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Sentenza

Un poliziotto, per calmare una discussione, si qualifica agente di polizia, ma ciò causa una reazione ulteriormente negativa da parte dei presenti, che tentano, con insulti e minacce, di sottrarre la pistola all’agente. Anche se era fuori servizio, il suo comportamento era collegato da un nesso di occasionalità necessaria con la sua attività di agente di polizia. Parte un colpo. Il Ministero deve risarcire i danni.
Un poliziotto, per calmare una discussione, si qualifica agente di polizia, ma ciò causa una reazione ulteriormente negativa da parte dei presenti, che tentano, con insulti e minacce, di sottrarre la pistola all’agente. Anche se era fuori servizio, il suo comportamento era collegato da un nesso di occasionalità necessaria con la sua attività di agente di polizia. Parte un colpo. Il Ministero deve risarcire i danni.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 giugno – 10 ottobre 2014, n. 21408
Presidente Berruti – Relatore D'Amico

Svolgimento del processo

Con atto notificato nell'agosto 1990 F.M. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Bologna, B.M. e il Ministro dell'Interno per ottenere il risarcimento dei danni causatigli il 1 maggio 1983 dal suddetto B. , agente della Polizia di Stato, con un colpo della pistola d'ordinanza che lo aveva attinto al torace.
B.M. sostenne di avere sparato per legittima difesa personale e contestò la gravità delle lesioni lamentate.
Il Ministero contestò la ricorrenza della occasionalità dello sparo rispetto alla funzione dell'agente perché il fatto era accaduto mentre il B. , in servizio presso la Questura di Ferrara, si era recato per svago in un Luna Park di (…). Aveva quindi agito per motivi strettamente personali.
Con sentenza del 10 settembre 2002 il G.o.a. accolse la domanda attrice e condannò i convenuti in solido al pagamento di L. 296.195.523.
La Corte d'appello di Bologna ha respinto l'appello proposto dal Ministero dell'Interno contro la suddetta sentenza.
Propone ricorso per cassazione il Ministero dell'Interno con un unico motivo.
Resiste con controricorso F.M. .

Motivi della decisione

Con l'unico motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della costituzione e dell'art. 2049 del codice civile, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.”.
Assume il ricorrente che il venir meno del rapporto di immedesimazione organica, per avere l'agente agito per fini personali, fa venir meno la responsabilità della pubblica amministrazione. Il diverbio fra il gruppo al quale apparteneva il dipendente e quello del F. nacque durante una corsa in autoscontro; non si vede pertanto quale nesso possa esservi stato fra l'attività istituzionalmente demandata alla Polizia di Stato e la circostanza che un dipendente della Polizia abbia cagionato danno ad un terzo nel corso di un'attività ricreativa.
La dinamica dei fatti dimostra che il dipendente B. non agì in qualità di organo dell'amministrazione, ma al contrario, quale privato cittadino per finalità strettamente personali.
Il motivo è infondato.
La P.A. risponde infatti del fatto illecito dei propri dipendenti tutte le volte che tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente esista un nesso di occasionalità necessaria, e quest'ultimo sussiste tutte le volte che il pubblico dipendente non abbia agito come semplice privato per fini esclusivamente personali e del tutto estranei all'Amministrazione, ma abbia tenuto una condotta anche solo indirettamente ricollegabile alle attribuzioni proprie dell'agente (Cass., 29 dicembre 2011, n. 29727).
Anche la sentenza citata dal ricorrente, a p. 16 del ricorso (Cass. pen. 12731 del 2002), riconosce la responsabilità della P.A. per l'attività del pubblico dipendente, quando si tratti di attività ricollegabile, pur nella circostanza di interessi personali o di abusi del dipendente, al perseguimento di finalità della stessa P.A., sul rilievo che l'agente, anche fuori del servizio, è tenuto a tutelare l'ordine e la sicurezza pubblica ed a provvedere alla prevenzione o repressione dei reati.
Correttamente l'impugnata sentenza, con una valutazione di merito, ha ribadito che l'agente B. , in quel momento, agiva in rappresentanza dello Stato e che per calmare una discussione animata e impedire che essa degenerasse in rissa, si qualificò come agente di Polizia. Tutto ciò, anziché raggiungere lo scopo, innescò la reazione di un notevole numero di giovani che ne trassero pretesto per insulti e minaccia di impossessarsi dell'arma dell'agente.
Ad avviso dell'impugnata sentenza, in tali circostanze, l'agente agì per evitare possibili maggiori conseguenza alla propria persona e forse anche per impedire la sottrazione della pistola d'ordinanza; non dunque per fini esclusivamente personali.
Infatti, al momento del sinistro, l'agente di P.S. B.M. era fuori servizio ma il suo comportamento si trovò collegato da un nesso di occasionalità necessaria con la sua attività di agente di P.S..
Il ricorrente tende invece a rimettere in discussione l'apprezzamento dei fatti e delle prove adeguatamente motivati dalla Corte d'appello e quindi non sindacabili in questa sede.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 8.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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