Truffa finanziamenti UE: La giurisdizione contabile è autonoma rispetto la giurisdizione comunicataria.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 8 ottobre - 2 dicembre 2013, n. 26935
Presidente Rovelli – Relatore Salvago
Svolgimento del processo
1. Con ricorso per regolamento di giurisdizione G.M. ha chiesto alla Corte di Cassazione di dichiarare il difetto assoluto di giurisdizione (del giudice italiano), ed in subordine la giurisdizione ordinaria, sulla controversia promossa dalla Procura regionale della Lombardia della Corte dei Conti, con citazione del 25 gennaio 2012, onde conseguire la restituzione in favore della Commissione dell'Unione Europea della somma di Euro 361.174,64 indebitamente percepita da numerose società gestite dalla s.p.a. SINEURA, tra cui la fondazione IOM di cui il ricorrente era il responsabile scientifico (progetto Match): e ciò attraverso una serie di truffe finalizzate ad incamerare contributi della Commissione; Europea destinati ad incentivare la ricerca tecnologica in ambito internazionale, che avevano indotto la Procura della Repubblica di Milano ad instaurare procedimento penale a carico del G. e di altri partecipi a dette attività delittuose per i reati di cui agli art. 416 e 640 bis cod. pen.; per i quali il ricorrente con decreto del 15 dicembre 2012 era stato rinviato a giudizio.
Alle domande ha aderito, con ricorso incidentale, A.M. , rappresentante legale della Sineura fino al 2006, anch'egli soggetto al medesimo procedimento penale,concluso con il patteggiamento della pena, ed al quale la Procura Regionale della Corte dei Conti ha chiesto la restituzione della somma di Euro 688.502,15 (progetto Dicoems). Hanno resistito con controricorso sia la Commissione Europea che la Procura della Corte contabile, le quali hanno chiesto che fosse dichiarata la giurisdizione della Corte dei Conti anche per le azioni di responsabilità amministrativa dirette a perseguire il danno arrecato all'erario Europeo; ed alla richiesta si è associato il P.G. presso questa Corte.
Motivi della decisione
2. Le Sezioni Unite devono anzitutto ribadire che nel giudizio di cassazione, che è dominato dall'impulso d'ufficio, non trova applicazione l'istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e segg. cod. proc. civ., onde, una volta instauratosi il giudizio, il decesso di una delle parti non produce l'interruzione del giudizio, pur se comunicato dal difensore, il quale può continuare successivamente nella sua attività difensiva. Per cui non può essere dichiarata l'interruzione del giudizio per il fatto che il difensore del prof. G. ha comunicato la morte del proprio assistito (Cass. 22624/2011; sez. un. 14385/2007): salvo rimanendo il potere della Corte dei Conti di individuare e distinguere le poste dell'obbligazione di costui che si estinguono con la sua morte,da quelle che possono essere richieste anche ai successori. Devono, poi, disattendere l'eccezione di inammissibilità dell'intervento della Comunità Europea, formulata dall'A. , per essersi l'ente avvalso dell'assistenza e difesa di un avvocato del libero foro invece che dell'Avvocatura dello Stato come prescritto dal d.p.r. 173 del 1981: in quanto detta normativa non ha imposto, né poteva imporre alcuna obbligazione di tal genere ad un ente sovranazionale, ma si è limitata a dare piena attuazione alle disposizioni degli art. 47 Tue e 335 TFUE, autorizzando l'Avvocatura dello Stato, ove richiesta, "ad assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi...." in cui sia parte la Commissione Europea davanti alle autorità giudiziarie, anche amministrative: come del resto si ricava dal tenore letterale del menzionato d.p.r. 173 significativamente rivolto non alla Comunità o alla Commissione, bensì all'Avvocatura cui è consentito di assumere il patrocinio legale di un ente soltanto in presenza di un'espressa disposizione legislativa al riguardo.
3. Con la domanda principale i ricorrenti chiedono che venga dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice italiano, e quindi della Corte dei Conti sulla richiesta di recupero dei contributi comunitari, in quanto: a) gli art. 12 e 13 dei contratti di ricerca, dopo avere stabilito che la legge applicabile al rapporto è quella belga, devolvono qualsiasi controversia tra la Comunità ed i contraenti sulla validità,interpretazione ed applicazione del contratto alla giurisdizione della Corte di prima istanza ovvero della Corte di giustizia della Comunità Europea; b) l'art. 272 del TFUE introduce un esplicito rimedio a favore della Commissione, costituito dalla clausola compromissoria inserita nei vari contratti di finanziamento che ne devolve la cognizione alla Corte di Giustizia,destinata a prevalere in base all'art. 274 su quella degli Stati membri; c) il successivo art. 299 prevede il diritto-dovere della Commissione di emettere le opportune decisioni sulla restituzione aventi efficacia di titolo esecutivo, nonché di precetto: pur esse devolute alla cognizione esclusiva della Corte di Giustizia; cui le Condizioni generali approvate dalla Commissione Europea attribuiscono il potere di irrogare sanzioni amministrative e finanziarie in conformità al Regolamento.
Con quella subordinata deducono che in ogni caso la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, in quanto: d) l'art. 1 legge 20 del 1994 attribuisce alla Corte dei Conti la responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti di enti che abbiano indebitamente percepito contributi/finanziamenti Europei indiretti - erogati cioè attraverso gli stati membri - e non anche quelli diretti arrecanti danno al solo erario Europeo; e) non dimostra il contrario l'art.325 TFUE che non costituisce norma di attribuzione diretta della giurisdizione, ma si dirige esclusivamente agli Stati membri onde obbligarli ad adottare specifiche misure per tutelare gli interessi finanziari dell'Unione: come d'altra parte confermano quelle indicate nei Regolamenti nonché nella legislazione nazionale in materia penale,amministrativa e tributaria.
4. Il ricorso è infondato sotto tutti i profili esposti.
Le Sezioni Unite devono anzitutto ribadire la propria consolidata giurisprudenza in materia di contributi comunitari indiretti - quelli cioè disciplinati dall'art. 53 ter del Regolamento finanziario comunitario che entrano nel bilancio dell'amministrazione nazionale (statale, regionale o locale) per poi essere attribuiti ai vari aspiranti attraverso apposite procedure - secondo la quale: 1) tra l'amministrazione erogante e la persona fisica o giuridica destinatane della risorsa pubblica si instaura un rapporto di servizio di tipo funzionale o addirittura semplicemente un rapporto di fatto che in tutti i casi di indebita percezione, distrazione o cattiva utilizzazione, per la natura del danno arrecato all'ente pubblico risulta idoneo a radicare la giurisdizione della Corte dei Conti di cui agli art. 13 e 52 r.d. 1214 del 1934; 2) detto rapporto e la conseguente giurisdizione contabile si estendono anche alle persone fisiche che abbiano diretto o rappresentato o amministrato quelle giuridiche beneficiane dei finanziamenti comunitari, comunque incidendo sulla realizzazione del programma imposto dalla P.A. (Cass. sez. un. 295/2013; 5019 e 9963/2010; 20434/2009): soprattutto in conseguenza della legge 20 del 1994 che ha escluso la necessità dell'appartenenza dell'agente responsabile all'amministrazione o all'ente pubblico danneggiato, rendendo applicabile l'azione suddetta pur nel caso di danno (c.d. obliquo) nei confronti di amministrazione diversa dall'ente di appartenenza. E spostandone il baricentro dalla qualità del soggetto e da quella dell'atto di investitura - che ben possono essere "privati" - all'evento dannoso prodotto,nonché alla natura del danno e degli scopi perseguiti (Cass. sez. un. 19815/2008; 14825/2008; 4511/2006).
Ritengono tuttavia i ricorrenti che questa giurisprudenza non possa trovare applicazione nella fattispecie in cui la s.r.l. Sineura e gli incolpati hanno beneficiato di contributi comunitari "diretti", destinati ad incentivare la ricerca tecnologica in ambito internazionale, perciò non entrati neppure temporaneamente nel bilancio delle amministrazioni nazionali, ma gestiti in toto a partire dal bando e fino all'erogazione direttamente ai sensi dell'art.53 del Regolamento Europeo, dalla stessa Commissione Europea; con conseguente pregiudizio esclusivamente all'erario o patrimonio dell'Unione Europea, ed applicazione dei soli rimedi previsti dalla legislazione comunitaria che escluderebbero la interpositio legislatoris in favore della Corte dei Conti: deputata, quale giudice speciale nazionale, a conoscere esclusivamente del pregiudizio arrecato all'erario nazionale, e non anche al patrimonio sovranazionale.
4. Sennonché l'intera costruzione come già evidenziato dalle Sezioni Unite con la recente decisione 20701/2013, muove da un duplice erroneo presupposto: che sussista un rapporto di conflittualità e di esclusività - al pari di quelli disciplinati dalla legge 218 del 1995, nonché dalle Convenzioni internazionali - fra l'ambito della giurisdizione italiana e quella comunitaria, in presenza della quale la prima è comunque tenuta a cedere, in materia di indebita percezione, distrazione o illecita utilizzazione di finanziamenti o contributi comunitarie che la giurisdizione della Corte dei Conti sia sostitutiva - precludendone l'esercizio - dei normali rimedi derivanti dai singoli rapporti intercorrenti tra l'amministrazione ed i soggetti danneggiane.
Ma quest'ultimo presupposto è smentito dalle Sezioni Unite, le quali hanno ripetutamente evidenziato l'autonomia del giudizio amministrativo contabile e quindi dell'azione di responsabilità esercitata dal Procuratore presso la Corte dei Conti rispetto ai rapporti civili, amministrativi e disciplinari che possono intercorrere tra i soggetti passivi dell'azione contabile ed i soggetti danneggiati ed esporre i primi a subire i giudizi penali (come è appunto avvenuto nella specie); ed hanno più volte enunciato la regola che l'azione proposta dal Procuratore contabile non si identifica con quella che l'amministrazione può autonomamente promuovere nei confronti dei propri funzionari e/o di quelli dell'ente esterno autori del danno per farne valere la responsabilità (anche solidale).
Hanno tratto conferma di detta assoluta autonomia: a) dalla nota sentenza 104/1989 (ribadita dalla recente pronuncia 1/2007) della Corte Costituzionale, la quale ha specificato che il Procuratore Generale della Corte dei conti, nella promozione dei giudizi, agisce nell'esercizio di una funzione obiettiva e neutrale, rivolta alla repressione dei danni erariali conseguenti ad illeciti amministrativi: rappresentando l'interesse generale al corretto esercizio, da parte dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e contabili, e cioè un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell'ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali ed indifferenziati; ed ha rilevato le notevoli differenze tra questo giudizio e quello in cui le singole amministrazioni ritengano di far valere l'interesse particolare e concreto in relazione agli scopi specifici che ciascuna di esse persegue; b) dall'art. 7 legge 97/2001, secondo cui "La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3... è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale...". Laddove l'art. 17 comma 30 ter legge 103 del 2009 ha ribadito, rendendola di carattere generale, la regola che "Le procure della Corte dei conti possono iniziare l'attività istruttoria ai fini dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge": a prescindere, dunque dalla possibilità delle amministrazioni interessate di promuovere l'ordinaria azione civilistica di responsabilità (Cass. 27092/2009; 25495-25503/2009; 10667/2009; 6581/2006).
Per cui le Sezioni Unite devono dare ulteriore continuità alla propria giurisprudenza che anche in tema di concessione di contributi nazionali, locali o comunitari, la giurisdizione erariale per l'azione di risarcimento dei danni derivanti all'Amministrazione dalla violazione degli obblighi del concessionario e/o del contraente beneficiario o per quella contrattuale diretta a far valere l'adempimento, ovvero le conseguenze dell'inadempimento nascenti dal rapporto concessorio, - quale prevista nella fattispecie dagli art. 12 e 13 dei contratti - sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono il medesimo fatto materiale; e l'eventuale interferenza, che può determinarsi tra tali giudizi, pone un problema di proponibilità dell'azione di responsabilità davanti alla Corte dei conti (nonché di eventuale osservanza del principio "ne bis in idem"), e non una questione di giurisdizione.
5. D'altra parte, siffatta autonomia del giudizio di responsabilità amministrativa non trova ostacolo nella disciplina comunitaria, che anzi la salvaguardia, stabilendo l'art. 274 del Trattato che "Fatte salve le competenze attribuite alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea dai Trattati, le controversie nelle quali l'Unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni nazionali". Sicché nell'ambito di applicazione della norma comunitaria deve essere compresa anche la specifica giurisdizione della Corte dei Conti, la quale non può essere preclusa da eventuali rimedi attribuiti alla Comunità Europea per il recupero dei finanziamenti o per l'esercizio di proprie sanzioni e/o azioni di inadempimento contrattuale posto che le relative azioni restano, pur esse, reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali: così come lo sarebbe stato l'azione risarcitoria intrapresa dalla Commissione Europea nei confronti del ricorrente per avere riportato condanna definitiva per i delitti di cui agli art. 416 e 640 bis cod. pen. costituendosi parte civile nel relativo procedimento o esercitando l'ordinaria azione risarcitoria davanti al giudice civile (Cfr. Corte Giust. 5 marzo 1991, Grifoni C330/88). In tale sistema vanno inclusi gli specifici rimedi, perciò meramente alternativi e concorrenti, apprestati dal Trattato all'Unione Europea, invocati dai ricorrenti, di cui la Commissione significativamente non si è avvalsa, quali: 1) la clausola compromissoria indicata dall'art. 272 del Trattato che attribuisce alla Corte di giustizia la competenza a giudicare allorché detta clausola sia contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dall'Unione o per conto di questa. Anche perché secondo la giurisprudenza comunitaria detta competenza costituisce una deroga rispetto al diritto ordinario e va interpretata restrittivamente nel senso di attribuire alla Corte di giustizia la cognizione soltanto delle domande che derivano da un contratto stipulato dalla comunità (contenente la clausola) o che siano in relazione diretta con le obbligazioni, derivanti dal contratto: e quindi la competenza sulle sole controversie sorte tra la Comunità e la parte contraente riguardo alla validità, all'applicazione, all'interpretazione ed all'adempimento del contratto con conseguente sottrazione di tale azione contrattuale (e soltanto di essa) al giudice nazionale; al quale, per converso viene mantenuta ogni altra tipologia di giudizio "di competenza delle giurisdizioni nazionali" (Corte Giust. 20 febbraio 1997, IDE C114/94; Trib. 3 marzo 2011, Caixa T401/07); 2) la facoltà della Commissione (anch'essa nel caso non esercitata) di irrogare le sanzioni amministrative o finanziarie predisposte dal Regolamento, nonché di emettere ex art. 299 del Trattato atti costituenti titolo esecutivo per il recupero dei crediti: costituente una sorta di esercizio del potere di autotutela rimesso alla mera discrezionalità dell'ente creditore che non interferisce neppure sul diritto delle parti di chiedere la tutela giurisdizionale in ordine all'accertamento, o per converso, alla non spettanza del credito (art. 263 e 274 Trattato); né impedisce a ciascuna di esse di procedere rispettivamente ad esecuzione forzata e/o di proporre opposizione alla stessa: peraltro regolate "dalle norme di procedura civile vigenti nello Stato sul cui territorio essa viene effettuata" (art. 299, 2 e 3 comma).
6. Assolutamente inconsistente è infine l'ultimo presupposto su cui i G. - A. incentrano il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti (in subordine a favore di quella ordinaria), che il danno che ne giustifica l'intervento sia limitato dall'art. 52 r.d. 1214/1934 a quello arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico nazionale; e che per i pregiudizi causati direttamente al bilancio dell'Unione Europea mancherebbe comunque l'interpositio legislatoris richiesta dalla Costituzione per giustificare detta giurisdizione speciale.
Nessun elemento testuale può infatti giustificare siffatta limitazione, non ricavabile dall'ampia formula adottata dalla norma che, facendo riferimento ad ogni amministrazione ed ente pubblico cui la condotta dell'agente abbia cagionato un danno vi comprende indistintamente qualsiasi categoria di persona giuridica pubblica: fra le quali gli art. 47 Tue e 335 TFUE includono la Comunità Europea disponendo: a) che l'Unione Europea ha personalità giuridica (di diritto pubblico); b) che in ciascuno degli Stati membri ha la più ampia capacità giuridica riconosciuta alle persone giuridiche dalla legislazione nazionale; c) che è ivi rappresentata (per quanto qui interessa) dalla Commissione Europea. Per cui, riconoscendo gli stessi ricorrenti che la generale azione di responsabilità amministrativa appartenente alla giurisdizione della Corte dei Conti, è stata estesa dall'art. 1, 4 comma legge 20 del 1994 anche all'ipotesi in cui il danno sia cagionato ad amministrazione diversa dall'ente di appartenenza del suo autore, e che quest'ultima norma costituisce una valida interpositio legislatoris in tutte le fattispecie di finanziamenti erogati indirettamente dalla Comunità Europea, non è consentito introdurne una discriminazione applicativa in funzione del carattere sovranazionale dell'amministrazione tutelata o della natura del contributo/finanziamento dalla stessa erogato; che risulta ancor più arbitraria in considerazione,da un lato, dell'utilizzazione anche da parte della norma del 1994 dell'identica formula omnicomprensiva ed ormai non più casuale "amministrazioni ed enti pubblici diversi...". E, dall'altro, che le ricordate disposizioni comunitarie ne impongono, al contrario, una opzione ermeneutica logico-sistematica che attribuisca alla Commissione Europea “la più ampia" capacità giuridica e tutela fra quelle riconosciute alle persone giuridiche pubbliche nazionali; che dunque divengono un parametro di comparazione minimo e non riducibile neppure dal legislatore nazionale.
7. Ma la limitazione prospettata dai ricorrenti si pone anche sotto altro profilo, in palese contrasto con gli stessi precetti inerenti al collegamento tra la normativa interna e quella comunitaria, enunciati sia dalla Corte Costituzionale (sent. 348 e 349/2007), che dalla Corte di Giustizia secondo cui i giudici nazionali nell'applicazione del diritto interno devono interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo delle disposizioni comunitarie, onde garantire il risultato perseguito da queste ultime; ed a tal fine detti giudici sono tenuti a prendere in considerazione il diritto interno nella loro interezza nonché ad applicare i metodi di interpretazione riconosciuti da quest'ultimo al fine di assicurarne la piena efficacia delle norme comunitarie e pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest'ultima (Corte giust. 4 luglio 2006 in causa h C 212/04; 5 ottobre 2004 in cause C 397/01 e 403/01).
L'art. 325 del T.F.U.E. dispone, infatti, che "l'Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell'Unione (comma 1). Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari (comma 2)".
L'art. 4, 3 comma del TUE ribadisce che "In virtù del principio di leale cooperazione l'Unione e gli stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai Trattati. Gli stati membri adottato ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione". E l'art. 10 del Trattato CE completa detto quadro imponendo agli stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l'efficacia del diritto comunitario. Questa normativa lungi dal ridursi ad una serie di direttive meramente programmatiche come ritenuto dal G. e dall'A. , mostrando di incorrere in una confusione concettuale con la diversa questione (Corte giust. 14 luglio 1971, Muller CIO/71) delle disposizioni comunitarie già di per sé idonee (o non idonee) a creare diritti ed obblighi direttamente ed utilmente in capo ai singoli, è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza comunitaria anche meno recente nel senso che la stessa:
A) impone agli stati membri di adottare tutte le misure efficaci al fine di sanzionare i comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell'Unione: e ciò anche se il legislatore dell'Unione non ha adottato una normativa settoriale diretta a tutelarli nei confronti della condotta di taluni soggetti;
B) consente in particolare agli stati suddetti, in merito alla dissuasione ed alla lotta contro la frode e le altre irregolarità, lesive degli interessi finanziari dell'Unione, di mantenere o adottare diposizioni in tale specifico settore e nei confronti degli autori, ove risultano necessarie a tale lotta e rispettino i principi dell'unione; C) richiede in ogni caso agli Stati, pur ad essi conservando al riguardo la scelta dei rimedi e delle sanzioni,di vegliare a che le violazioni in questione siano sanzionate sotto il profilo sostanziale e procedurale in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza; e di conferire in ogni caso alla sanzione prescelta un carattere di effettività, di persuasività e di capacità dissuasiva (Corte giust. 28 ottobre 2010, in C367/09; 8 luglio 1999 in C186/98; 21 settembre 1989 in C68/88). Questi precetti esprimono il c.d. principio di assimilazione, già recepito dalle Sezioni Unite della corte sia in materia penale (sent. 1235/2010) che in quella civile (sent. 20701/2013 cit.), in forza del quale gli interessi finanziari Europei sono assimilati a quelli nazionali, con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure che sono previste dal diritto interno per la protezione dei medesimi beni giuridici; per cui il Collegio deve - a maggior ragione - farne applicazione anche in materia di giurisdizione della Corte dei Conti in tutte le fattispecie di protezione del bilancio della comunità Europea dalle frodi, avendo la Corte di Giustizia specificato che detto obbligo degli Stati necessariamente ricomprende "ogni azione di diritto amministrativo, tributario o civile, diretta a riscuotere o a recuperare risorse ovvero obbligazioni comunitarie conseguite o per converso eluse in modo fraudolento, nonché ad ottenere il risarcimento del danno". Ed allora, siccome lo Stato italiano non ha adottato un'apposita legge che impone la giurisdizione contabile anche in materia di danno all'erario Europeo per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione, pur se si ritenesse, per mera ipotesi, che le disposizioni contenute negli art. 53 r.d. 1214 del 1934 ed 1 legge 20 del 1994 l'abbiano in origine prevista esclusivamente per proteggere l'erario nazionale, l'obbligatoria applicazione del principio di assimilazione comporta necessariamente, e comunque, l'estensione di detta giurisdizione anche in materia di danno sia esso diretto o indiretto all'erario comunitario (Corte giust. 28 ottobre 2010 cit.; 4 luglio 2006, Adeneler in C202/04; 15 gennaio 2004, in C 230/01). Anche perché l'arbitraria distinzione prospettata dal ricorrente tra le due fattispecie di frode a seconda che tragga origine dalla distrazione di finanziamenti/contributi diretti, piuttosto che indiretti nei termini di cui si è detto avanti, non soltanto non trova riscontro nel menzionato art. 325 del T.F.U.E. ma è inequivocabilmente smentita dall'art. 1, comma 2 Reg. com. 2988 del 1995, per il quale "Ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee....costituisce irregolarità qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un'azione o un'omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste gestite, attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita" (Per la nozione di frode cfr. art. 1 Conv. elab. dal Consiglio in base all'art. K3 del TUE che la ravvisa in "qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa all'utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua il percepimento o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità Europee o dai bilanci gestiti dalle Comunità Europee o per conto di esse"). Sicché da detta normativa si ricava semmai la conclusione opposta a quella dedotta dal ricorrente, ed evidenziata dal P.G., che costituirebbe una violazione del diritto dell'Unione proprio la mancata estensione alle frodi in danno del bilancio comunitario, delle misure del diritto interno volte a dissuaderle ed combatterle nell'ambito dell'ordinamento interno (Corte giust. 10 luglio 2003, BEI in C15/00; 8 luglio 1999, Nunes, in C186/98; 21 settembre 1989, Grecia in 68/88).
8. Le considerazioni svolte disvelano l'inconsistenza anche dell'ultima richiesta del G. , volta a conseguire il rinvio alla Corte di Giustizia Europea ai sensi dell'art. 267 T.F.U.E. della questione nuovamente incentrate sui rimedi di cui agli art. 274 e 299 a disposizione della Commissione Europea per conseguire il recupero dei contributi, e sul conseguente pericolo di una concorrente decisione su di esso da parte del giudice italiano (Corte dei Conti); nonché di altra questione sulla corretta applicazione del successivo art.325 da interpretare nel senso di escludere l'autorizzazione agli Stati membri a perseguire la tutela di pregiudizi all'erario Europeo.
Il collegio deve aggiungere che entrambe sono inammissibili non soltanto perché detto rinvio non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità nel caso invece esclusa (Corte giust. 21 luglio 2011, Kelly, in C104/10; 22 giugno 2010, Melki in C188 e 189/10); ma soprattutto perché la prima non ha alcuna influenza sul presente giudizio pur nell'ipotesi di risposta favorevole da parte della Corte di Giustizia all'assunto del ricorrente avendo la Commissione escluso di avere esercitato taluno dei suddetti rimedi concessi dal Trattato, di guisa che non è configurabile comunque l'esistenza di una seconda e contrastante decisione sul suo obbligo di restituzione dei contributi richiesti dalla P.G. presso la Corte dei Conti. Mentre l'altro quesito si concreta in una anomala sollecitazione alla Corte di Giustizia attraverso il giudice nazionale di riconsiderare l'ormai consolidata propria giurisprudenza da decenni sfavorevole ai ricorrenti in ordine all'interpretazione ed alla portata della normativa contenuta nel ricordato art. 325 TFUE, nonché sulla sua diretta efficacia nei confronti degli ordinamenti degli Stati membri. Va conclusivamente ribadita la giurisdizione della Corte dei Conti con conseguente condanna di entrambi i ricorrenti in solido, in aderenza al criterio legale della soccombenza, al pagamento delle spese processuali che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione della Corte dei Conti, e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali che liquida in favore della Commissione in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre agli accessori come per legge.
04-12-2013 06:12
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