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Sentenza

I giudici ecclesiastici ritengono dissolto il vincolo matrimoniale perchè l'uomo, sin dal si fatidico, non intendeva mantenere a lungo la durata del matrimonio. I Giudici italiani non riconoscono la riserva mentale dell'uomo sufficiente a inficiare il vincolo matrimoniale civile.
I giudici ecclesiastici ritengono dissolto il vincolo matrimoniale perchè l'uomo, sin dal si fatidico, non intendeva mantenere a lungo la durata del matrimonio. I Giudici italiani non riconoscono la riserva mentale dell'uomo sufficiente a inficiare il vincolo matrimoniale civile.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 28 gennaio – 14 marzo 2014, n. 6032
Presidente Luccioli – Relatore Didone

Ritenuto in fatto e in diritto

1.- A.M. ha proposto ricorso per cassazione - affidato a due motivi - contro la sentenza della Corte di appello di Perugia (depositata il 14.5.2012) con la quale è stata rigettata la sua domanda di delibazione di sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio contratto con E.Z.
Resiste con controricorso l'intimata.
1.1.- Secondo la Corte territoriale dalla stessa sentenza ecclesiastica emergeva che l'attore non aveva mai comunicato alla propria fidanzata l'intenzione di recuperare la libertà qualora il matrimonio fosse fallito, pur avendone parlato con la propria madre, la sorella e altri, mentre la Z. - secondo lo stesso attore - «avrebbe potuto intuire da tutto il contesto» la sua volontà. Elementi giudicati insufficienti dalla corte di merito per ritenere che la convenuta potesse comprendere l'intenzione dell'attore «posto che un'infedeltà durante il fidanzamento o altre criticità del rapporto non potevano da sole far comprendere quali fossero le reali intenzioni del proprio fidanzato riguardo all'indissolubilità del vincolo matrimoniale». Né la parte attrice aveva indicato al riguardo elementi utili per una siffatta valutazione.
2.1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia «omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) anche in relazione all'art. 111 Cost.».
Deduce che il giudice ecclesiastico ha ritenuto provata la conoscibilità dell'esclusione del bonum sacramenti da parte dell'attore e tale statuizione non poteva essere oggetto di riesame da parte del giudice della delibazione.
In particolare (e in estrema sintesi), il ricorrente, dopo una lunga premessa sul contenuto del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c., lamenta l'omessa considerazione, da parte della Corte territoriale, delle proprie deduzioni difensive e di quelle della resistente nonché degli accertamenti contenuti nella sentenza canonica, in ordine all'idoneità a provare la conoscibilità dell'esclusione del bonum sacramenti: a) della circostanza relativa alla "confessio simulantis" da parte resistente dinanzi al giudice ecclesiastico; b) della problematicità della relazione prenuziale delle parti; c) del comportamento postnuziale (l'immediato fallimento del matrimonio consentirebbe di dedurre quello antecedente o quanto meno sarebbe compatibile con esso).
2.2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 8 dell'Accordo di Villa Madama tra la Repubblica e la Santa Sede nonché dei canoni 1055-1057 e 1101, § 2 CIC.
Deduce che la norma richiamata attiene alla conoscibilità di un'esclusione del bonum sacramenti ex parte viri, non già al contenuto specifico di detta esclusione.
3.- I due motivi del ricorso - che possono essere esaminati congiuntamente - là dove non sono inammissibili perché veicolano censure in fatto, sono infondati.
3.1.- Giova premettere, quanto al primo, che anche dopo la riforma di cui al d.lgs. n. 40/2006 - applicabile ratione temporis - il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perché la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza,       e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Sez. U, n. 5802/1998; Sez. U, n. 13045/1997; Sez. I, n. 5205/2010).
3.2.- Ciò premesso, va ribadito che la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei "bona matrimonii", postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all'altro coniuge, ovvero che sia stata da questo in effetti conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all'ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole. In quest'ambito, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l'oggettiva conoscibilità dell'esclusione anzidetta da parte dell'altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall'altro, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria; inoltre, il convincimento espresso dal giudice di merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell'altro costituisce, se motivato secondo un logico e corretto "iter" argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità, sebbene la prova della mancanza di negligenza debba essere particolarmente rigorosa e basarsi su circostanze oggettive e univocamente interpretabili che attestino la inconsapevole accettazione dello stato soggettivo dell'altro coniuge (Sez. 1, Sentenza n. 3378 del 05/03/2012).
In particolare, va ricordato che il convincimento del giudice di merito ai fini della decisione ed, in particolare, l'affermazione o l'esclusione, ad opera di quest'ultimo, che la riserva mentale di uno dei coniugi relativa ad uno dei bona matrimonii fosse conosciuta (o, comunque, conoscibile con l'uso della normale diligenza) da parte dell'altro, costituisce, se motivata secondo un logico e corretto iter argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità, ove non è lecito proporre, sotto il surrettizio profilo del preteso vizio di motivazione, doglianze in ordine all'apprezzamento dei fatti e delle prove operato dal giudice di merito, proponendone altri, diversi ed alternativi, rispetto a quello censurato (Cass. 2 settembre 1997, n. 8386; Cass. 4 luglio 1998, n. 6551; Sez. 1, Sentenza n. 24047 del 2006).
La Corte di appello si è attenuta a questo criterio in quanto ha reso sul punto una motivazione congrua e logica (innanzi sintetizzata sub § 1.1) í incensurabile in sede di legittimità.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nella misura determinata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Avv. Antonino Sugamele

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