Per la Cassazione debbono essere congruamente motivati il riconoscimento, la sostituzione e l’esclusione della misura di protezione.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, sentenza 14 gennaio – 20 marzo 2014, n. 6503
Presidente Macioce – Relatore Acierno
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Nella sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Napoli, confermando, secondo quanto indicato nel dispositivo, la pronuncia del giudice di primo grado, ha riconosciuto al cittadino straniero ricorrente la misura della protezione umanitaria ai sensi dell'art. 5, comma sesto, d.lgs n. 286 del 1998.
A sostegno della decisione assunta, la Corte d'Appello, nell'escludere la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico richiesto dall'appellante, osservava che dalla narrazione del richiedente non emergevano fatti di persecuzione specifica a suo danno. Egli, infatti, si era dichiarato cittadino bangla, senza produrre alcun certificato che potesse confermare tale assunto; aveva affermato di essere partito dal suo paese il 24/4/2010; di essersi diretto a Lahore; di avere raggiunto la Libia e di aver raggiunto Misurata per lavorare come architetto in una ditta di costruzioni; di aver raggiunto Lampedusa il 1/5/2011, a causa dello scoppio della guerra, precisando di essere militante nel partito politico Lega Musulmana Q e di essere dovuto scappare dal Bangladesh per questa ragione.
Secondo la Corte d'Appello, doveva essere condivisa la valutazione delle circostanze narrate eseguite dal Tribunale, e superate le eccezioni pregiudiziali, doveva essere riconosciuta la protezione umanitaria.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero, affidato a due motivi, preceduti da una disamina dei fatti così rappresentata:
il padre del ricorrente era morto dopo aver subito torture per quattro mesi il 10/9/2012 dopo che il partito Pakistan Muslim League N aveva vinto le elezioni nella regione ove risiedeva la famiglia del ricorrente ed il ricorrente medesimo; il padre del ricorrente era un esponente di spicco del partito Pakistan Muslim League Q che quelle elezioni aveva perso; era stato ucciso anche lo zio del ricorrente; tutti i familiari avevano la tessera del partito perdente; erano una famiglia in vista e gestivano uno studio di progettazione architettonica; anche il fratello, iscritto al partito era morto per le medesime ragioni.
Il Tribunale aveva riconosciuto, sulla base dei fatti narrati, la protezione sussidiaria, ritenendo abbastanza credibile il racconto del richiedente, anche in considerazione della situazione politica e storica del paese di provenienza, caratterizzata da continui attacchi provenienti dalle fazioni estremiste e da una situazione del tutto critica in ordine alla tutela dei diritti umani. L'appellante aveva richiesto, in sede d'impugnazione, il riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Nel primo motivo di ricorso veniva dedotta la violazione degli artt. 2, 5,7, 11 del d.lgs. n. 251 del 2007; degli artt. 8 ed 11 del d.lgs. n. 25 del 2008, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2009, per avere la Corte d'Appello omesso di verificare la documentazione prodotta ed avere retrocesso a semplice protezione umanitaria la protezione sussidiaria concessa dal Tribunale.
Rileva al riguardo il ricorrente che la ricostruzione dei fatti così come approfonditamente eseguita dal giudice di primo grado evidenziava l'applicabilità dell'art. 8 del d.lgs. n. 251 del 2007, ravvisandosi nella ragione di fuga del ricorrente motivi di persecuzione politica specifici, peraltro determinanti la morte del padre e del fratello. Sottolineava al riguardo che il partito opposto a quello di famiglia, nel quale il padre era stato braccio destro del sindaco, dopo aver distrutto il loro ufficio, dava ai medesimi un ultimatum per lasciare il Pakistan e torturava ferocemente il padre per essere tornato nel proprio paese solo in occasione del funerale del fratello. A causa delle torture subite il padre moriva. La polizia non li aveva in alcun modo aiutati, sostenendo di non poter intervenire e minacciando di agire contro di loro.
Per queste ragioni al ricorrente doveva essere concesso lo status di rifugiato e non vi era alcuna ragione logica per escludere anche la protezione sussidiaria, limitando la misura concessa al permesso umanitario.
Nel secondo motivo veniva dedotta la violazione dell'art. 3 e degli artt. 5,7,8 del d.lgs.n. 251 del 2007 nonché dagli artt. 27 e 32 del d.lgs n. 25 del 2008 come modificato dal d.lgs n. 158 del 2009 per avere la Corte d'Appello, dopo aver astrattamente enunciato i principi regolatori dell'onus probandi, del potere di cooperazione istruttoria rimesso al giudice, e dei criteri normativi di valutazione degli elementi di prova e delle dichiarazioni dei richiedenti nei procedimenti di protezione internazionale, ne ha del tutto disatteso la valenza cogente, limitandosi ad accettare acriticamente il percorso logico argomentativo svolto dal Tribunale. La censura viene svolta anche sotto il profilo del vizio di motivazione, in particolare per la radicale omissione di giustificazione in ordine al non riconoscimento delle condizioni per lo status di rifugiato.
I due motivi di ricorso, da trattare congiuntamente per la connessione logica che li informa, meritano accoglimento nei limiti che verranno illustrati.
La pronuncia del giudice d' appello, come correttamente evidenziato dal ricorrente, evidenzia una contraddittorietà tra dispositivo e motivazione che deve essere emendata. Nel dispositivo viene espressamente confermata la pronuncia di primo grado, di riconoscimento incontestato dello status della protezione sussidiaria, mentre nella motivazione si denomina, pur aderendo integralmente, per relationem, al tessuto motivazionale del provvedimento di primo grado, la misura riconosciuta come protezione umanitaria. Risulta, al riguardo evidente che, alla luce della espressa condivisione del percorso argomentativo della pronuncia impugnata e del contenuto inequivoco del dispositivo, deve ritenersi che al ricorrente si volesse riconoscere la protezione sussidiaria. In mancanza di un'impugnazione del Ministero dell'Interno volta ad escludere la sussistenza dei requisiti per tale misura, la sentenza d'appello, in conclusione deve ritenersi coperta da giudicato in ordine alla predetta protezione sussidiaria, della quale il ricorrente è incontestatamente e definitivamente titolare.
Ulteriore e principale oggetto dei motivi di ricorso è, tuttavia, il mancato riconoscimento dei requisiti per lo status di rifugiato politico. Al riguardo, deve osservarsi che l'esame comparativo dei requisiti relativi alla misura maggiore e quelli riguardanti la protezione sussidiaria, pongono in evidenza il differente grado di personalizzazione del rischio che deve essere accertato nelle due forme di protezione internazionale, sia con riferimento alle ipotesi descritte alle lettere a) e b) dell'art. 14 del d.lgs n. 251 del 2007 (pericolo di morte o trattamenti inumani e degradanti), sia nell'ipotesi indicata nella lettera c) del medesimo articolo. Partendo da quest'ultima norma, nella protezione sussidiaria, la situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato (sentenza Corte di Giustizia n. 172 del 2009, Caso Elgafaji contro Paesi Bassi, principio ribadito con riferimento alla definizione di conflitto armato interno nella successiva sentenza del 30/1/2014 Caso Diakitè n. 285-12) nel paese di ritorno può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale nella situazione di pericolo. In particolare, la Corte di Giustizia, nel caso Elgafaji, ha stabilito: "l'esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest'ultimo fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale;
- l'esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti impegnate con una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia".
Il principio esposto dalla Corte di giustizia ha trovato puntuale applicazione in situazione di pericolo oggettivo derivante da violenza indiscriminata perché non controllata dalle autorità statuali in Cass. 8281 del 2013.
Peraltro anche con riferimento alle altre ipotesi di protezione sussidiaria, disciplinate nelle lettere a) e b) dell'art. 14, l'esposizione al pericolo di morte o a trattamenti inumani e degradanti, pur dovendo rivestire un certo grado d'individualizzazione (per esempio, per l'appartenenza ad una comunità, ad un gruppo sociale, ad un genere, ad una fazione religiosa o politica etc.) non deve avere i caratteri più rigorosi del fumus persecutionis. La differenza con il rifugio politico si coglie, anche in queste ipotesi, nell'attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale e il pericolo rappresentato.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, deve ritenersi che le vicende descritte dal ricorrente non consentono di ritenere sussistente una condizione di persecuzione a fini politici direttamente rivolta verso la sua persona, pur esponendolo, come accertato con pronuncia coperta da giudicato, ad un serio rischio per la sua incolumità fisica in caso di rientro in Bangladesh. In particolare è emerso che il padre del ricorrente fosse direttamente oggetto di persecuzione diretta, mentre la medesima condizione non risulta caratterizzare la condizione del ricorrente. Al di là dell'appartenenza al partito del padre non è stato neanche allegato il coinvolgimento del ricorrente in attività partitiche, al contrario del proprio genitore.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto e deciso nel merito nei limiti del riconoscimento della protezione sussidiaria con applicazione del principio della soccombenza in ordine ad entrambi i gradi di giudizio. Le spese processuali devono, tuttavia, essere liquidate in favore dell'erario ex art. 133 d.p.r. n. 115 del 2002, non potendo essere accolta la richiesta di distrazione formulata dal legale della parte ricorrente nell'ipotesi di patrocinio a spese dello stato (S.U. ord. 20788 del 2012).
Non sussistono le condizioni per applicare l'art. 13 c. 1 quater dPR 115/02.
P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso per quanto di ragione, e, decidendo nel merito riconosce al ricorrente la protezione sussidiaria. Condanna l'amministrazione soccombente alla rifusione delle spese del giudizio d'appello, da liquidarsi in favore dell'Erario in Euro 1.300,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi nonché del presente procedimento che liquida in Euro 1.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
24-03-2014 18:21
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