Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Cassazionista Trapani

Sentenza

Stranieri - Visto per ricongiungimento per motivi familiari - Diniego - Illegittimità dal provvedimento - Accertamento
Stranieri - Visto per ricongiungimento per motivi familiari - Diniego - Illegittimità dal provvedimento - Accertamento
CORTE DI APPELLO - Sentenza 04 aprile 2013, n. 256
Fatto e diritto
Con ricorso del 5/7/2011, H.C., nata a Fujian (Repubblica Popolare Cinese) il 20/8/79 ha chiesto al Tribunale di Bari di dichiarare l'illegittimità del provvedimento di diniego del visto per ricongiungimento per motivi familiari adottato in data 20/10/2010 dal Consolato generale di Canton (Repubblica Popolare Cinese), perché emanato in violazione di legge e viziato da eccesso di potere e di riconoscere il diritto di suo marito L.M. al visto di ingresso per ricongiungimento familiare ha chiesto altresì il risarcimento dei danni conseguenti all'illegittimità dal provvedimento di diniego adottato, da valutarsi in via equitativa, con vittoria di spese.

Ha premesso la ricorrente che con provvedimento del 7/9/2010 lo Sportello unico per l'immigrazione di Bari le ha rilasciato il nulla osta al ricongiungimento familiare o per familiare al seguito, ma la Rappresentanza Italiana in Cina, ubicata in Canton, invece di rilasciare il relativo visto, in data 20/10/2010 ha notificato al richiedente L.M. un provvedimento di diniego, par ricorrenza delle condizioni di cui all'art. 2 d.lgs. 5/2007, comma 9° ("La richiesta di ricongiungimento familiare è respinta se è accertato che il patrimonio o l'adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all'interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato"); costituitosi in giudizio, il Ministero chiariva che il visto era stato negato perché "era sorto il dubbio che lo scopo perseguito con la richiesta di ricongiungimento non fosse quello di assicurare l'unità familiare, bensì quello di ottenere l'ingresso nel nostro paese per migliorare la propria situazione economica e trovare un lavoro". Il giudice di primo grado ha istruito tutta la domanda, chiedendo alla p.a. convenuta di produrre documentazione a sostegno della motivazione di diniego come esplicitata in- comparsa, in particolare il verbale di audizione di L.M. presso il Consolato (contenente, a dire del Ministero, dichiarazioni rivelatrici della non conoscenza di L.M. della pretesa moglie R.C.); il Ministero non ha prodotto alcunché.

Il Giudice ha riconosciuto il diritto al ricongiungimento, ma nulla ha statuito sulla richiesta risarcitoria, compensando le spese.

Avverso tale decreto ha spiegato reclamo tempestivo H.C., nata a Fujian (Repubblica Popolare Cinese) il 20/8/79, lamentando l'omessa pronuncia e reiterando le argomentazioni già spiegate in primo grado e, cioè, l'illegittimità della condotta della p.a. e dal provvedimento, viziato da illegittimità e eccesso di potere in quanto carente di motivazione e non giustificato in fatto; ha chiesto quindi la condanna del Ministero al risarcimento dei danni conseguenti, con vittoria di spese del doppio grado, non risultando giustificata la compensazione.

Si è costituito il Ministero resistendo,all'impugnazione per le medesime ragioni già spiegate in primo grado e chiedendo il rigetto di ogni avversa pretesa.

Tanto brevemente premesso sullo svolgimento del processo, si ritiene fondata l'impugnazione per i motivi di seguito precisati.

Il giudice di primo grado nulla ha statuito sulla, richiesta risarcitola. In fatto, deve considerarsi che effettivamente, dall'esame degli atti, risulta che il diniego di visto notificato a L.M. (all. 1 fase. I grado Ministero) è motivato in riferimento all'evidente sussistenza delle condizioni di Cui al comma 9° dell'art. 2 d. lgs 5/2007: risulterebbe cioè accertato che "il matrimonio ha avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all'interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato"; non è dato tuttavia comprendere su quali ragioni di fatto sia stato fondato tale "accertamento"; costituendosi in giudizio in primo grado il Ministero ha chiarito che al Consolato il sig - L.M. aveva mostrato un'evidente ignoranza sulla reale situazione familiare della propria consorte H.C., riferendo che quest'ultima avesse avuto un figlio dal precedente matrimonio, laddove la stessa aveva dichiarato, in sede di divorzio dal primo marito, di non avere alcun figlia; aveva inoltre dichiarato egli stesso di avere visto sua moglie H.C. soltanto tre volte; seppure sollecitato sul punto dal Giudice di primo grado, il Ministero non ha prodotto il verbale di audizione di L.M. al Consolato in cui risulterebbero queste dichiarazioni erronee.

A fronte di ciò, deve considerarsi che, dalla documentazione esaminata, risulta regolare divorzio e successivo matrimonio tra K.C. e L.M. e i due hanno anche avuto nelle more del rilascio del visto un figlio, nato il 14 marzo 2011 (come riferito in comparsa dallo stesso Ministero appellato): la nascita è dunque avvenuta soltanto cinque mesi dopo il diniego di visto e non, come infondatamente sostenuto dal Ministero, "parecchio tempo dopo".

L.M. non ha potuto assistere la moglie né durante gli ultimi mesi di gravidanza, né alla nascita del bambino, né durante i primi mesi di vita.

In mancanza di prova diverse, restano del tutto prive di valore giuridico - a tacer d'altre - i dubbi del Ministero convenuto sulla paternità del figlio nato alla ricorrente; come già rilevato, è rimasto poi del tutto sfornito di prova che effettivamente L.M. abbia riferito notizie errate sulla vita di sua moglie.

In tale quadro di fatte è evidente che il diniego di visto è stato assunto in totale mancanza di presupposti di fatto e di diritto e senza alcuna specifica motivazione, con un richiamo del tutto infondato e generico ad un'ipotesi normativamente prevista, senza alcun riferimento al caso concreto: la domanda era invero corredata di ogni documento Utile in ordine alla sussistenza del vincolo legale del matrimonio e ciò era sufficiente, in mancanza di diversi e provati fatti contrari, a far ritenere sussistente il diritto al ricongiungimento ex art. 29 d.lgs 286/98.

Ciò considerato in fatto, brevemente, in diritto, deva considerersi che in tema di responsabilità civile della P.A., l'ingiustizia del danno non può considerarsi in "re ipsa" nella sola illegittimità dell'esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo, invece, il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se: a) sussista un evento dannoso; b) l'accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l'ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) l'evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, ad una condotta della P.A.; d) l'evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., sulla base non solo del dato obiettivo dell'illegittimità dal provvedimento, ma anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa. L'attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve infatti svolgersi nei limiti posti della legge e dal principio primario del "neninem laedere", di cui all'art. 2043 c.c.; stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione di cui all'art. 91 Cost., la P.A. è invero tenuta a subire le conseguenze stabilite dall'art. 2043 c.c., ponendosi tali principi come limiti esterni alla sua attività discrezionale; è, pertanto, consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa P.A., un comportamento doloso o colposo, che, in violazione della norma e del principio indicati, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo (cosi da ultimo, ex plurimis, Cassazione civile, sez. IlI 20/04/2012 n. 6283).

Con sentenza n. 500 del 1999, la Corte di cassazione a sezioni unite ha riconosciuto che e risarcibile il "danno ingiusto" (ciò quello arrecato "non iure") che si risolva nella lesione di un interesse ritenuto rilevante per l'ordinamento, indipendentemente dalla sua qualificazione formale, imponendo all' interprete di effettuare un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto (quello del soggetto che si afferma leso e quello perseguito con il comportamento lesivo) e chiarendo che l'Interesse ultraindividuale perseguito dalla Pubblica Amministrazione può comportare il sacrificio di quello individuale soltanto se l'azione amministrativa e conforme ai principi di legalità e buona amministrazione. Deve quindi stabilirsi a e l'evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A., ciò che è configurabile nel caso in cui la condotta dell'amministrazione sia stata in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi.

La condotta dell'Amministrazione degli Affari Esteri nella specie evidentemente contraria ai principi di buona amministrazione solo che si consideri che il diniego del visto è stato adottato pur in presenza dei requisiti formali e senza dettagliata motivazione sulla sussistenza di accertamenti in fatto contrastanti con le risultanze documentali; tale mancanza di correttezza nell'adozione del provvedimento reclamato ha trovato poi conferma pure a posteriori, perché la p.a. convenuta in sede di reclamo, non ha saputo dare alcun sostegno probatorio al suo immotivato diniego neppure nel corso del doppio grado di giudizio.

E' dunque ravvisabile nella condotta del Consolato - della p.a. convenuta di cui il Consolato è articolazione - una condotta imputabile a colpa, atteso che, evidentemente, deve ritenersi che non siano stati adeguatamente valutati i documenti allagati all'istanza di visto e comunque che non sia stato compiuto alcun approfondito accertamento in fatto.

Tanto stabilito, deve quindi considerarsi che nella specie risulta violato un interesse pretensivo da cui deriva immediatamente la lesione di un importante diritto della sfera giuridica del richiedente e, cioè, il diritto all'unita familiare. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dalla istanza, onde stabilire se il pretendente fossa titolare non già di una Aera aspettativa, coma tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, seconde la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, risultava quindi giuridicamente protetta (Cassazione civile, sez. un., 22/07/1999, n. 500).

Sul punto, in diritto, deve considerarsi che tutta la normativa comunitaria individua la situazione soggettiva inerente all'esigenza del ricongiungimento come diritto (la direttiva del Consiglio 2003/86/CE del 22 Settembre 2003 relativa al diritto di ricongiungimento familiare riconosce beneficiari del diritto i seguenti soggetti: il coniuge cittadino di un Paese terzo residente legalmente in uno Stato Membro, i figli minorenni non coniugati, compresi quelli adottati, del soggiornante e del coniuge; i figli minorenni, compresi quelli adottati, del solo genitore soggiornante o coniuge); l'art. 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1M3, prevede, al comma III, che "la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato"; diritto al ricongiungimento e diritto all'unità familiare sono, evidentemente, intimamente connessi anche nella nostra Costituzione, in cui all'art. 29 é individuato quale valore costituzionalmente rilevante la famiglia come società naturale in cui pure si esplica la personalità dell'individuo come protetta in ogni sua articolazione dal precedente art. 2.

In fatto, deve considerarsi che la documentazione amministrativa a corredo dell' istanza era stata già vagliata positivamente in sede di concessione di nulla osta e che non risulta in alcun modo essere stato "accertato" (come già rilevato, neppure "a posteriori") l'ostacolo alla concessione del ricongiungimento previsto dallo stesso art. 29 d.lgs 286/98 al comma 9" e, cioè, il fatto che il matrimonio abbia avuto luogo "allo scopo esclusivo di consentire all'interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato". L'istanza, pertanto, avrebbe dovuto essere accolta secondo i principi di correttezza dell'azione amministrativa.

Accertato dunque un comportamento non Iure imputabile alla pa, la lesione di un diritto fondamentale, l'evento dannoso (la famiglia, come già detto, non si è riunita per la nascita del figlio), resta da individuare quali possano essere i criteri di un danno che certamente non è patrimoniale per come è stato prospettato e, che, tuttavia deve essere liquidato secondo parametri precisamente enucleati, seppure in funzione equitativa.

Ritiene questa Corte che congruo parametro di riferimento possa essere tratto dal sicuro peggioramento alla qualità dell' esistenza subito dalla ricorrente in conseguenza dell'assenza del coniuge in un momento così importante della sua vita: tale peggioramento può essere ulteriormente considerato sotto il profilo della mancanza del supporto stabile (consistente nella vicinanza del coniuge) nel periodo in cui notoriamente la donna manifesta maggiore fragilità fisica e psichica e, cioè, negli ultimi mesi della gravidanza e nei primi nove mesi di vita del bambino, ciò che può essere quindi tradotto nella mancanza di un costante apporto economico che il coniuge avrebbe potuto offrire con il suo lavoro fuori casa o con il risparmio della spesa di un aiuto esterno, in ipotesi di suo lavoro in casa.

Così monetizzato (seppure comunque riduttivamente), questo supporto economico può essere quantificato in E. 500,00 al mese e, così, complessivamente, per 12 mesi (tre mesi prima della nascita, nove mesi dopo) in E. 6.000,00. Dalla data della pubblicazione della sentenza all'effettivo saldo decorreranno gli interessi legali sulla somma sopra liquidata in moneta attuale. Dall'accoglimento della domanda risarcitoria e dalle considerazioni svolte deriva l'accoglimento del motivo di reclamo concernente le spese di primo grado che, pertanto, devono essere poste a carico del MINISTERO degli AFFARI ESTERI, in favore della ricorrente H.C., secondo il principio di soccombenza. Pure le spese di questo grado di giudizio, così come liquidate in dispositivo secondo i parametri del D.M. 140/12, sono poste a carico della parte appellata in favore dell'appellante.

 

P.Q.M.

 

Definitivamente pronunciando sul reclamo proposto da H.C., avverso il decreto emesso il 12/10/2012 dal Giudice del Tribunale di Bari tra la stessa e il MINISTERO degli AFFARI ESTERI, in persona del Ministro pro tempore, uditi i procuratori delle parti, così provvede;

- accoglie il reclamo e, per l'effetto, condanna il MINISTERO degli AFFARI ESTERI, in persona del Ministro pro tempore al risarcimento dei danni in favore di H.C., liquidandoli in E. 6.000,00, oltre interessi dalla data della presente decisione al soddisfo;

- condanna il MINISTERO degli AFFARI ESTERI, in persona del Miniatro pro tempore al pagamento delle spese di primo grado che liquida in complessivi E. 1.500,00, di cui E. 600,00 per diritti, oltre Iva, cpa e rimborso forfetario come per legge;

condanna il MINISTERO degli AFFARI ESTERI, in persona del Ministro pro tempore al pagamento, in favore di H.C., delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi E.1.800,00, oltre IVA, CPA come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza