n. 47287 del 09/10/2014, Brandoli, Rv. 261070; Sez. 4, Sentenza n. 9224 del 29/01/2002, Bianco, Rv. 220986).
L'imputato, oltretutto, in relazione all'avviso di cui alla disciplina transitoria in esame, è soggetto beneficiario solo in via secondaria ed eventuale rispetto alla persona offesa. Il legislatore del 2018 non si è infatti limitato ad introdurre la causa di procedibilità anteriormente non prevista, con l'effetto di avviare tutti i processi pendenti al proscioglimento per mancanza sopravvenuta della querela e della conseguente procedibilità. Al contrario, volendo tutelare in primo luogo la persona offesa, ha disegnato un meccanismo di restituzione nel termine senza finzioni legali, con l'avviso ad ogni singolo interessato.
Ne consegue che l'impiego di un termine per l'informativa alla persona offesa e per consentirle di esprimersi nel trimestre successivo, con la possibilità di far proseguire il processo pendente, non può gravare sull'imputato, sterilizzando sine die il corso della prescrizione, con una interpretazione analogica in malam partem dell'art. 159 c.p..
Cionondimeno, esaminata la questione anche dal punto di vista della tutela dell'interesse dell'imputato, l'esercizio della detta facoltà, con esito invece favorevole ad esso, sarebbe rapportabile alle attività di interesse per il diritto di difesa e per tale ragione per essa opererebbe il consolidato principio per cui il differimento dell'udienza determinato dalla necessità di consentire il concreto esercizio di una facoltà riconducibile al diritto di difesa non comporta sospensione della prescrizione (Sez. 4, n. 9224 del 29/01/2002, Bianco, Rv. 220986).
9. Deve pertanto essere affermato il seguente principio di diritto:
"Nel tempo necessario a dare attuazione alle disposizioni transitorie previste dal D.Lgs. n. 36 del 2018, art. 12, il corso della prescrizione non resta sospeso".
10. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma che si reputa equo determinare in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 alla cassa delle ammende.
Documenti Correlati Riferimenti Normativi Nuova Ricerca
13-02-2019 10:26
Richiedi una Consulenza