Il PM può chiedere il fallimento anche se il procedimento penale è ancora in fase di indagini
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 7 febbraio – 6 aprile 2017, n. 8903
Presidente Didone – Relatore Ferro
Fatti di causa
1. (omissis) s.r.l. impugna la sentenza App. Roma 24.6.2013, n. 3619 in R.G. 55313/2011, con cui è stato rigettato il suo reclamo, interposto ex art.18 l.f. avverso la sentenza dichiarativa del proprio fallimento, resa da Trib. Roma con sentenza 17.5.2011, n.283/2011.
2. Ritenne la corte che: a) nessun vizio risiedeva nella iniziativa svolta dal P.M., avendo questi agito ex art.7 l.f. dopo aver tratto la notitia decoctionis della debitrice all'interno di un procedimento penale, attestata dal sequestro preventivo penale disposto dal GIP di Roma per fatti di appropriazione indebita contestati agli amministratori - della società stessa e dunque con riguardo ad indagini preliminari in corso, ciò integrando una prima condizione autonoma della richiesta, per come descritta nella citata norma, perciò senza necessità del previo esercizio dell'azione penale; b) l'insolvenza procedeva da circostanze evidenziate nello stato passivo, nei dati della proposta di transazione fiscale (con allegazione di crediti, ammessi con riserva, per circa 100 milioni di Euro, in corrispondenza delle iscrizioni a ruolo delle pretese) ed infine nella situazione patrimoniale e finanziaria relazionata dal curatore (con riguardo a risorse liquide assenti, crediti rilevanti verso soggetti in stato di crisi), tenuto conto dell'attività di trading immobiliare svolta; c) nessun dovere sussisteva in capo al giudice delegato di concedere un termine per la presentazione della proposta di concordato preventivo, nemmeno avendo la parte formalizzato alcun accordo con il Fisco e dunque apparendo ogni altro rinvio di natura dilatoria.
3. Il ricorso è su due motivi, ai quali resiste con controricorso il fallimento. Le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione dell'art.7 l.f., in relazione agli artt.100 e 69 c.p.c., avendo erroneamente la corte ritenuto legittima l'iniziativa fallimentare del P.M. nonostante il mancato esercizio da parte di quell'organo dell'azione penale, sul mero presupposto dunque della esistenza di indagini preliminari, da cui l'istante aveva tratto la notitia decoctionis.
2. Con il secondo motivo si censura la violazione degli artt. 2697 c.c. e 5 l.f., ancora in relazione agli artt.100 e 69 c.p.c., non avendo il P.M. provato la pretesa tributaria ed essendosi sostituito il tribunale al relativo onere, senza che poi, anche in sede di reclamo, risultassero altro che elementi non certi, come un debito fiscale contestato e poi debiti scaduti dopo, peraltro rinunciati.
3. Il primo mollo è infondato. Come statuito da Cass. 10679/2014, con principio cui va data continuità in difetto di nuove argomentazioni già non respinte in altri precedenti, "la volontà legislativa che emerge dalla lettura delle ipotesi alternative previste dall'art. 7, primo comma, n. 1, legge fall., una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, è chiaramente nel senso di ampliare la legittimazione del P.M. alla presentazione della richiesta per dichiarazione di fallimento a tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la notitia decoctionis; e tale soluzione interpretativa trova conforto sia nella previsione dell'art. 7, primo comma, n. 2, legge fall., che si riferisce al procedimento civile senza limitazioni di sorta, sia nella Relazione allo schema di d.lgs. di riforma delle procedure concorsuali, che fa riferimento a qualsiasi notitia decoctionis emersa nel corso di un procedimento penale". Si tratta invero di indirizzo, inaugurato da Cass. 9260/2011, poi ripreso e completato da ulteriori arresti. Così Cass. 17903/2015 ha valorizzato l'atto di responsabilità con cui il P.M. può anche limitarsi a far proprie le segnalazioni del giudice civile remittente, competendo poi al giudice che dichiara l'insolvenza l'autonoma responsabilità di dar conto dei rispettivi presupposti e così nettamente distinguendo l'iniziativa per un verso e la decisione del tribunale, per l'altro. E Cass. 8977/2016 ha ricostruito la notitia decoctionis, quale compatibile con una fonte che sia anche solo l'indagine svolta nei confronti di soggetti diversi o collegati all'imprenditore, con atti di approfondimento, sul piano investigativo, successivi alla formulazione delle richieste in sede penale, essendo sufficiente che "quegli approfondimenti non costituiscano una nuova e arbitraria iniziativa d'indagine, ma si caratterizzino come uno sviluppo di essa, collegato strettamente alle sue risultanze, per quanto non complete, già acquisite nel corso dell'indagine penale". SU tratta dunque di un catalogo che esprime. un'univoca direzione ermeneutica in ordine alla nozione di procedimento penale, non coincidente con il processo penale in senso stretto, cioè il mero segmento processuale in cui sia stata già esercitata l'azione penale.
4. Al di là invero della malferma sistemazione che ne riceverebbe, seguendo la ipotesi più restrittiva, la necessità di abbinamento alle persone destinatarie dell'azione penale in caso di insolvenza di società (potendo quell'iniziativa dirigersi anche solo verso un cessato amministratore ovvero un sindaco), la lettura offerta dell'art.7 n. 1 l.f. - che si riferisce ad "un procedimento penale" senza altre qualificazioni o riferimenti, nemmeno al debitore la cui insolvenza sia predicata impone soltanto e già al P.M., che rilevi l'insolvenza nel corso della sua competenza penale, di agire chiedendo il fallimento. Né gli impone alcuna enunciazione delle ragioni di interesse pubblico per il quale agisce. Il trasferimento a questa sola parte pubblica della eredità istituzionale prima della riforma del 2006 diversamente distribuita anche nell'iniziativa d'ufficio, ha trovato una sua collocazione ordinamentale proprio con l'ampia ricognizione dell'insolvenza, quale individuabile anche in altre ipotesi dell'attività del P.M.: la disgiuntività che separa i casi di cui alla seconda parte del n.1 dell'art.7 l.f. consente così di ravvisare nella fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, chiusura dei locali, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo altrettante ipotesi che possono anche essere esterne ad un procedimento penale nel senso sopra tratteggiato, essendo sufficiente che, come fonti di informazione, da esse "l'insolvenza risulti" in una o più nell'ambito delle complesse attività svolte dal P.M. nel suo ufficio. Vale a dire che quei "fatti" ovvero condotte, ancorché non inquadrati in un procedimento penale, vengano conosciute dal P.M. nell'ambito delle proprie attività istituzionali, siano esse di direzione dell'investigazione, rappresentanza nei processi o destinatarietà di informazioni. Che tale lettura poi appaia la più coerente con il citato conferimento al P.M. del ruolo di controllore pubblico dell'insolvenza è confermato dalla ampiezza della nozione di procedimento civile che, all'altezza del n.2 dell'art. 7 l.f., costituisce l'ulteriore bacino di acquisizione della notitia decoctionis (Cass. 18277/2015, 26043/2013 e Cass. s.u. 9409/2013).
5. Il secondo motivo è infondato. Si oppone al suo accoglimento il principio, che va ribadito, per cui "Nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento l'accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame e desunti da circostanze non contestate dello stato passivo." (Cass. 10952/2015). Parimenti questa Corte ha statuito che "il mancato pagamento di somme dovute all'amministrazione finanziaria per IVA ed iscritte a ruolo può considerarsi atto sintomatico di una situazione di insolvenza ai fini della dichiarazione di fallimento senza che rilevi in contrario la circostanza dell'avvenuta impugnazione del ruolo stesso, che ha natura di titolo esecutivo, salvo che il debitore dimostri che l'esecutività dell'atto impugnato è stata sospesa". (Cass. 15407/2001). Nella specie, la corte d'appello non si è limitata a richiamare l'ingente debito tributario, già oggetto della iniziativa del P.M. e ascendente ad oltre 116 milioni di Euro, ma ne ha apprezzato condividendo il sindacato di merito incidentale già espletato dal tribunale - per un verso la plausibilità (correlata altresì alla annunciata proposta debitoria di transazione fiscale) e, per altro verso, la gravità, nel più vasto coacervo delle risorse della società (priva di attività liquide ovvero di immediato utilizzo per il passivo, nonché con crediti svalutati ed ancora di incerto recupero). Sul primo punto, si richiama la lezione di Cass. s.u. 115/2001 apparendo legittimo che "l'autorità giudiziaria ordinaria adita per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente a fronte di un ingente debito tributario provveda a tale dichiarazione, senza entrare nel merito delle pretese impositive (che, nella specie, si assumevano impugnate dinanzi alla competente commissione tributaria da parte del fallito) e senza, pertanto, violare alcun principio in tema di riparto di giurisdizione tra G.O. e Commissioni tributarie". (Cass. s.u. 1997/2003). Va inoltre ripetuto che l'insolvenza procede dalla ricognizione di inadempimenti o altri fatti esteriori, di cui nella specie il giudice di merito ha dato conto riferendo sul disequilibrio patrimoniale della società e la problematicità d'incasso dei crediti verso terzi, a fronte di un'attività inidonea a produrre redditi nell'immediatezza. Per altro profilo di censura il motivo è inammissibile, poiché "La riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione” (Cass. s.u. 8053/2014).
Il ricorso va dunque rigettato, con condanna alle spese secondo la regola della soccombenza e liquidazione come meglio da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento di legittimità, liquidate in favore del controricorrente in Euro 10.200 (di cui Euro 200 per esborsi), oltre al 15% a forfait sui compensi e agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1-quater, d.P.R. 115/02, come modificato dalla l. 228/12, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del co. 1-bis dello stesso art. 13.
30-04-2017 13:47
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