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Sentenza

Spaccia cocaina fuori dall’orario di lavoro. Ricorso per Cassazione rigettato.
Spaccia cocaina fuori dall’orario di lavoro. Ricorso per Cassazione rigettato.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 maggio - 3 settembre 2013, n. 20158
Presidente Vidiri – Relatore Bronzini

Svolgimento del processo

B.M. chiedeva al Tribunale del lavoro di Roma l'annullamento del licenziamento disciplinare intimatogli dalla datrice di lavoro Casa di Cura V.D. a.r.l. in relazione alla sentenza di condanna a suo carico per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti (art. 73 D.P.R. 309/90). Chiedeva anche la condanna al pagamento dell'assegno alimentare per il periodo di sospensione cautelare dal servizio ai sensi dell'art. 41 del CCNL.
Si costituiva la società convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale di Roma rigettava la domanda principale concernente la contestata legittimità del recesso e riconosceva al B. la somma chiesta a titolo di assegni familiari.
La Corte di appello di Roma con sentenza del 14.7.2010 rigettava l'appello del B.. La Corte territoriale osservava che il contratto collettivo (che prevedeva il licenziamento per giusta causa per detenzione per uso o spaccio di sostanza stupefacenti all'interno della struttura) offriva solo un elenco di condotte sanzionabili con il recesso per giusta causa a titolo meramente indicativo e non esaustivo come emergeva anche dallo stesso CCNL. I fatti addebitati, pur estranei all'ambiente ed alla prestazione di lavoro, erano talmente gravi da ledere il rapporto fiduciario, posto che il B. era stato condannato per il reato di spaccio di tre grammi di cocaina. Circa l'elemento della proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata i compiti svolti dal B. (pulizia, trasporto infermi , assistenza ai degenti) erano connessi direttamente all'attività dell'appellata e riguardanti essenzialmente la cura e l'assistenza degli anziani, sicché l'adibizione a tale compiti di persona condannata per spaccio presentava un incontestabile giudizio di disvalore ambientale.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il B. con due motivi, corredati da memoria difensiva ex art. 378 c.p.c.; resiste la Casa di Cura con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si allega la violazione dell'art. 41 CCNL sanità privata. Le parti collettive avevano preso in considerazione solo lo spaccio di sostanze stupefacenti all'interno della struttura e quindi escluso la rilevanza di comportamenti tenuti al di fuori di questa. Nel caso in esame non vi erano elementi ulteriori ed aggravanti rispetto alla previsione contrattuale posto che il quantitativo di droga era minimo e che il fatto si era svolto al di fuori dell'ambiente contrattuale.
Il motivo appare infondato. Come già osservato nella sentenza impugnata l'elencazione delle condotte legittimanti l'irrogazione della sanzione del licenziamento per giusta causa ( ultimo capoverso dell'art. 41 CCNL) ha valore puramente indicativo e certamente non tassativo laddove il fondamento del recesso possa essere individuato nella nozione legale di giusta causa e cioè in un comportamento di gravità tale da comportare la lesione del vincolo fiduciario tra le parti. Contrariamente a quanto si sostiene nel motivo nel caso in esame si ravvisano ulteriori elementi che connotano più gravemente il fatto contestato rispetto all'ipotesi individuata dalla contrattazione collettiva e cioè il fatto che la prestazione di lavoro si svolgeva in una Casa di Cura per degenti che- secondo le prospettazioni della stessa parte ricorrente (pag. 16 del ricorso )- opera come Residenza per anziani non autosufficienti. Certamente il sapere che un dipendente addetto a mansioni che si svolgono in un ambiente così particolare e delicato (riguardino a meno l'assistenza diretta agli anziani) è stato condannato per spaccio di cocaina non può che rompere il vincolo fiduciario tra le parti, apparendo connotato da un particolare disvalore ambientale come ha osservato la Corte territoriale ed espone la stessa Casa di Cura ad eventuali danni e ripercussioni, potenziai mente molto negative (ove la circostanza venisse a conoscenza dei parenti di persone non in condizioni di autosufficienza, che quindi contano sull'assoluta affidabilità del personale complessivamente addetto alla salvaguardia della loro salute e del loro benessere. Pertanto non può di certo affermarsi che siano state ignorate le clausole contrattuali richiamate, avendo la Corte territoriale correttamente valutato elementi aggiuntivi e specifici che risultavano dalla particolarità del caso di cui è processo,non tipizzati dalla norma contrattuale.
Con il secondo motivo si allega la motivazione insufficiente. Il ricorrente era inquadrato come ausiliario e quindi non si occupava dell'assistenza ai degenti. La sanzione non era proporzionata e non erano state tenute in considerazione le mansioni effettivamente svolte dal B., né la mancanza di precedenti disciplinari.
Il motivo per quanto sopra già detto appare infondato in quanto, indipendentemente dalle contestate mansioni di assistenza agli anziani (accertate comunque positivamente dalla Corte di appello), non vi è dubbio che l'attività lavorativa si svolgesse all'interno di una Casa di Cura per anziani non autosufficienti e che quindi vi fosse comunque un contatto tra il B. (che comunque non ha contestato il compiti di trasporto infermi) e persone affidate per la gestione quotidiana delle attività più elementari all'efficienza del personale di una struttura con finalità anche di natura pubblica (attestati dal collegamento con il SSN). Il fatto addebitato al B., benché commesso al di fuori dell'ambiente di lavoro, necessariamente è elemento idoneo ad incrinare il rapporto fiduciario tra le parti posto che l'azienda intimata avrebbe dovuto continuare ad attribuire compiti del genere, implicanti cioè rapporti stretti con anziani non autosufficienti, a soggetto condannato per spaccio di cocaina. Sussistono pertanto i presupposti per l'intimato licenziamento per giusta causa, apparendo la motivazione sul punto della sentenza impugnata congrua e logicamente coerente.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso.
Le spese di lite- liquidate come al dispositivo-seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 50,00 per spese vive, nonché in euro 2.800,00 per compensi oltre accessori.
Avv. Antonino Sugamele

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