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Sentenza

Marito infortunato sul lavoro non appaga sessualmente la moglie. Risarcibilità del danno non patrimoniale.
Marito infortunato sul lavoro non appaga sessualmente la moglie. Risarcibilità del danno non patrimoniale.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 novembre 2013 – 10 gennaio 2014, n. 386
Presidente Stile – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 14822/07 questa S.C. cassava - con rinvio alla Corte d'appello di Roma - la sentenza n. 116/2003 con cui il Tribunale di Latina (pronunciando quale giudice di secondo grado) aveva, in riforma della sentenza di prime cure emessa dal Pretore della stessa sede, condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento, in favore di S.D. , di Euro 50.000,00 a titolo di danno alla vita sessuale e di Euro 25.000,00 a titolo di danno morale, oltre interessi dalla data dell'infortunio patito il *10.2.92* dal coniuge (C.C. ) della danneggiata, da calcolarsi sulla metà dei predetti importi.
L'annullamento era stato disposto perché il Tribunale aveva fondato la propria decisione su documenti depositati in appello dalla difesa di S.D. , senza pronunciarsi sull'eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia S.p.A..
Con sentenza depositata in data 8.7.11 la Corte d'appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, rigettava l'eccezione di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito confermava la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza n. 116/2003 del Tribunale di Latina, richiamandone le motivazioni.
Estrusione Italia S.p.A. ricorre per la cassazione della sentenza della Corte territoriale affidandosi a tre motivi.
S.D. resiste con controricorso.
Nelle more la difesa di Estrusione Italia S.p.A. ha depositato la sopravvenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società medesima.

Motivi della decisione

1.1. - Si premetta l'irrilevanza, nella presente sede, della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente poiché nel giudizio di cassazione, dominato dall'impulso d'ufficio, il sopravvenuto fallimento del ricorrente non determina l'interruzione del processo (cfr., ex aliis, Cass. 17.7.13 n. 17450; Cass. 31.5.12 n. 8685; Cass. 5.7.11 n. 14786; Cass. S.U. 14.11.03 n. 17295).
2.1. - Con il primo motivo si lamenta violazione degli artt. 324 e 394 c.p.c. e vizio di motivazione nella parte in cui l'impugnata sentenza ha ritenuto che i documenti fossero stati già ritualmente depositati in prime cure unitamente al ricorso introduttivo di lite, mentre - ad avviso della società ricorrente - nel precedente giudizio di legittimità era stato pacificamente e irretrattabilmente accertato il contrario, tanto che l'annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio pronunciasse sull'eccezione di tardività della produzione sollevata ex art. 437 co. 2 c.p.c. da Estrusione Italia S.p.A..
Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere anche con il secondo motivo di ricorso, sotto forma di violazione degli artt. 414 e 437 co. 2 c.p.c. e di vizio di motivazione, non potendo la Corte territoriale ammettere tale produzione nemmeno per l'asserita indispensabilità ai fini del decidere, proprio perché essa era avvenuta solo dopo la proposizione dell'atto di gravame - in occasione della costituzione di nuovo difensore (avvenuta soltanto il 14.2.02) - e senza che la difesa di S.D. avesse in alcun modo giustificato la propria precedente inerzia.
Con il terzo motivo di ricorso ci si duole di violazione dell'art. 116 c.p.c. e di vizio di motivazione per avere l'impugnata sentenza accolto la domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che proprio alla luce della CTU prodotta (CTU che era stata espletata nel giudizio civile tra l'infortunato e la società datrice di lavoro) non esisteva un danno alla vita sessuale stricto sensu, essendosi ipotizzata una mera impossibilità di procreare (aspermia), in realtà destinata a regredire nel tempo; inoltre la S. non aveva dimostrato di volere altri figli né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale - per altro - era separata da anni. Infine, del pari era rimasto sfornito di prova il danno morale, per di più liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.
3.1. - I primi due motivi (da esaminarsi congiuntamente perché intimamente connessi fra loro) vanno disattesi.
Da un'attenta lettura della summenzionata sentenza n. 14822/07 emerge che questa S.C. non ha affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall'odierna ricorrente, ma si è limitata a cassare la sentenza n. 116/2003 del Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull'eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia S.p.A..
Dunque, nulla vietava al giudice di rinvio, alla stregua dell'art. 394 c.p.c., di accertare autonomamente se i documenti de quibus erano stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del giudizio d'appello, come espressamente affermato dall'impugnata sentenza.
Essa ha altresì evidenziato che i documenti in discorso sono stati depositati in ottemperanza all'ordinanza emessa il 28.11.01 dal Tribunale di Latina, che aveva rilevato la mancanza del fascicolo della appellante negli atti già formalmente depositati dalla S. (del che aveva già dato atto anche la citata sentenza n. 14822/07 di questa S.C.).
E infatti, proprio in calce all'atto con cui il nuovo difensore di S.D. si era costituito in appello (uno stralcio del quale è stato riprodotto nel ricorso per cassazione in oggetto) si legge la seguente annotazione di cancelleria: "Fascicolo relativo al 1^ grado ricostruito".
Deve concludersi che, non facendo il ricorso questione alcuna di erronea ricostruzione del fascicolo di parte, si tratta di documenti già depositati in primo grado (come affermato dalla Corte territoriale).
Ciò supera ogni altra censura sollevata dall'odierna ricorrente in ordine a pretese violazioni dell'art. 437 co. 2 c.p.c. o a vizi di motivazione circa l'indispensabilità dei documenti ai fini del decidere.
3.2. - Il terzo motivo di ricorso è infondato.
Premesso che il danno morale e quello sessuale e alla vita di relazione rientrano pur sempre nell'ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva, si tenga presente che la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza (cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n. 26972), in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi (regolati dall'art. 143 c.c.), come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria.
Le obiezioni svolte circa una pretesa separazione fra l'odierna controricorrente e il marito e/o quelle concernenti la scelta di non avere (altri) figli implicano accertamenti di fatto, estranei al giudizio di legittimità.
In ordine, poi, alla liquidazione dei danni per cui è causa, si noti che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo.
Ciò detto, non risponde al vero che l'impugnata sentenza abbia proceduto ad una loro liquidazione arbitraria: i giudici del rinvio hanno espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa dalla citata sentenza n. 116/2003 del Tribunale di Latina, motivazione consentita - v. art. 118 disp. att. c.p.c. nel testo novellato ex lege n. 69/2009 - se riferita ad altra pronuncia agevolmente reperibile dalle parti (cfr., ex aliis, Cass. 12.2.13 n. 3340; Cass. 22.5.12 n. 8053).
Nel caso di specie il riferimento è avvenuto ad una sentenza perfettamente conosciuta da entrambe le parti e, segnatamente, proprio da Estrusione Italia S.p.A., che l'aveva specificamente impugnata mediante ricorso per cassazione anche riguardo alla prova del danno e alla sua liquidazione (come risulta dalla lettura della citata sentenza n. 14822/07 di questa S.C.).
Per il resto, le doglianze mosse dalla società ricorrente in sostanza si limitano a sollecitare soltanto un nuovo apprezzamento in punto di fatto del materiale di causa.
4.1. - In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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