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Sentenza

Nessuna sanzione disciplinare al magistrato se il fatto non ha compromesso la sua immagine.
Nessuna sanzione disciplinare al magistrato se il fatto non ha compromesso la sua immagine.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 24 – 31 marzo 2015, n. 6468
Presidente Roselli – Relatore Bandini

Svolgimento del processo

Con sentenza del 10.7-11.9.2014 la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura assolse il magistrato M.A. dalle incolpazioni ascrittegli (svolgimento negli anni 2010 e 2012 di plurimi incarichi extragiudiziari retribuiti di docenza senza avere richiesto la prescritta autorizzazione al Consiglio Superiore della Magistratura, in violazione degli artt. 1 e 3, comma 1, lett. c), dl.vo n. 109/06), per essere rimasti esclusi gli addebiti, ai sensi dell'ari. 3 bis dl.vo n. 109/06, ritenendo che la natura dell'incarico, il percepimento di compensi per importi non esorbitanti e le funzioni svolte di magistrato fuori ruolo facevano escludere che, dalla condotta dell'incolpato, fosse derivata una compromissione dell'immagine del magistrato.
Avverso l'anzidetta sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo.
M.A. ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

1. Con l'unico motivo il ricorrente, denunciando erronea applicazione dell'art. 3 bis dl.vo n. 109/06, nonché vizio di motivazione, deduce che:
- gli incarichi svolti senza autorizzazione erano stati quantitativamente non esigui (sei in totale, di cui 5 concentrati nel 2012 nell'arco di sette mesi) e che gli importi corrisposto erano di una certa consistenza (complessivamente Euro 5.704,00 lordi);
- quanto al primo incarico, quello espletato nel 2010, la circostanza che il conferimento era avvenuto subito dopo l'istituzione dell'ente conferente e ormai in prossimità dell'espletamento non aveva reso affatto incerta la natura giuridica dell'ente conferente e l'assoggettabilità dell'incarico alla disciplina autorizzatoria;
- quanto ai successivi incarichi (quelli svolti nel 2012), era illogica l'affermazione tesa a valorizzare che il magistrato si era determinato all'assunzione degli incarichi in vista del suo prossimo rientro in ruolo, posto che le mansioni espletate dall'incolpato, in servizio presso l'Ispettorato Generale, aggravava semmai il quadro accusatorio, essendo lo stesso chiamato a formulare valutazioni, sotto il profilo deontologico, sulle condotte di altri colleghi;
- la rilevata autorizzabilità degli incarichi non poteva ritenersi idonea, sul piano logico, a sostenere di per sé l'esistenza dell'esimente, non potendo ritenersi che ogni qual volta l'illecito assuma carattere formale ne deriverebbe l'assoluzione per mancanza di offensività.
2. Osserva il Collegio che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per tutti gli illeciti disciplinari previsti dal dl.vo 24 febbraio 2006, n. 109 - ad eccezione di quelli contemplati dagli artt. 2, comma 2, lett. a), e 3, comma 1, lett. d) - è la stessa legge ad individuare, tipizzandole, le condotte disciplinarmente rilevanti assunte dal magistrato in contrasto con i doveri di cui all'ari. 1 del suddetto decreto, sicché l'accertamento della loro specifica violazione, mentre non rileva sul piano della verifica della sussistenza dell'illecito, essendo tale profilo assorbito da una valutazione compiuta ex ante dal legislatore, per cui è esaustivo il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta del magistrato a prescindere dalla finalità da questi perseguita, conserva invece efficacia sul piano deontologico, in relazione alla possibilità di applicazione - rimessa all'apprezzamento del giudice disciplinare - di clausole generali come la scarsa rilevanza del fatto, ovvero la scusabilità o giustificabilità della condotta dell'incolpato (cfr, Cass., SU, n. 6827/2014). È stato inoltre precisato che la norma di cui all'art. 3 bis dl.vo 23 febbraio 2006, n. 109, aggiunta dall'ari. 1 della legge 24 ottobre 2006, n. 269, (secondo cui "l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza"), introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va, comunque, riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto, effettuato ex post; tale bene giuridico va considerato unico per tutte le ipotesi di illecito disciplinare ed è identificabile - secondo quanto emerge esplicitamente dall'art. 3, lett. h), e dall'art. 4, lett. d), del suddetto decreto - con la compromissione dell'immagine del magistrato, con la conseguenza che, ai sensi del predetto art. 3 bis, la condotta disciplinare irrilevante va identificata, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, in quella che non compromette l'immagine del magistrato (cfr, Cass., SU, n. 25091/2010).
In applicazione di tali principi deve ritenersi che l'individuazione degli elementi fattuali rilevanti ai fini della valutazione della sussistenza o meno della scarsa rilevanza del fatto va ricondotta ad un giudizio globale teso a riscontrare se, nel caso concreto, l'immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa a seguito dell'adozione di comportamenti integranti, oggettivamente, illecito disciplinare.
Per conseguenza la censura avverso la valutazione resa dalla sentenza disciplinare non può limitarsi ad un'atomistica critica della rilevanza, in sé considerati, dei singoli elementi di giudizio tenuti presenti a tal fine, ma deve individuare la contraddittorietà e l'illogicità delle conseguenze che, dall'esame complessivo di tali elementi, sono state tratte al fine di accertare l'effettiva compromissione dell'immagine del magistrato. Nel caso all'esame la sentenza impugnata ha desunto, dai vari elementi di giudizio considerati - ancorché ciascuno dei medesimi, di per sé, non escluda la sussistenza dell'illecito - una valutazione conclusiva priva di elementi di contraddittorietà o illogicità, posto che proprio dalla considerazione complessiva di tali elementi può ragionevolmente desumersi l'insussistenza di quella compromissione concreta ed effettiva dell'immagine del magistrato idonea alla dimostrazione della scarsa rilevanza del fatto.
Ed invero, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i vizi di omessa e di insufficiente motivazione ricorrono soltanto in presenza di argomentazioni da cui non sia possibile desumere la ratio decidendi sottesa alla decisione, ovvero qualora risultino carenti od omessi l'esame e la valutazione di elementi di rilievo tale che, ove fossero stati opportunamente considerati, la decisione sarebbe stata necessariamente diversa, mentre il vizio di contraddittorietà è denunciabile nella sola ipotesi in cui nel tessuto motivazionale del provvedimento siano ravvisabili affermazioni tra loro così contrastanti da rendere ancora una volta indecifrabile la ratio decidendi (cfr, ex plurimis e fra le più recenti, Cass., SU, n. 11343/2013).
Il motivo svolto non può dunque trovare accoglimento.
3. In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Risultando dagli atti che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non sussistono i presupposti per il versamento dell'ulteriore importo, a tale titolo, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, dpr n. 115/02.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in complessivi Euro 4.200,00 (quattromiladuecento), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre spese generali 15% e accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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