I motivi dell'impugnazione sono aspecifici: inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., ricorso inammissibile.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 5 maggio – 29 luglio 2015, n. 16060
Presidente Russo – Relatore Frasca
Svolgimento del processo
p.1. B.O. ha proposto ricorso per cassazione contro la Direct Line Insurance s.p.a., M.G. e C.A.M. , avverso la sentenza del 28 febbraio 2012 con cui la Corte d'Appello di Roma ha dichiarato inammissibile l'appello da Lui proposto contro la sentenza n. 25652 del 2005, con la quale il Tribunale di Roma, provvedendo sulla domanda da esso ricorrente introdotta per ottenere il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di un sinistro stradale occorso in Roma il 10 gennaio 2002, allorquando era stato investito sulle strisce pedonali dall'autovettura condotta dalla C. , di proprietà del M. e assicurata per la r.c.a. presso la società intimata.
p.2. Al ricorso ha resistito con controricorso soltanto la società intimata.
p.3. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
p.1. In via preliminare si deve rilevare l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione, prospettata dalla resistente sotto il profilo che ad esso, in forza dell'art. 58, comma 5, della l. n. 69 del 2009 sarebbe stato applicabile l'art. 327 c.p.c. nel testo modificato dalla stessa legge, che ha ridotto a sei mesi il c.d. termine lungo per l'esercizio del diritto di impugnazione.
L'assunto, come ha correttamente replicato il ricorrente, è privo di pregio. L'art. 327 c.p.c. infatti, non è stato modificato dal'art. 47 della l. n. 69 del 2009, bensì dall'art. 46 c.p.c. ed il regime transitorio dell'entrata in vigore della modifica è regolato dal primo comma dell'art. 58 di detta legge, ai sensi del quale essa è applicabile “ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, formulazione che evoca i giudizi introdotti in primo grado dopo quella data, cioè dopo il 4 luglio 2009 (in proposito vedi già Cass. n. 6007 del 2012).
p.2. Con il primo motivo di ricorso si deduce "nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa e, comunque, per violazione dell'art. 101 c.p.c. ed, in ogni caso, conseguente illegittimità della pronuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c.".
Nella sua illustrazione il ricorrente da innanzitutto atto che l'art. 101 secondo comma, aggiunto dall'art. 45, comma 13, della l. n. 69 del 2009, ed evocato nell'intestazione, non è applicabile al ricorso, giusta la norma del comma 1 dell'art. 58 della stessa legge, che ne dispone l'applicabilità ai giudizi introdotti in primo grado successivamente alla data di entrata in vigore della legge e, quindi, dopo il 4 luglio 2009.
Sostiene, tuttavia, che anche prima della modifica legislativa sarebbe sussistito un principio analogo, impositivo al giudice dell'obbligo di segnalare le questioni rilevabili d'ufficio che intendesse porre a base della decisione, ed evoca, al riguardo, Cass. n. 21108 del 2005, n. 16557 del 2005, n. 14637 del 2001, Cass. sez. un. n. 14828 del 2012.
Tanto premesso, si duole che la Corte territoriale abbia dichiarato inammissibile l'appello per violazione dell'art. 342 c.p.c. in punto di specificità dei motivi, senza avere previamente evidenziato alle parti la relativa questione al fine di garantire il loro contraddittorio sul punto e argomenta, poi, facendo riferimento ad una norma non invocata nell'intestazione del motivo, che un obbligo di segnalazione sarebbe stato sussistente ai sensi dell'art. 183, quarto comma, c.p.c., assumendo che il dovere di collaborazione, di cui la norma sarebbe espressione, troverebbe giustificazione nel principio del contraddittorio di cui all'art. 111 Costituzione, per cui la mancata assicurazione di esso si sarebbe risolta in una violazione del diritto di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione.
Per tale ragione si chiede la cassazione della sentenza con rinvio.
p.2.1. Il motivo è privo di fondamento.
Va premesso che Tunica norma idonea astrattamente a sorreggerlo, fermo che è esatto il rilievo dell'inapplicabilità del secondo comma nell'art. 101 c.p.c., è quella dell'art. 183, terzo comma, c.p.c. nel testo anteriore alla sostituzione dell'intero articolo operata, con decorrenza dal 1° marzo 2006 - per effetto dell'art. 39 quatert del d.l. n. 273 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 51 del 2006 e applicabile (ai sensi dell'art. 8, comma 3-quinquies, del d.l. n. 115 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 168 del 2005, come modificato dallo stesso art. 39-quater) ai giudizi introdotti in primo grado dopo quella data - dall'art. 2, comma 3, lett. c-ter, del d.l. n. 35 del 2005, convertito, con modificazione, dalla legge n. 80 del 2005.
Il testo pertinente era dunque il terzo comma dell'art. 183, siccome introdotto dalla l. n. 353 del 1900 e successive modifiche, il quale prescriveva che “il giudice indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”.
Tale norma era certamente applicabile nel giudizio di appello in cui è stata pronunciata la sentenza qui impugnata, per effetto dell'art. 359 c.p.c., dato che si trattava di una norma certamente non incompatibile con le disposizioni regolataci del giudizio di appello, di cui al capo secondo del titolo terzo del libro secondo del c.p.c..
p.2.2. Senonché, si tratta di una norma che risulta invocata al di fuori dei suoi limiti di applicabilità.
Ad essi, quando la norma fosse stata applicata al giudizio di impugnazione di appello, erano estranee le questioni inerenti i requisiti di ammissibilità del mezzo di impugnazione. Invero, se non è discutibile che la questione concernente il rispetto delle condizioni di ammissibilità di un'impugnazione e, quindi, dell'appello, è certamente una questione rilevabile d'ufficio e precisamente una questione di rito rilevabile d'ufficio, tuttavia, nel vigore dell'art. 183, terzo comma, c.p.c. (come del quarto nella versione successiva della norma), non si trattava di una questione rilevabili d'ufficio riconducibile al concetto di quelle delle quali il giudice riteneva opportuna la trattazione, secondo la formulazione della norma.
La ragione era che la valutazione dell'ammissibilità di un mezzo di impugnazione, nella logica sottesa alla qualificazione di un requisito come condizione di ammissibilità, è valutazione la cui necessità non sorge in forza di un rilievo del giudice, ma è imposta come condizione per l'esame dell'impugnazione dalle regole, che disciplinano l'esercizio del potere di impugnazione, il controllo del cui rispetto è doveroso per il giudice. Poiché chi introduce un'impugnazione è tenuto al rispetto delle dette regole ed il giudice ha il dovere di controllare se esse siano state rispettate, è palese che la questione della loro osservanza non si può considerare come una questione che è introdotta dal giudice nel dibattito processuale come questione rilevante per la decisione. Essa è già necessariamente parte del dovere decisorio del giudice per effetto dell'esercizio del diritto di impugnazione e la parte che esercita tale diritto, introducendo l'impugnazione è ben consapevole che, nell'esercitare tale diritto deve osservare le condizioni di ammissibilità e, quindi le forme ed i tempi in tal senso previste, e che esse debbono essere controllate dal giudice. Ne segue che, quando il giudice esercita tale controllo in sede decisoria e manifesta il risultato del suo esito, senza avere prima esternato l'intenzione di esaminare la relativa questione e senza che, d'altro canto, la parte che resiste all'impugnazione l'abbia a sua volta prospettata, la parte che ha esercitato il diritto di impugnazione non può in alcun modo lamentare che la questione di ammissibilità dell'impugnazione sia stata esaminata "a sorpresa" e, dunque, senza che le sia stato consentito di contraddire. Detta parte, infatti, essendo tenuta ad osservare i requisiti di ammissibilità dell'impugnazione all'atto in cui ha posto in essere l'atto di impugnazione e, dunque, avendo dovuto compiere un atto processuale che quei requisiti doveva rispettare nella consapevolezza che la loro osservanza si sarebbe dovuta controllare d'ufficio dal giudice, quando il giudice rileva in sede decisoria che detti requisiti non sono stati osservati non può lamentare di non aver potuto contraddire e, quindi, di non aver potuto esercitare il diritto di difesa sul punto, perché nell'esercizio del diritto di azione mediante l'impugnazione essa quel diritto ha già esercitato.
p.2.3. Né le cose stanno diversamente nel vigore dell'attuale art. 101, secondo comma, c.p.c.. Tale norma usa la formula per cui “se [il giudice] ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio” ed in tale formula si evidenzia ancora più come il "porre a fondamento" debba riguardare una questione che non doveva porsi a fondamento della decisione secondo il dibattito svolto dalle parti e riguardo alla quale esse pertanto possono essere sorprese dall'esercizio del potere giudiziale. Quando la norma si applica all'esercizio del diritto di impugnazione e, quindi, disciplina le condizioni ed i requisiti del potere con esso esercitato dalla parte, il dovere del giudice di controllare i requisiti di ammissibilità dell'impugnazione esclude che la relativa questione sia una questione che, sebbene rilevata d'ufficio, possa dirsi posta a fondamento della decisione per iniziativa del giudice. Si tratta di questione che è posta a fondamento della decisione in adempimento del dovere di esame che la stessa impugnazione imponeva al giudice in ordine alla sua ammissibilità e che, concernendo Io stesso esercizio del potere delle parti, esse ben sapevano sarebbe stata oggetto di doveroso esame da parte del giudice.
Tornando all'art. 183, terzo comma, c.p.c. nel testo applicabile al processo, il motivo di ricorso dev'essere rigettato, alla stregua delle svolte considerazioni, sulla base del seguente principio di diritto: “Nel vigore dell'art. 183, terzo comma, c.p.c., nel testo introdotto dalla l. n. 353 del 1990 e successive modifiche ed in forza dell'applicazione di tale norma al giudizi di appello in forza dell'art. 359 c.p.c., nell'ambito dell'obbligo del giudice di indicare le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, non poteva ritenersi compreso il rilievo della sussistenza dell'inosservanza di un requisito di ammissibilità dell'appello, come la specificità dei motivi di appello ai sensi del testo dell'art. 342 c.p.c. nel testo anteriore alla modifica introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l.n. 134 del 2012. Ne consegue che il giudice d'appello poteva rilevare l'inammissibilità dell'appello per aspecificità dei motivi anche solo in sede di decisione”.
p.2.4. È, poi, appena il caso di ricordare che l'osservanza dell'art. 342 c.p.c. nel testo anteriore alle modifiche apportate nel 2012 era prescritta a pena di inammissibilità dell'impugnazione: si ricorda che Cass. sez. un. n. 16 del 2000 aveva statuito che: “L'inammissibilità non è la sanzione per un vizio dell'atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell'appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative ma si verifica ogniqualvolta - essendo l'atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (nel caso dell'appello, evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) - non operi un meccanismo di sanatoria; pertanto, essendo inapplicabile all'atto di citazione di appello l'articolo 164, secondo comma cod.proc.civ. (testo originario), per incompatibilità - in quanto solo l'atto conforme alle prescrizioni di cui all'articolo 342 cod.proc.civ. è idoneo a impedire la decadenza dall'impugnazione e quindi il passaggio in giudicato della sentenza -, l'inosservanza dell'onere di specificazione dei motivi, imposto dall'articolo 342 cit., integra una nullità che determina l'inammissibilità dell'impugnazione, con conseguente effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, senza possibilità di sanatoria dell'atto a seguito di costituzione dell'appellato - in qualunque momento essa avvenga - e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla specificazione dei motivi avvenuta in corso di causa”.
Il primo motivo è, pertanto rigettato.
p.3. Con il secondo motivo si denuncia "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 342 c.p.c. in ordine alla declaratoria di inammissibilità dell'appello con riferimento al suo primo motivo (quantificazione del danno biologico), con conseguente illegittimità della pronuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c.".
Ancorché nell'intestazione si dichiari che la denunciata violazione di norma del procedimento (il cui referente avrebbe dovuto essere, peraltro, il n. 4 dell'art. 360 c.p.c.) avrebbe riguardato la valutazione di inammissibilità del solo primo motivo di appello, tuttavia l'illustrazione del motivo, in modo palesemente contraddittorio, inizia con l'enunciazione che “la sentenza oggi sottoposta al giudizio di legittimità, per quanto in questa fase rileva, ha deciso la causa dichiarando inammissibile l'appello ex art. 342 c.p.c., ritenendo che non sono stati formulati, in modo specifico, i motivi di appello..”.
Tale enunciazione parrebbe sottendere che si intende illustrare il motivo come se si riferisse alla valutazione di inammissibilità di tutti i motivi di appello.
Senonché, se è vero che immediatamente di seguito si riportano alcuni passi della decisione, uno ciascuno di cui alle sue pagine 10 e 11 e due alla pagina 12 nei quali la Corte capitolina ha indicato le premesse in iure assunte per la successiva valutazione di inammissibilità che ha svolto su tutti i motivi di appello, tuttavia ancora di seguito l'illustrazione si occupa solo di quello ce definisce "primo motivo proposto nell'atto di appello" e che indica formulato a "pag. 5 e seguenti dell'atto di citazione in appello, il cui motivo è stato reiterato a pag. 6 e seguenti della memoria integrativa a seguito di mutamento di rito" e, quindi, dicendolo relativo al "quantum risarcitorio" ed in particolare al "danno biologico", riporta nel suo contenuto nella terza parte della pagina 11 del ricorso e nella successiva pagina 12, per poi riportare a pagina 13 un passo della memoria de qua.
Si deve, quindi, ritenere che effettivamente il motivo concerna solo la valutazione di inammissibilità del primo motivo di appello.
p.3.1. Il motivo presenta due gradate ragioni di inammissibilità.
La prima risiede nell'inosservanza dell'art. 366 n. 6 c.p.c., che prescrive il requisito dell'indicazione specifica dei documenti e degli atti processuali sui quali il ricorso per cassazione si fonda. Secondo la lettura data dalla giurisprudenza della Corte la norma costituisce il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza dell'esposizione del motivo di ricorso per cassazione e comporta che il ricorrente in cassazione debba riprodurre direttamente od indirettamente indicando a quale parte corrisponda l'indiretta riproduzione, la parte del documento o dell'atto processuale che sorregge il motivo, nonché indicare se e dove esso sia esaminabile in quanto prodotto nel giudizio di legittimità. Per gli atti processuali Cass. sez. un. n. 22726 del 2011 ha ammesso che tale onere possa essere assolto indicandone la presenza nel fascicolo d'ufficio, restando così la parte esentata dall'onere della produzione e specie di una copia se si tratti di atti del fascicolo, prescritto dall'art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c..
Nella specie, essendo il motivo fondato sul proprio atto di appello, il cui originale avrebbe dovuto essere nella sua disponibilità, parte ricorrente non ha indicato che esso sia presente nel fascicolo d'ufficio, eventualmente nel proprio fascicolo di parte in esso presente, e nemmeno ha indicato la presenza in tale fascicolo precisando, evidentemente per averlo ritirato, di produrre tale fascicolo in questo giudizio di legittimità.
Ne segue che l'art. 366 n. 6 risulta violato e tanto comporta l'inammissibilità del motivo, in quanto la Corte non è posta in grado di verificare se la trascrizione del primo motivo di appello fatta nel ricorso sia effettivamente corrispondente al suo tenore.
p.3.2. Il motivo, anche se fosse superabile il rilievo di inammissibilità appena svolto, sarebbe comunque inammissibile, in quanto il ricorrente non ha in alcun modo criticato la motivazione con cui la Corte romana ha ritenuto inammissibile il primo motivo.
Infatti, essa è enunciata alla pagina 13 della sentenza nel paragrafo 5.2. della motivazione, che inizia dal quarto rigo di essa e termina con le prime cinque righe della pagina successiva e si articola in precisa argomentazioni che, evocando il concetto di specificità, sono funzionali allo scopo di motivare la rilevata inammissibilità.
I passi, peraltro enunciati del tutto saltuariamente e per minime estrapolazioni, come motivazione che viene poi criticata, sono quelli che la Corte ha posto a premessa in iure della successiva specifica valutazione di inammissibilità spiegata a proposito di ciascun motivo proprio a partire dalla pagina 13. Peraltro, le dette premesse si articolano ben più diffusamente , occupando due terzi della pagina 10, le intere pagine 11 e 12 e le prime quattro righe della pagina 13.
Il motivo, per assumere dignità di critica alla sentenza impugnata e, quindi, dignità di motivo di ricorso per cassazione, avrebbe dovuto occupasi del suddetto paragrafo 5.2., mentre se ne è totalmente disinteressato, sicché le evocazioni di principi giurisprudenziali che svolge restano prive di riferimento alla sentenza impugnata e non meritano replica.
Il motivo dev'essere, in conseguenza, dichiarato inammissibile alla stregua del principio di diritto secondo cui: “Il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto, per denunciare un errore, bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ.” (Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerosissime conformi).
p.4. Il terzo motivo - che denuncia "insufficiente motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio" - segue la stessa sorte del motivo precedente, dato che con gli stessi doppi profili di inammissibilità, si duole sempre dell'inammissibilità del primo motivo di appello.
§5. Con il quarto motivo si denuncia "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 287 c.p.c. con riferimento all'errore materiale e conseguente illegittimità della pronuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c.".
Ci si duole della motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile l'istanza di correzione di un errore materiale della sentenza di primo grado, evocando il principio di diritto di cui a Cass. n. 9968 del 2005, secondo cui “Nel caso in cui sia stato già proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza viziata da errore materiale, l'istanza di correzione non può essere proposta dinanzi alla corte di legittimità, ma unicamente al giudice di merito, a norma dell'art. 287 cod. proc. civ.. Tale principio ancor più deve essere confermato dopo la pronuncia di parziale illegittimità costituzionale del detto art., dettata dalla sentenza della Corte Cost. n. 335 del 2004, limitatamente alle parole contro le quali non sia stato proposto appello, sicché il solo giudice competente alla correzione è quello che ha emesso la sentenza affetta dall'errore”.
Il motivo è illustrato con argomentazioni che sarebbero del tutto inidonee a scalfire il valore del principio di diritto de quo e che non merita riferire, in quanto questa Corte, nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di correzione della motivazione della sentenza ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 384 c.p.c. deve rilevare che quella motivazione è sbagliata in iure, ma il suo risultato, cioè l'inammissibilità della chiesta correzione si sarebbe dovuta giustificare con la semplice costatazione che, essendo inammissibile l'appello ai sensi dell'art. 342 c.p.c. con riferimento a tutti i motivi di doglianza rivolti contro il decisum della sentenza di primo grado, ogni potere del giudice d'appello di intervenire con il potere di correzione era precluso dal'inammissibilità dell'appello. Invero, il giudice d'appello può essere investito di un'istanza di correzione della sentenza di primo grado, fermo restando che essa non integra motivo di gravame, ma il potere di provvedere su di essa sussiste solo se l'appello è ammissibile. Ne segue che la Corte territoriale, una volta ritenuto l'appello inammissibile, avrebbe dovuto semplicemente prendere atto che tale inammissibilità la privava del potere di decidere sull'istanza di correzione.
In parte qua il dispositivo della sentenza impugnata è, dunque, giusto e la sentenza non può essere cassata.
p.6. Tale rilievo escluderebbe che ci si debba domandare se la statuizione avrebbe potuto essere sottoposta a motivo di ricorso per cassazione.
p.6.1. Peraltro, se il motivo dovesse scrutinasi si evidenzierebbe che esso pone una doglianza che non è in alcun modo suscettibile di integrare motivo di ricorso per cassazione, atteso che deve ritenersi che quando il giudice della sentenza impugnata in cassazione e segnatamente dell'appello sia stato investito di un'istanza di correzione di errore materiale o dallo stesso appellante principale o dall'appellante incidentale in aggiunta alle ragioni di doglianza contro la sentenza impugnata, tanto la circostanza che il giudice dell'appello abbia omesso di esaminare l'istanza di correzione, quanto la circostanza che nell'esaminarla abbia escluso la sussistenza degli estremi della chiesta correzione, non integrano ragioni di illegittimità della decisione deducibili come motivo di cassazione.
La ragione è che tanto l'omessa decisione quanto la decisione di rigetto, in ragione della natura stessa dell'errore materiale, sono inidonee ad esprimere un errore che si possa considerare commesso nell'esercizio di un potere giurisdizionale.
La giustificazione di tale affermazione risiede nella circostanza che “il procedimento di correzione di errori materiali disciplinato dagli artt. 287 ss. cod. proc. civ. è funzionale alla eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, ma non può in alcun modo incidere sul contenuto concettuale della decisione, con la conseguenza che l'ordinanza che lo conclude non è soggetta ad impugnazione, neppure con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. (atteso il carattere non giurisdizionale, ma meramente amministrativo di tale provvedimento), mentre resta impugnabile, con lo specifico mezzo di impugnazione per essa di volta in volta previsto (il cui termine decorre dalla notifica del provvedimento di correzione), la sentenza corretta, anche al fine di verificare se, mercé il surrettizio ricorso al procedimento de quo, sia stato in realtà violato il giudicato ormai formatosi nel caso in cui la correzione sia stata utilizzata per incidere (inammissibilmente) su errori di giudizio”. (Così Cass. sez. un. n. 5165 del 2004; nello stesso ordine di idee anche di recente è stato ribadito che “In tema di procedimento di correzione di errori materiali, l'art. 288 cod. proc. civ., nel disporre che le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione, appresta uno specifico mezzo di impugnazione, che esclude l'impugnabilità per altra via del provvedimento a lume del disposto dell'art. 177, terzo comma, n. 3, cod. proc. civ., a tenore del quale non sono modificabili né revocabili le ordinanze per le quali la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo. Pertanto, il principio di assoluta inimpugnabilità di tale ordinanza, neppure col ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., vale anche per l'ordinanza di rigetto, in quanto il provvedimento comunque reso sull'istanza di correzione di una sentenza all'esito del procedimento regolato dall'art. 288 cod. proc. civ. è sempre privo di natura decisoria, costituendo mera determinazione di natura amministrativa non incidente sui diritti sostanziali e processuali delle parti, in quanto funzionale all'eventuale eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo che non può in alcun modo toccare il contenuto concettuale della decisione. Per questa ragione resta impugnabile, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta, proprio al fine di verificare se, mercé il surrettizio ricorso al procedimento in esame, sia stato in realtà violato il giudicato ormai formatosi nel caso in cui la correzione sia stata utilizzata per incidere, inammissibilmente, su errori di giudizio” (Cass. (ord.) n. 16205 del 2013; in precedenza nello stesso senso Cass. n. 5950 del 2007).
Si tratta di principi di diritto espressi con riferimento all'ipotesi che si impugni l'ordinanza di rigetto della chiesta correzione, ma è palese che, allorquando la correzione venga richiesta al giudice d'appello, come dottrina e giurisprudenza ammettono pacificamente, lo stesso regime riguardi il rigetto da parte del giudice d'appello dell'istanza, per la quale, come ricorda esattamene parte ricorrente, non è richiesto e propter hoc la formulazione di un motivo di impugnazione. Anche in tal caso si è in presenza di un provvedimento che, omettendo di pronunciarsi su un'istanza diretta ad ottenere un provvedimento di natura amministrativa non può integrare un vizio della sentenza: lo aveva, del resto, già ritenuto Cass. n. 124 del 2004, la quale in motivazione così si espresse: “1. Con il primo e il secondo motivo del ricorso le ricorrenti deducono violazione degli art. 287 e 334 c.p.c. e vizio di motivazione della sentenza impugnata. Lamentano che illegittimamente i giudici d'appello hanno omesso di pronunciarsi sulla correzione del denunciato errore materiale, essendo indiscussa in giurisprudenza la possibilità di procedere alla correzione anche quando risulti inammissibile l'appello incidentale con il quale era stata richiesta. I motivi sono inammissibili, perché, stante la natura amministrativa della decisione ricordata dalle stesse ricorrenti, il provvedimento reso sull'istanza di correzione di una sentenza, in esito al procedimento contemplato dall'art. 288 c.p.c., non è impugnabile con ricorso per Cassazione, a norma dell'art. 111 della costituzione, per difetto di natura decisoria, non soltanto quando detta istanza venga accolta (salva restando l'impugnabili della sentenza relativamente alla parte corretta), ma anche quando sia respinta (Cass., sez. 1^, 2 marzo 1990, n. 1646, m. 465634). In realtà nella giurisprudenza di questa Corte è indiscusso che nell'ipotesi in cui la sentenza contro la quale è stato proposto gravame contenga un errore materiale, l'istanza di correzione dello stesso, non essendo rivolta ad una vera e propria riforma della decisione, non deve necessariamente formare oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via incidentale, ma può essere proposta in qualsiasi forma e può anche essere implicita nel complesso delle deduzioni difensive svolte in appello (Cass., sez. L, 16 maggio 2003, n. 7706, m. 563222). Per questa ragione, ove l'istanza di correzione sia stata espressa in un appello incidentale, la declaratoria di inammissibilità del suddetto appello incidentale non preclude la decisione in ordine alla suddetta istanza (Cass., sez. 2^, 21 ottobre 1998, n. 10447, m. 519939). D'altro canto l'art. 287 c.p.c. riserva al giudice che ha pronunciato la sentenza la competenza a correggerne gli errori materiali, mentre il giudice d'appello può provvedere solo quando un appello sia stato effettivamente proposto; sicché deve ritenersi che la dichiarazione di inammissibilità dell'appello principale precluda ogni decisione in ordine alla richiesta di correzione formulata dall'appellante o dell'appellato, perché, essendo stato invalidamente proposto il giudizio d'impugnazione, rivive la competenza del giudice di primo grado”.
p.6.2. Le considerazioni svolte dall'ora riportata motivazione palesano anche che, quando il giudice dell'appello abbia omesso di pronunciarsi sull'istanza di correzione, nulla preclude la riespansione del potere di investire dell'istanza di correzione il giudice che aveva pronunciato la sentenza appellata. Invero, in questo caso, essendovi stata omissione di pronuncia, non si è in presenza di un provvedimento e, quindi, di un'ordinanza sulla correzione, negativa o positiva, e, pertanto, non vale la disciplina dell'art. 177, terzo comma, n. 3 c.p.c..
Semmai, qualora il giudice dell'appello abbia adottato un provvedimento negativo, esso preclude che ci si rivolga al primo giudice con una nuova istanza di correzione, atteso che l'avere scelto di investire della correzione il giudice d'appello giustifica l'applicazione della regola electa una via non datur recursus ad altera, giacché alla via di investire il primo giudice (che era possibile anche in pendenza dell'appello, a seguito di Corte cost. n. 335 del 2004) si è preferita l'altra.
Le svolte considerazioni sono pienamente idonee a rendere superata l'ida, che effettivamente parrebbe avallare Cass. n. 7706 del 2003.
Tale decisione (sebbene essa dichiari di riprendere il principio di diritto secondo cui: “Nell'ipotesi in cui la sentenza contro la quale è stato proposto gravame contenga un errore materiale, l'istanza di correzione dello stesso, non essendo rivolta ad una vera e propria riforma della decisione, non deve necessariamente formare oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via incidentale, ma può essere proposta in qualsiasi forma e può anche essere implicita nel complesso delle deduzioni difensive svolte in appello, con la conseguenza che, ove l'istanza di correzione sia stata espressa in un appello incidentale, la declaratoria di inammissibilità del suddetto appello incidentale non preclude la decisione in ordine alla suddetta istanza”. Cass. n. 10447 del 1998), effettivamente cassò con rinvio una decisione di appello che non aveva tenuto conto di un'istanza di correzione.
Detta decisione, peraltro, è anteriore all'arresto delle Sezioni Unite ed alla giurisprudenza sopra richiamata.
Il Collegio rileva, in fine, che i principi qui affermati non si pongono in contraddizione con Cass. n. 19284 del 2014, la quale si è particolarmente soffermata a motivare l'affermazione che l'istanza di correzione rivolta al giudice d'appello non è motivo di gravame.
I principi che si sono sopra esposti evidenziano, in definitiva, che la doglianza non poteva integrare un motivo di ricorso per cassazione.
p.7. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore della parte resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro tremilanovecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
31-07-2015 15:43
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