Un docente di matematica viene diffamato dal Preside dove insegna: aveva scritto una lettera al Provveditore con toni diffamatori. Termine per proporre domanda di risarcimento.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 12 aprile – 15 maggio 2013, n. 11775
Presidente Uccella – Relatore Vincenti
Ritenuto in fatto
1. - Con sentenza resa pubblica il 2 aprile 2007, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame interposto da P.V. , riformava integralmente la sentenza del Tribunale della medesima città che aveva condannato lo stesso appellante al risarcimento dei danni, nella misura di Euro 10.300,00, oltre interessi e le spese del doppio grado di giudizio, in favore di L..C. , cosi rigettando la domanda risarcitoria da quest'ultimo proposta, lamentando di esser stato diffamato dal P. , Preside dell'Istituto scolastico in cui esso C. prestava servizio come docente di matematica, per le espressioni usate in una relazione inviata al Provveditorato agli Studi di Roma il 3 dicembre 1992.
La Corte territoriale riteneva fondata l'eccezione di prescrizione sollevata dal P. , osservando in fatto che la relazione a contenuto diffamatorio era stata inviata il 3 dicembre 1992, l'esercizio dell'azione penale mediante querela da parte del C. si era conclusa con la condanna del P. , per il reato di cui all'art. 595 cod. pen., divenuta definitiva il 17 gennaio 2000, mentre l'azione civile era stata esercitata con atto di citazione notificato il 13 giugno 2001. Posto che doveva applicarsi la prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947, primo comma, cod. civ. (per essere identico il termine prescrizionale civile e quello del reato di diffamazione, in base all'art. 157, n. 4, cod. pen.), con decorrenza dal giorno del fatto (13 dicembre 1992), l'azione civile (iniziata il 13 giugno 2001) era, dunque, prescritta, non essendovi prova di cause interruttive ai sensi dell'art. 2943 cod. civ. e non potendo avere effetto "atti interruttivi intervenuti in sede penale".
2. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre C.L. sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso V..P. , che, a sua volta, ha proposto ricorso incidentale sulla base di un unico motivo.
Considerato in diritto
1. - In forza dell'art. 335 cod. proc. civ., vanno riunite le distinte impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza.
2. - Con il primo mezzo del ricorso principale del C. è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 2947 cod. civ. in rapporto all'art. 157 cod. pen..
Sarebbe errata l'interpretazione della Corte territoriale, in quanto essa non tiene conto che l'art. 157 cod. pen., sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, fissa un termine di prescrizione del reato comunque non inferiore a sei anni, che deve trovare applicazione al reato di diffamazione di cui all'art. 595 cod. pen., la cui pena edittale massima non supera in ogni caso i tre anni. Sicché, dovendo nella specie spiegare effetti la nuova norma di cui all'art. 157 cod. pen., intervenuta nel corso del giudizio di appello, ed essendo il relativo termine prescrizionale superiore a quello quinquennale civilistico, avrebbe dovuto trovare applicazione la seconda parte del terzo comma dell'art. 2947 cod. civ., che fa decorrere la prescrizione dalla data "in cui la sentenza è divenuta irrevocabile", con la conseguenza che l'azione civile, nella specie, non era prescritta, in quanto esercitata dopo un anno dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna del P. .
Viene formulato il seguente quesito di diritto, relativo alla "applicabilità dell'art. 157 c.p. in rapporto all'art. 2947 c.c., nella nuova formulazione, relativamente a tutti i processi in corso e, conseguentemente, con il diritto della parte lesa a poter esercitare l'azione civile nei termini di prescrizione che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna del responsabile".
2. - Con il secondo mezzo dello stesso ricorso è prospettata la violazione dell'art. 2935 cod. civ..
Si deduce l'erroneità della decisione della Corte territoriale là dove ha fatto decorrere il termine di prescrizione dal giorno del fatto e non già dall'accertamento del fatto-reato compiuto dal giudice penale in modo definitivo, prima del quale esso danneggiato non avrebbe potuto agire in sede civile.
Il formulato quesito di diritto "è quello di interpretare l'articolo 2935 c.c. nel senso che la prescrizione in sede civilistica comincia a decorrere, in quelle situazioni in cui il presupposto del risarcimento sia l'accertamento di un reato, dal passaggio in giudicato della sentenza che accerti per l'appunto il fatto-reato medesimo".
3. - I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.
È giuridicamente corretto, anzitutto, il riferimento, da parte della Corte territoriale, al termine di prescrizione del reato di diffamazione di anni cinque, siccome risultante dal combinato disposto di cui agli artt. 595 e, del previgente, 157, primo comma, n. 4, cod. pen., non trovando nella specie applicazione il più lungo termine prescrizionale
di anni sei previsto dall'art. 157 cod. pen., come modificato dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251.
A tal fine risulta assorbente rilevare che il giudizio penale in danno del P. si era concluso con ordinanza di inammissibilità di questa Corte in data 17 gennaio 2000 (che rese definitiva la condanna del predetto per il reato di diffamazione in danno del C. ) e, quindi, in epoca di gran lunga precedente a quella in cui è intervenuta la legge n. 251 del 2005, modificatrice del termine prescrizionale del reato in questione.
Peraltro, la tesi che intende accreditare il ricorrente si scontra in ogni caso con il dato normativo rappresentato dall'art. 10, comma 2, della evocata legge n. 251 del 2005, il quale stabilisce che, ove il termine prescrizionale base di sei anni per i delitti costituisca un allungamento del previgente termine di prescrizione del reato (come, nella specie), il più lungo termine di prescrizione non trova applicazione "ai procedimenti e ai processi in corso", con ciò comunque riferendosi, con tutta evidenza, a quelli in sede penale.
Ne consegue, dunque, che, venendo in rilievo nel caso di specie il termine di prescrizione del reato di diffamazione fissato in base al regime previgente alla legge n. 251 del 2005 e, quindi, più breve di quello stabilito per il diritto al risarcimento, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione del principio enunciato, tra le altre, da Cass., 18 aprile 2001, n. 5693 (e recentemente ribadito da Cass., 9 ottobre 2012, n. 17142), secondo cui "l'art. 2947 terzo comma seconda parte cod. civ., il quale, in ipotesi di fatto dannoso considerato dalla legge come reato, stabilisce che, se il reato e estinto per causa diversa dalla prescrizione, od e intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (cinque anni e due anni) con decorso dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza e divenuta irrevocabile, si riferisce, alla stregua della sua formulazione letterale e collocazione nel complessivo contesto di detto terzo comma nonché della finalità perseguita di tutelare l'affidamento del danneggiato circa la conservazione dell'azione civile negli stessi termini utili per l'esercizio della pretesa punitiva dello stato, alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento. Pertanto, qualora la prescrizione del reato sia uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, resta inoperante la norma indicata, ed il diritto medesimo è soggetto alla prescrizione fissata dai primi due commi dell'art. 2947 cod. civ., con decorrenza dal giorno del fatto".
Di qui, dunque, l'ulteriore, e anch'essa corretta, inferenza, da parte del giudice del merito, in ordine alla prescrizione dell'azione civile esercitata dal C. con atto di citazione del giugno 2001, essendo ampiamente maturato il relativo termine quinquennale, decorrente dal fatto diffamatorio concretatosi nel dicembre 1992.
4. - Con l'unico mezzo del ricorso incidentale del P. è dedotta violazione di legge per erronea applicazione dell'art. 92 cod. proc. civ..
Ci si duole della parziale compensazione delle spese processuali di primo grado, operata dal giudice di appello in assenza di qualsivoglia motivazione, giacché il Tribunale aveva condannato esso P. alla rifusione delle spese di lite in favore del C. nella misura di Euro 3.875,00 -somma interamente versata alla controparte - mentre la Corte territoriale ha condannato il C. alla rifusione delle spese di primo grado in favore di esso P. nella misura di Euro 3.200,00.
Viene, quindi, formulato il seguente quesito di diritto: "Dica codesta Ecc.ma Corte se la Corte d'appello nel disporre senza alcuna motivazione la parziale compensazione delle spese del primo grado di giudizio abbia fatto erronea applicazione dell'art. 92 c.p.c. anche in considerazione del fatto che le ragioni della suddetta compensazione non erano desumibili dal contesto complessivo della motivazione della sentenza".
4.1. - Il motivo è inammissibile, giacché non coglie la ratio decidendo, della statuizione oggetto di censura.
Difatti, la Corte territoriale, contrariamente a quanto opinato dal ricorrente incidentale, non ha proceduto ad alcuna compensazione parziale delle spese di primo grado in forza dell'art. 92 cod. proc. civ., ma, in applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ., ha condannato il soccombente C. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, che lo stesso giudice di appello ha provveduto a liquidare.
Tale pronuncia sulle spese si sostituisce integralmente a quella di primo grado, sicché, ove effettivamente il P. abbia corrisposto al C. le spese liquidate nella sentenza di primo grado, si porrà soltanto un problema di restituzione di quanto versato, ma non già una questione investente la regolamentazione delle spese processuali ai sensi della disciplina dettata dagli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
5. - Va, dunque, rigettato il ricorso principale e dichiarato inammissibile quello incidentale; in ragione della reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità devono essere interamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi;
rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale, compensando interamente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
16-05-2013 23:14
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