Dimissioni o licenziamento orale?
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 febbraio – 5 maggio 2015, n. 8927
Presidente Stile – Relatore De Marinis
Svolgimento del processo
Con sentenza del 31 maggio 2012, la Corte d'Appello di Palermo confermava la decisione con cui il Tribunale di Sciacca accoglieva la domanda proposta da S.P. nei confronti di C.J. , titolare dell'impresa edile presso la quale il primo aveva prestato attività lavorativa come carpentiere dal febbraio al giugno 2007, allorché quell'attività veniva ad essere interrotta, domanda avente ad oggetto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto, la declaratoria di inefficacia del preteso licenziamento in quanto intimato in forma orale e comunque senza alcuna giustificazione, il pagamento delle retribuzioni dovute dal recesso alla riassunzione ed, in ogni caso il pagamento di importi residui a titolo di retribuzione e TFR.
A tale esito perveniva la Corte territoriale ritenendo assolto l'onere della prova della subordinazione in capo al lavoratore ed, al contrario, insufficiente a confutare la prospettazione di questi circa l'intimazione di un licenziamento orale quella offerta dal datore in relazione alla vicenda risolutiva del rapporto.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il C. , affidando a quattro motivi, poi illustrati con memoria, l'impugnazione, rispetto alla quale il S. è rimasto intimato.
Motivi della decsione
Con il primo motivo il ricorrente, nel denunciare il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della controversia, lamenta l'incongruità del percorso valutativo in base al quale la Corte territoriale ha maturato il convincimento per cui il rapporto di lavoro inter partes, da qualificarsi come avente natura subordinata, per non aver il ricorrente in questa sede impugnato il relativo capo della sentenza, si sia risolto a seguito del recesso del datore di lavoro intimato verbalmente e non, come sostenuto dal ricorrente, per la volontà dismissiva del lavoratore, manifestata con l'abbandono del posto di lavoro.
Deve rilevarsi a riguardo come la Corte territoriale, nella motivazione dell'impugnata sentenza, dia puntualmente conto di un iter logico-giuridico che trova saldo ancoraggio al principio di diritto enunciato da questa Corte nell'affrontare appunto il problema dell'onere della prova allorquando il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio l'inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza invece di dimissioni del lavoratore. In base a tale principio il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice del merito, tenendo conto che nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un'eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art. 2697, comma secondo, c.c. (v. da ultimo Cass. n. 21684/2011 ma già Cass. 6132/2001 e Cass 4760/2000). Coerentemente a questa impostazione la Corte territoriale ha proceduto alla verifica del sostegno probatorio della versione dei fatti prospettata dall'odierno ricorrente desumendone, con affermazione che in questa sede neppure risulta puntualmente censurata, che da parte del ricorrente medesimo non era stata offerta alcuna prova a riguardo, e che, semmai, potevano trarsi in via presuntiva argomenti di prova in senso contrario dalla prospettazione del lavoratore. Deve pertanto ritenersi che l'impugnata sentenza si sottragga alle censure in questa sede sollevate dal ricorrente, volte a contrapporre a quella della Corte una diversa ricostruzione dei fatti ed a sollecitare un nuovo giudizio di fatto inammissibile in sede di legittimità.
Con il secondo e terzo motivo, intesi a denunciare, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 604/1966, 2118 e 2119 c.c., 2697 c.c., 99 e 112 c.p.c., 414, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. e 436 c.p.c. e, in una con il vizio di contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il ricorrente lamenta l'erroneità della statuizione sanzionatoria, data dal riconoscimento al lavoratore del diritto al risarcimento del danno nella misura della retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino alla sua riammissione in servizio, e ciò per non essere stato questo fatto oggetto di specifico petitum ed essere stato attribuito in difetto della necessaria preventiva messa in mora comunicata al datore per atto scritto.
I due motivi, che, per quanto detto, è opportuno qui trattare congiuntamente, sono infondati, atteso che il risarcimento del danno è il mero effetto della perpetuatio obligationis connessa all'inadempimento dell'obbligazione originaria data dalla debenza delle retribuzioni pretesa dal lavoratore, effetto, a sua volta, insito nella messa a disposizione del datore delle proprie energie lavorative ai fini della ripresa dell'attività da parte del lavoratore, forma questa di costituzione in mora del datore di lavoro, creditore della prestazione, che non necessita di formule tipizzate e che la Corte territoriale, facendo ancora leva sull'argomento, qui neppure censurato, che, in difetto di prova da parte del datore di una versione alternativa, valorizza la presunzione di una condotta del lavoratore volta alla prosecuzione del rapporto, ha, con valutazione insindacabile in questa sede, ricondotto al ripetuto ritorno in cantiere del lavoratore nei giorni seguenti al licenziamento.
Il quarto motivo, con il quale, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c., 115, 116, 414, 416, 434, 437 c.p.c. nonché contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamenta da parte della Corte territoriale la mancata detrazione, in sede di quantificazione del risarcimento spettante, dell'aliunde perceptum, pur puntualmente dedotto ed, altresì ammesso dallo stesso lavoratore nel corso del libero interrogatorio, deve, invece, ritenersi inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso, per non aver qui il ricorrente allegato il verbale d'udienza e i documenti, che, del resto, quanto a quello prodotto in sede di gravame, egli stesso riconosce non essere stato acquisito al giudizio dalla Corte di merito con statuizione qui neppure formalmente impugnata, sui quali si fondava la pretesa di annullamento in parte qua dell'impugnata sentenza.
Il ricorso va dunque rigettato, senza attribuzione di spese in difetto di costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
06-05-2015 23:01
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