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Sentenza

Un avvocato denuncia un giudice perchè in una causa per separazione personale avrebbe avvantaggiato il coniuge dello stesso genere, denegando giustizia e ritenendo gravi omissioni, oltre che abuso d’ufficio. Il legale viene condannato per calunnia e la Cassazione rinvia il giudizio solo per aspetti di rideterminazione pena. Nelle more del rinvio non può maturare la prescrizione.
Un avvocato denuncia un giudice perchè in una causa per separazione personale avrebbe avvantaggiato il coniuge dello stesso genere, denegando giustizia e ritenendo gravi omissioni, oltre che abuso d’ufficio. Il legale viene condannato per calunnia e la Cassazione rinvia il giudizio solo per aspetti di rideterminazione pena. Nelle more del rinvio non può maturare la prescrizione.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17 ottobre - 7 novembre 2013, n. 44949
Presidente Prestipino – Relatore Davigo

Ritenuto in fatto

La Corte d'Appello di Messina, con sentenza 19/2/2007, confermava la pronuncia di condanna alla pena, condizionalmente sospesa, di anni due di reclusione emessa il 21/2/2003 dal Tribunale della stessa città nei confronti di F..A. , dichiarato colpevole del reato di cui all'art. 368 c.p., perché, quale avvocato difensore di D..Z. e in concorso col medesimo (condannato non ricorrente), con atto di opposizione a precetto presentato il 27/2/1995 presso il Tribunale civile di Reggio Calabria, aveva incolpato, sapendola innocente, la dr.ssa Concertina Epifanio, giudice istruttore della causa di separazione personale tra i coniugi D..Z. e R..P. , di avere tenuto "una inoperosa condiscendenza alla tesi P. ... per diniego di giustizia", di avere omesso di modificare, come richiesto, il provvedimento presidenziale relativo all'affidamento dei figli e alla misura dell'assegno di mantenimento, di non essersi adoprata "a fare giustizia", di avere agito con tacita compiacenza, accusandola sostanzialmente di omissione di atti d'ufficio e di abuso d'ufficio.
Il Giudice distrettuale, dopo avere sottolineato che l'atto di opposizione incriminato era quello depositato presso la cancelleria civile per la relativa iscrizione a ruolo e che non v'era quindi la necessità di acquisire, come sollecitato, l'originale dello stesso atto, ravvisava nel contenuto di questo, che si concludeva con una espressa denunzia-querela contro il magistrato, gli estremi della calunnia, essendo risultate del tutto infondate e pretestuose le accuse formulate ed avendo avuto l'agente, con l'esorbitare dai limiti del mandato defensionale conferitogli, piena consapevolezza dell'innocenza della persona incolpata.
A seguito di ricorso la Corte suprema di cassazione, Sezione 6A penale, con sentenza in data 1.7.2009, dep. in data 8.9.2009, annullò la sentenza limitatamente alla mancata risposta alla richiesta di attenuanti generiche, con rinvio alla Corte d'appello di Catanzaro, rigettando nel resto il ricorso.
La Corte di rinvio, con sentenza in data 3.12.2012, confermava la pronunzia di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato deducendo:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche; la condotta ascritta all'imputato era una sorta di eccesso nell'espletamento del mandato difensivo e ciò avrebbe dovuto indurre ad una valutazione meno grave del comportamento; invece siffatta situazione, al limite di un coinvolgimento quasi colposo, è divenuta nella pronunzia del giudice di rinvio una valutazione di maggior gravità del fatto;
2. violazione della legge processuale e sostanziale in relazione alla ritenuta improponibilità della questione relativa all'estinzione del reato per prescrizione;
3. illegittimità costituzionale dell'art. 650 cod. proc. pen. in relazione all'art. 27 comma 2 Cost. in quanto il fondamento della possibilità di declaratoria di prescrizione starebbe nella necessità che il superamento della presunzione di innocenza dell'imputato con sentenza definitiva avvenga entro un certo tempo; accertamento di responsabilità e determinazione della pena sarebbero momenti inscindibili sicché non potrebbe essere frazionata la irrevocabilità della pronunzia di condanna e la diversa interpretazione porrebbe una questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata.

Considerato in diritto

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e proposto fuori dai casi consentiti.
La Corte di rinvio ha ritenuto che la qualità di operatore di giustizia dell'imputato comportasse il dovere di rispettare non solo la legge penale, ma anche le norme deontologiche e di correttezza, il che connotava di maggiore consapevolezza con conseguente intensità del dolo il suo comportamento e di maggiore gravità il fatto.
In tale motivazione non si ravvisa alcuna manifesta illogicità ed è insindacabile in sede di legittimità il diniego delle attenuanti generiche motivato dal giudice di merito con esclusivo riferimento alla non arbitrariamente ritenuta particolare gravità del fatto. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12595 del 16/11/1998 dep. 01/12/1998 Rv. 211774).
Il secondo motivo di ricorso e la questione di legittimità costituzionale sono manifestamente infondati, inoltre la questione di legittimità costituzionale dell'art. 650 cod. proc. pen. non è rilevante.
Questa Corte ha chiarito che, in caso di annullamento parziale della sentenza, qualora siano rimesse al giudice del rinvio le questioni relative al riconoscimento delle attenuanti generiche e alla determinazione della pena, il giudicato formatosi sull'accertamento del reato e della responsabilità impedisce la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione sopravvenuta alla pronuncia d'annullamento. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8039 del 09/02/2010 dep. 01/03/2010 Rv. 246806, già richiamata nella sentenza impugnata).
Tale pronunzia aveva così motivato:
“... la giurisprudenza di legittimità ha affermato da tempo che qualora venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, il giudicato (progressivo) formatosi sull'accertamento del reato e della responsabilità dell'imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l'applicazione di cause estintive sopravvenute all'annullamento parziale (Cass., Sez. Un., 26 marzo 1997, Attinà; Cass., Sez. Un., 19 gennaio 1994, Cenerini; Cass., Sez. Un., 11 maggio 1993, Ligresti; Cass., Sez. Un., 23 novembre 1990, Agnese). In particolare la citata sentenza Attinà ha precisato che la possibilità di applicare l'art. 129 c.p.p. in sede di rinvio, con speciale riferimento alle cause estintive del reato sopravvenute all'annullamento, sussiste solo nei limiti della compatibilità con la decisione adottata in sede di legittimità e con il conseguente spazio decisorio attribuito in via residuale al giudice di rinvio, sicché, formatosi il giudicato sull'accertamento del reato e della responsabilità dell'imputato, dette cause sono inapplicabili non avendo possibilità di incidere sul decisum.
La ratio di tali conclusioni risiede nella specialità della forza precettiva dell'art. 624 c.p.p., comma 1, a norma della quale se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata: è dunque indubbiamente riconosciuta dalla legge l'autorità del giudicato sia ai capi che ai punti della sentenza non oggetto di annullamento (Sez. un., 19.1.2000, Tuzzolino).
È vero che tale effetto non rappresenta l'espressione di un principio applicabile al di fuori della specifica situazione dell'annullamento parziale, dato che il precetto detta una regolamentazione particolare, attinente unicamente ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio, la quale, dunque, è legata indissolubilmente alle peculiari connotazioni delle sentenze della Corte di cassazione ed alla intrinseca irrevocabilità connaturata alle statuizioni dell'organo posto al vertice del sistema giurisdizionale (di talché, nel corso del giudizio ordinario di cognizione, sui punti che non costituiscono oggetto di gravame non si forma il giudicato ma solo una preclusione al loro esame, con la conseguenza che, non essendo intervenuta decisione irrevocabile sull'intero capo, è sempre applicabile la causa di estinzione sopravvenuta: Sez. un., 19.1.2000, Tuzzolino); ma nella specie si verte proprio in un'ipotesi specifica di annullamento parziale, con rinvio limitato esclusivamente alla sanzione da rideterminare, con il conseguente avvenuto passaggio in giudicato della statuizione sulla responsabilità e l'irrilevanza del successivo spirare del termine prescrizionale.
Né vale richiamare la più recente decisione delle Sezioni unite del 17.10.2006 in proc. Michaeler, la quale - intervenuta sul tema dei limiti dell'appello incidentale, e dunque su quesito concernente il giudizio di cognizione in senso stretto, e non quello di rinvio - si è limitata a reiterare i principi affermati dalla citata sentenza Tuzzolino in tema di distinzione fra punti e capi della sentenza, senza affrontare né tanto meno rimettere in discussione i principi giurisprudenziali in tema di giudicato parziale determinato dalle sentenza di annullamento della Corte di cassazione...”.
Posta in questi termini la questione emerge all'evidenza da un lato che il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e dall'altro lato la non rilevanza della questione di legittimità costituzionale prospettata.
Infatti nel caso in esame non viene in rilevo l'art. 650 cod. proc. pen., del quale è denunziata l'illegittimità costituzionale, bensì l'art. 624 comma 1 cod. proc. pen., il quale stabilisce che se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata.
Peraltro tale questione è manifestamente infondata anche se la si volesse riferire all'art. 624 cod. proc. pen..
Poiché la questione di legittimità costituzionale viene formulata sul presupposto che il superamento della presunzione di innocenza debba avvenire entro un certo termine, la stessa involge il principio della ragionevole durata del processo, su cui questa Corte si è soffermata, affermando che è manifestamente infondata la questione di costituzionalità per violazione del principio della ragionevole durata del processo, degli artt. 624 e 627 comma terzo cod.proc.pen., là dove non consentono di dichiarare estinto il reato per la maturazione del termine di prescrizione decorso nel giudizio di rinvio disposto soltanto per la rideterminazione della pena, in quanto, da un lato, non si può ritenere la punibilità elemento costitutivo del reato, come tale in grado di condizionarne il perfezionamento; dall'altro lato, vige il principio della formazione progressiva del giudicato, che si forma, in conseguenza del giudizio della Corte di cassazione di parziale annullamento dei capi della sentenza e dei punti della decisione impugnati, su quelle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, quale quella relativa all'accertamento della responsabilità in merito al reato ascritto, che diventano non più suscettibili di ulteriore riesame. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15472 del 20/02/2004 dep. 01/04/2004 Rv. 228499).
Tale sentenza aveva così argomentato:
“... é, infatti, indirizzo giurisprudenziale ormai costante, avallato più volte dalle Sezione Unite della Suprema Corte nel giro di pochi anni, quello secondo cui l'art. 624 c.p.p., quando si riferisce a parti della sentenza che diventano irrevocabili a seguito del giudizio della Corte di Cassazione di parziale annullamento con rinvio, intende richiamarsi a qualsiasi statuizione avente un'autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo alle decisioni che concludono il giudizio in relazione ad un determinato capo di imputazione, ma anche a quelle che, nell'ambito della stessa contestazione, individuano aspetti non più suscettibili di riesame. Ne deriva che, anche in relazione a questi ultimi, la decisione adottata, benché non ancora eseguibile, acquista autorità di cosa giudicata, quale che sia la ampiezza del relativo contenuto, in virtù della c.d. formazione progressiva del giudicato (Cass. SS.UU.: n. 2/97, Attinà; n. 4460/94, Celerini ed altri; n. 6019/93, Ligresti e altri; ud. 23.11.90, Agnese e altri e, da ultimo, la più recente, resa alla udienza del 19.1.2000, ruzzolino).
Anche nel giudizio penale, infatti, il giudicato può avere una formazione non simultanea, bensì progressiva: ciò avviene sia quando una sentenza di annullamento parziale venga pronunciata nel processo cumulativo e riguardi solo alcuni degli imputati ovvero alcune delle imputazioni, sia quando detta pronuncia abbia ad oggetto una o più statuizioni relative ad un solo imputato e ad un solo capo di imputazione, che anche in tal caso il giudizio si esaurisce in relazione a tutte le disposizioni non annullate; ne consegue che la competente autorità giudiziaria può legittimamente porre in esecuzione il titolo penale per la parte divenuta irrevocabile, nonostante il processo, in conseguenza dell'annullamento parziale, debba proseguire in sede di rinvio perla nuova decisione sui capi annullati (Cass. SS.UU., 20/96 Vitale).
Inoltre, il principio della formazione progressiva del giudicato -desumibile da una corretta interpretazione del disposto dell'art. 545, comma primo, c.p.p. del 1930 e, parallelamente, dell'art. 624, comma 1 del nuovo codice di rito-, che ne imposta la configurabilità in ordine alle parti non annullate della sentenza, concernenti l'esistenza del reato e la responsabilità dello imputato e non in rapporto di concessione essenziale con quelle annullate, legittima la conclusione che esclude la operatività delle cause di estinzione del reato, relativamente alle parti della decisione sulle quali si è formato il giudicato, non potendo l'art. 152 c.p.p. del 1930 e l'art. 129 del nuovo codice di rito, che pur prevede l'efficacia di dette cause in ogni stato e grado del procedimento, superare la "barriera del giudicato, essendosi per quelle parti della sentenza, che tale autorità hanno acquistato, ormai concluso, in maniera definitiva, il loro iter processuale (Cass. SS. UU. n. 4460/94, Celerini; n. 2/97, Attinà).
In tema, ancora, di annullamento parziale della sentenza impugnata da parte della Cassazione, le SS.UU., con più recente pronuncia (ud. 19.1.2000 - Ruzzolino), hanno posto in rilievo, rifacendosi al conforme filone giurisprudenziale della Corte, la distinzione tra capi e punti della sentenza, da tempo utilizzata anche dalla dottrina per individuare l'ambito dell'effetto devolutivo dei mezzi di impugnazione e le situazioni processuali in presenza delle quali è giustificativo configurare il giudicato.
Al riguardo, nel sistema delle impugnazioni, la nozione di capo della sentenza è riferita soprattutto alla sentenza plurima o cumulativa, caratterizzata dalla confluenza nello unico processo dell'esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione, sicché per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato. Può, quindi, affermarsi che il capo corrisponde ad un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza: ond'è che la sentenza che conclude una fase o un grado del processo può assumere struttura monolitica o composita, a seconda che l'imputato sia stato chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati, nel senso che, nel primo caso, nel processo è dedotta un'unica regiudicanda, mentre, nel secondo, la regiudicanda è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata esercitata l'azione penale. Il concetto di punto della decisione ha, invece, una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, necessarie per ottenere una decisione completa su un capo: ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione.
Premessa la riferita distinzione concettuale, la sentenza giunge alla conclusione che la cosa giudicata si forma sul capo e non sul punto: la decisione, infatti, acquista il carattere della irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dello imputato rispetto ad uno dei reati attribuitigli.
I punti della sentenza non sono, al contrario, suscettibili di acquistare autonomamente autorità di giudicato, potendo essere oggetto unicamente della preclusione correlata all'effetto devolutivo delle impugnazioni (tantum devolutum quantum appellatum) ed al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, da cui consegue che il giudice non può spingere la sua cognizione sul relativo punto, a meno che la legge processuale non preveda poteri esercitabili ex officio.
Stabiliti tali principi, le SS.UU. richiamate precisano, però, che l'art. 624, comma 1, c.p.p. indubbiamente riconosce l'autorità del giudicato sia ai "capi" che ai "punti" della sentenza e che, pertanto, esso non rappresenta l'espressione di un principio applicabile al di fuori della specifica situazione dello annullamento parziale - e, quindi, un applicabile alle impugnazioni penali in genere - dato che la disposizione detta una regolamentazioni particolare, attinente unicamente ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio, essendo legata indissolubilmente alle peculiari connotazioni delle sentenze della Corte di Cassazione ed alla intrinseca irrevocabilità connaturata alle statuizioni dell'organo posto al vertice del sistema giurisdizionale. Gli effetti preclusivi, infatti, che impediscono al giudice di rinvio di estendere la sua indagine oltre i limiti oggettivi del giudizio a lui affidato, non suo in alcun modo assimilabili a quelli che conseguono alla delimitazione del contenuto dei motivi di impugnazione: essi sono diretta ed ineludibile conseguenza dell'irrevocabilità della pronuncia della Corte di Cassazione in relazione a tutte le parti diverse da quelle annullate ed a queste non necessariamente concesse (Cfr. anche Cass. SS.UU. ud. 23 novembre 1990, Agnese ed altri, cit.).
Ora, l'obiezione che il ricorrente muove alle suindicate decisioni delle Sezioni unite, - secondo cui la punibilità non sarebbe un elemento del reato, -è costituita dalla affermazione dell'esistenza, invece, di una connessione essenziale, per un rapporto ontologicamente inscindibile, fra il reato e la relativa sanzione: egli sostiene, infatti, che, nella situazione considerata, non si sarebbe ancora in presenza di un giudicato di condanna, il quale andrebbe inteso come comprensivo dell'affermazione della responsabilità penale e dell'applicazione della relativa pena. Tale assunto non può, però, essere condiviso: al riguardo, va osservato che il diritto positivo, precedendo cause che escludono l'illiceità del fatto – c.d. cause di giustificazione -, nonché cause scusanti che escludono la colpevolezza ma non l'illiceità del fatto (artt. 45, 46, c.p.) e cause di esclusione della punibilità in senso stretto, - le quali hanno l'effetto di escludere la sola pena lasciando sussistere l'illiceità del fatto e la colpevolezza dello autore, - non consente di ritenere che del reato sia sempre componente essenziale l'applicazione della pena comminata. Emerge, dunque, un ruolo autonomo della punibilità rispetto al reato, sganciato dalla applicazione della sanzione tipica, punibilità che va, pertanto, esclusa dai suoi elementi costitutivi, anche se, di norma, alla commissione di un illecito penale e accertamento della colpevolezza segue l'applicazione della relativa sanzione.
L'esempio più evidente della separazione fra accertamento della responsabilità e la determinazione della pena è l'istituto del perdono giudiziale peri minori dei diciotto anni (causa di estinzione del reato: art. 169 c.p.), che presuppone l'accertamento di un fatto criminoso e, però, prevede la non applicazione della pena in conseguenza dell'astensione del giudice dal pronunciare condanna, attuandosi, così, la rinuncia statuale alla pretesa punitiva, benché accertata nei suoi momenti essenziali. Può, quindi, dedursi che il principio di legalità, limite invalicabile del potere del giudice (arg. ex art. 25, 2^ comma, Cost.), individua con la pena comminata la criminosità del fatto, ma la sanzione non sempre è applicata in concreto e, pertanto, non costituisce un elemento essenziale per l'esistenza del reato: conclusione in linea con l'affermazione del giudice delle leggi (sentenza n. 369/88) circa la netta distinzione, se non separazione, tra reato e punibilità; elemento, quest'ultimo, al quale il legislatore ha inteso dare valore autonomo rispetto al fatto criminoso (Cass. SS.UU., ud. 26 marzo 1997, Attinà, cit.). Da tale distinzione discende la configurabilità del giudicato progressivo, argomento, al quale si è già sopra accennato: potendo, infatti, l'accertamento della responsabilità e l'irrogazione della pena interveniva in momenti distinti e non essendo, quest'ultima, elemento costitutivo del reato, non è extra ordinem la concezione di una definitività decisoria che, attenendo all'accertamento della responsabilità dell'autore del fatto criminoso e ponendo fine all'iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile all'applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento, ad opera della Cassazione o eventualmente già esistenti e non prese in considerazione, benché non si sia ancora connotata dall'esaustività la pregiudicata per il permanere del residuo potere cognitivo del giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena a lui devoluta.
La sentenza che afferma la responsabilità penale dell'imputato è il presupposto logico-giuridico della parte contenente la specifica condanna (determinazione della pena): entrambe costituiscono disposizioni della sentenza (art. 624, comma 1, c.p.p.), venendo anzi esaltata la pregiudizialità della prima con l'autonomia concettuale che le è propria in funzione della seconda, che è di norma consequenziale. Ecco perché, se l'annullamento è parziale e non intacca la prima delle due disposizioni, la sentenza acquista autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata (art. 624, c.p.p.). Se, dunque, l'annullamento colpisce soltanto la parte di sentenza relativa al quantum (non all'an) della pena, che dovrà essere rideterminata, ma non potrà essere eliminata, la parte concernente la affermazione della responsabilità resta intangibile. Essa, infatti, lungi dal porsi in connessione essenziale con la parte annullata e, proprio su questo irretrattabile presupposto (qual'è, appunto, la declaratoria di colpevolezza e punibilità), consente la riapertura del giudizio, in sede di rinvio, limitatamente alla parte annullata della sentenza quod poenam) e solo a quella (art. 625, c.p.p.) (Cass. SS.UU., ud. 26.3.97, Attinà, cit.).
Alla luce degli enunciati principi, si deve affermare che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 624, 1^ comma, c.p.p., in relazione all'art. 627, 3^ comma c.p.p. ed allo art. 160, c.p., nuovamente dal ricorrente riproposta avanti alla Corte, per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione, è manifestamente infondata.
Infatti, tale questione urta, innanzi tutto, contro il principio della formazione progressiva del giudicato, di cui si è sopra diffusamente argomentativi; la cennata, poi, separazione dei due momenti - accertamento della colpevolezza e applicazione della pena - porta a considerare sentenza di condanna (ex art. 160, 1^ comma, c.p.) quella che, accanto all'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, contenga anche la determinazione della relativa pena; la determinazione di questa è, inoltre, espressione della irrinunciabile volontà dello Stato di esercitare il diritto punitivo in relazione ad un fatto - reato ben individuato e risulta alla conoscenza dell'incolpato, a meno che non si sia in presenza - caso qui non ricorrente - di una causa di esclusione della punibilità. Orbene, il concetto di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 della Costituzione, che la legge deve assicurare, va individuato, nella sua sostanza, con riferimento a tutto il contesto dell'articolo, il quale quel disposto contiene: è palese, al riguardo, ad una attenta lettura, che il costituente si è preoccupato che la durata del processo, per essere considerata ragionevole, debba essere commisurata allo adempimento di tutte le garanzie che la legge appresta ai fini dell'accertamento del fatto - reato, quali, segnatamente del principio del contraddittorio, che deve essere assicurato sia ai fini della formazione della prova, sia tra le parti, affinché queste - notificate dell'accusa nel più breve tempo possibile e in modo riservato - siano giudicate in condizioni di parità davanti a giudice terzo ed imparziale. Nella ragionevole durata del processo, quindi, rientra anche il tempo occorrente alla determinazione della pena nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento parziale dalla Cassazione, attese, appunto, la distinzione, cui si è sopra accennato, dei due momenti - resto e punibilità - e la particolarità stessa del giudizio di rinvio, che impedisce al giudice ad quem di estendere l'indagine oltre i limiti oggettivi del giudizio a lui affidato; ciò che è conseguenza dell'irrevocabilità della pronuncia della Corte di Cassazione in relazione a tutte le parti diverse da quelle annullate ed a queste non necessariamente connesse.
Alla stregua delle svolte ragioni, pertanto, come detto in premessa, la dedotta questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente infondatezza, mentre il ricorso va respinto con accollo delle spese processuali al ricorrente”.
Il Collegio condivide tale motivazione, la quale si estende anche al diverso parametro costituzionale dell'ari 27 comma 2 Cost., identiche essendo le ragioni poste a fondamento della questione di legittimità costituzionale e cioè la necessità che il superamento della presunzione di innocenza intervenga entro un certo termine.
La questione di legittimità costituzionale proposta deve perciò essere dichiarata non rilevante e manifestamente infondata.
Il ricorso deve conseguentemente essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara manifestamente infondata e non rilevante la questione di legittimità costituzionale dell'ari 650 cod. proc. pen. in relazione all'art. 27 comma 2 della Costituzione della Repubblica.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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