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Sentenza

Un volontario della Croce Rossa durante il trasporto in ospedale di una paziente in stato di delirio psicotico, le sfila gli slip e le scopre il seno, riprendendola in video con un cellulare trasferendo il filmato sul proprio computer.
Un volontario della Croce Rossa durante il trasporto in ospedale di una paziente in stato di delirio psicotico, le sfila gli slip e le scopre il seno, riprendendola in video con un cellulare trasferendo il filmato sul proprio computer.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 marzo – 28 giugno 2013, n. 28280
Presidente Marasca – Relatore Oldi

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 12 dicembre 2011 il Tribunale di Varese ha assolto M..M. dalle imputazioni, tra le altre, di violenza privata ai danni di A.R..R. , per insussistenza del fatto, e di trattamento illecito di dati riguardanti la stessa R. , con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
1.1. In fatto era accaduto che il M. , volontario della Croce Rossa addetto al servizio di pronto intervento, durante il trasporto di una paziente, trovata semivestita e in stato di delirio psicotico, le avesse sfilato gli slip e avesse spostato il lenzuolo scoprendole il seno, riprendendola in video con un telefono cellulare e trasferendo poi il filmato sul proprio computer.
1.2. La pronuncia assolutoria in ordine al delitto di violenza privata è stata motivata in base all'assenza di qualsiasi componente di violenza nell'azione del M. , il quale non aveva posto in atto alcun mezzo anomalo diretto ad esercitare pressioni sulla volontà della R. , ma si era limitato ad approfittare dell'incapacità di autodeterminazione della donna. Quanto alla registrazione del filmato, ha giudicato il Tribunale che fossero carenti il nocumento della persona offesa e il dolo specifico costituito dalla finalità di trame profitto, atteso che il video non era stato diffuso, né pubblicato, ma soltanto conservato su un CD-ROM.
2. Ha proposto ricorso diretto per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Varese, deducendo censure riconducibili a due motivi.
2.1. Col primo motivo il P.M. ricorrente denuncia violazione dell'art. 610 cod. pen., per avere il giudice di merito omesso di considerare che lo stato di incapacità in cui versava la paziente era tale da escludere l'esistenza di un tacito consenso; si richiama al principio giurisprudenziale secondo cui si ha violenza privata quando vengano effettuate riprese video all'insaputa del soggetto passivo del reato.
2.2. Col secondo motivo il ricorrente osserva che le immagini conservate sul CD-ROM non erano rimaste riservate, ma erano girate fra i volontari della Croce Rossa; rileva, altresì, non essere richiesta la condizione oggettiva del nocumento dal secondo comma dell'art. 167 d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196; quanto al dolo specifico, osserva doversi intendere il profitto in senso ampio, comprendente qualsiasi utilità materiale o morale che il reo si prefigga.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
1.1. Alla stregua di un principio già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 1, n. 6271 del 19/01/1990, Isaia, Rv. 184195), che va qui ribadito, la violenza richiesta perché possa dirsi integrato il delitto di violenza privata consiste in un'energia fisica che può esercitarsi sulle persone, ma anche sulle cose (v. anche Sez. 5, n. 21559 del 09/03/2010, Loreggian, Rv. 247757); e tale costrizione di altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa può essere realizzata con i mezzi più diversi, la cui idoneità va valutata anche in rapporto alle condizioni fisiche e psichiche del soggetto passivo.
Alla luce di tal regula iuris devono ravvisarsi gli estremi della violenza, secondo la nozione dianzi delineata, nella condotta di chi esponga - senza giustificazione connessa a esigenze di carattere terapeutico - la nudità di una persona approfittando dell'alterazione psichica in cui essa si trova per effetto di un patologico stato di confusione e agitazione: ciò traducendosi in una coartazione di fatto della libera autodeterminazione del soggetto passivo, attuata vincendo - col supporto della sua incapacità ad opporsi - la riservatezza che è propria di ogni essere umano quando sia presente a se stesso; a maggior ragione illecita è tale condotta sotto il profilo della violenza sulle cose quando, per realizzarla, si faccia luogo alla manomissione di indumenti o di altre coperture (come è a dirsi, nella fattispecie, di un lenzuolo) costituenti in quel momento l'unico presidio dell'intimità fisica della persona.
La sentenza con cui il Tribunale è pervenuto alla pronuncia assolutoria, motivandola col negare la configurabilità del delitto ex art. 610 cod. pen. per insussistenza dell'elemento oggettivo della violenza, si pone in contrasto coi principi suesposti e deve essere, conseguentemente, cassata.
2. Parimenti non resiste al vaglio di legittimità il disconoscimento degli estremi del delitto di cui all'art. 167, comma 2, del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 in un caso in cui, secondo la ricostruzione emersa dal giudizio di merito, la condotta sub iudice sia consistita nell'avere registrato su un telefono cellulare le immagini che mostravano la persona offesa spogliata e in fase delirante, e nell'aver duplicato il filmato su un computer dal quale, ad opera di chicchessia, sia stato poi tratto un CD-ROM passato in visione ad altri.
2.1. Muovendo dalla definizione normativa del “trattamento” di dati, fornita dall'art. 4, comma 1, lett. a) del citato decreto legislativo, per affermarne la configurabilità in concreto - anche a prescindere dalla illiceità della videoregistrazione di sequenze idonee a mostrare le condizioni fisiche e mentali di una persona incapace di fornire un valido consenso - basta considerare la duplicazione di un filmato dall'apparecchio registratore ad altro supporto informatico. Neppure può esservi dubbio circa il carattere sensibile dei dati codificati nel video, quando le immagini registrate palesino le condizioni di salute mentale in cui si trovava la paziente al momento della ripresa.
2.2. Secondo il giudice di merito non ricorrerebbero gli estremi della fattispecie descritta dalla norma incriminatrice per carenza del requisito di carattere oggettivo costituito dal nocumento per la persona offesa, nonché di quello soggettivo costituito dal fine di trarre profitto per sé o per altri, ovvero di recare un danno. Ma l'interpretazione della norma che è alla base di tale duplice ratio decidendi non può essere condivisa.
La nozione di “nocumento” (evocata in effetti anche dal secondo comma del citato art. 167 d. lgs. 196/2003, contrariamente a quanto sostenuto dal P.M. ricorrente) non è necessariamente riconducibile a conseguenze di ordine patrimoniale: è invece possibile ravvisarne la sussistenza quando dal trattamento dei dati sensibili derivino, in forma diretta o indiretta, effetti pregiudizievoli per la persona offesa sotto il profilo morale, quale una menomazione della sua dignità. Di ciò il Tribunale non ha tenuto conto, omettendo conseguentemente di interrogarsi sull'esistenza della condizione di punibilità sotto tale profilo.
Del pari non è strettamente connessa a criteri di carattere patrimoniale la nozione di “profitto”, quale oggetto del dolo specifico richiesto dalla norma. Come già più volte ha osservato la giurisprudenza di legittimità occupandosi di altri reati per i quali, ugualmente, il profitto viene in considerazione ai fini del dolo specifico (artt. 628, 633 cod. pen.) o quale evento del reato (art. 629 stesso cod.), esso può concretarsi in qualsiasi utilità, anche soltanto morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione (Sez. 2, n. 49265 del 07/12/2012, Iudice, Rv. 253848; Sez. 2, n. 8107 del 30/05/2000, Pompei, Rv. 216525; Sez. 2, n. 29563 del 17/11/2005 - dep. 04/09/2006, Calabrese, Rv. 234963).
Anche in ordine alla configurabilità del reato di trattamento illecito di dati, pertanto, la pronuncia è viziata da inosservanza di legge.
3. Deve quindi disporsi l'integrale annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Milano, quale giudice designato ai sensi dell'art. 569, comma 4, cod. proc. pen..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Milano per il relativo giudizio.
Avv. Antonino Sugamele

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