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Sentenza

Si rivolge al magistrato in udienza dicendo:
Si rivolge al magistrato in udienza dicendo: "Lei dottoressa è famosa per fare minchiate ... continua a dire castronerie su castronerie ... sono stata sfortunata, il buon senso per lei è un optional".
Autorità:  Cassazione penale  sez. VI
Data udienza:  21 giugno 2012
Numero:  n. 26178
Classificazione
OLTRAGGIO - A magistrato in udienza
Intestazione

                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                        SEZIONE SESTA PENALE                         
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. DI VIRGINIO Adolfo       -  Presidente   -                     
Dott. SERPICO     Francesco    -  Consigliere  -                     
Dott. PAOLONI     Giacomo      -  Consigliere  -                     
Dott. FIDELBO     Giorgio      -  Consigliere  -                     
Dott. APRILE      Ercole       -  Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
             C.R., nata a (OMISSIS); 
avverso  la  sentenza in data 25/05/2010 della Corte  di  Appello  di 
Caltanissetta; 
udita  in  pubblica  udienza  la relazione  del  consigliere  Giacomo 
Paoloni; 
udito  il  p.m.  in persona del sostituto Procuratore Generale  dott. 
ANIELLO Roberto che ha concluso per il rigetto del ricorso; 
udito  il  difensore del ricorrente, avv. Gerbino  Giuseppe,  che  ha 
insistito per l'accoglimento dei motivi di impugnazione. 
                 

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MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il ministero del difensore l'imputata C.R. impugna per cassazione la sentenza della Corte di Appello nissena indicata in epigrafe, che ha confermato - limitandosi a concederle l'ulteriore beneficio della non menzione della condanna - la decisione del Tribunale di Caltanissetta (competente ex art. 11 c.p.p.), con cui è stata riconosciuta colpevole del reato di oltraggio a magistrato in udienza e condannata, concesse e generiche circostanze attenuanti, alla pena sospesa di sei mesi di reclusione.
Condotta criminosa consistita nell'aver offeso l'onore e il prestigio professionale del giudice del Tribunale minorile di Palermo B.M.D., che con l'assistenza di un giudice onorario procedeva alla sua audizione nell'istruttoria della procedura per la decadenza dalla potestà genitoriale della C. sulla figlia minorenne, rivolgendo al magistrato nel corso dell'udienza espressioni del seguente tenore: "Lei dottoressa B. è famosa per fare minchiate ... continua a dire castronerie su castronerie ... sono stata sfortunata, il buon senso per lei è un optional".
2. Con il ricorso si deducono i vizi di violazione di legge e di carenza ed illogicità della motivazione di seguito riassunti.
1. Contraddittorietà e illogicità della motivazione sulla sussistenza del reato di cui all'art. 343 c.p., di cui difetta il presupposto dell'essere stata in corso di svolgimento una "udienza".
Tale non può definirsi il contesto processuale in cui sono state pronunciate le frasi offensive dell'imputata costituito dalla redazione di un verbale di istruzione delegata di un'attività paraprocessuale in assenza di vero contraddicono. In ogni caso i giudici di appello non hanno idoneamente valutato la situazione soggettiva dell'imputata, che ha reagito in stato di particolare emotività a quella che riteneva una procedura arbitraria volta a porre in dubbio i suoi irrinunciabili diritti di madre.
2. Violazione di legge e difetto di motivazione in riferimento alla confermata decadenza dell'imputata dall'assunzione della prova testimoniale di difesa, costituita dall'esame di un testimone già ammesso ex art. 468 c.p.p., l'avv. Gaetana Valenti, che aveva assistito la C. nella causa di separazione coniugale. Prova revocata in primo grado per la mancata citazione-presenza del testimone, senza giustificare la revoca dell'ammesso mezzo di prova per eventuale superfluità della testimonianza. La Corte di Appello, che avrebbe dovuto annullare in parte qua l'ordinanza del giudice di primo grado e procedere alla parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ha dedotto l'ipotetica carenza di interesse della difesa alla testimonianza per il solo fatto del mancato intervento della difesa nel giudizio di appello.
3. Contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo alla entità della pena inflitta alla C.. La C. avrebbe meritato un trattamento sanzionatorio prossimo al minimo edittale, che la Corte di Appello ha escluso, facendo riferimento alla condizione personale dell'imputata, ben consapevole - per livello culturale e professionale (è un medico) - della gravita delle frasi offensive rivolte al giudice minorile che la stava esaminando. Pur denegandosi l'apprezzabilità putativa dell'esimente della reazione ad un supposto (per quanto erroneamente) atto arbitrario dell'autorità nei suoi confronti (decadenza dalla potestà genitoriale), l'imputata ben avrebbe potuto beneficiare dell'attenuante della provocazione ex art. 62 c.p., n. 2.
3. Il ricorso è inammissibile, perchè affetto da palese genericità (id est aspecificità, per la parte in cui è integrato dalla riproduzione dei motivi di gravame sottoposti alla Corte di Appello e già vagliati e disattesi con corretta motivazione) ed in ogni caso perchè imperniato su censure indeducibili e manifestamente infondate. In vero l' atto impugnatorio propone una rivisitazione del materiale probatorio non esperibile nel giudizio di legittimità a fronte della lineare e logica decisione, con cui i giudici di appello hanno ribadito la responsabilità dell'imputata anche in riferimento, in via subordinata, alla esclusione di cause esimenti o di possibili giustificazioni del contegno verbale della C. integrante il contestato reato di cui all'art. 343 c.p..
1. La prima doglianza, attinente alla natura paraprocessuale della procedura di audizione presso il Tribunale per i Minorenni (in persona della delegata dr.ssa B.) sì da non potersi la stessa qualificare come "udienza" in senso tecnico ex art. 343 c.p., è stata affrontata e risolta da entrambi i giudici di merito in conformità al consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte regolatrice. La sentenza di secondo grado ha congruamente argomentato come l'attività giudiziaria svolta dal giudice minorile, cui la C. ha rivolto le frasi di dileggio ed offesa dianzi ricordate, sia definibile in termini di udienza, tale categoria concettuale individuando l'espletamento di qualunque attività giudiziaria del magistrato (quale che sia la fase processuale in cui essa abbia luogo) implicante, per previsione normativa, l'intervento o la presenza degli altri soggetti processuali e dei loro difensori, anche nel caso in cui tali interventi e presenze in concreto non si verifichino. Nel caso di specie alla audizione della C. da parte del giudice B. ha assistito un legale di sua fiducia (l'avv. Laura Sorze). L'odierna replica della doglianza non ha, dunque, serio fondamento. Nè risponde al vero, come si sostiene nel ricorso, che le massime giurisprudenziali richiamate dalla sentenza di appello per delimitare la nozione di udienza siano risalenti nel tempo. L'orientamento che statuisce come - agli effetti dell'art. 343 c.p. - il magistrato debba considerarsi "in udienza" tutte le volte in cui, in una qualsiasi fase processuale, amministri giustizia con l'intervento delle parti è stabile nella giurisprudenza di questa S.C. (cfr. ex multis: Cass. Sez. 6,3.2.2003 n. 17314, P.G. in proc. Giubbini, rv. 225432).
Totalmente infondata è, altresì, la connessa censura afferente al disconoscimento della causa esimente putativa della reazione ad un atto arbitrario della "autorità" genericamente intesa (nonchè al diniego, sotto subordinato profilo, dell'attenuante della provocazione). Evidenziandosi che il ricorso non precisa in quale specifica attività pubblica, giurisdizionale o amministrativa, si sia manifestata l'arbitrarietà ritenuta per errore esistente dalla C., tale non potendosi ritenere la legittima instaurazione della procedura per l'eventuale decadenza dalla potestà genitoriale della ricorrente, è agevole osservare che la Corte di Appello nissena ha correttamente disatteso i rilievi dell'imputata. Non è revocabile in dubbio, infatti, che in materia di atti arbitrari del pubblico ufficiale il D.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, art. 4 evocato nel ricorso, non prevede una circostanza o causa di esclusione della pena suscettibile di ricadere nella disciplina delle circostanze non conosciute o erroneamente supposte dall'imputato dettata dall'art. 59 c.p., ma una causa esimente che presuppone atti integranti oggettivamente una condotta arbitraria, rendendo irrilevante la diversa mera opinione (per ignoranza o per errore) del soggetto agente. Con l'ulteriore e ovvia conseguenza che non è configurabile una arbitrarietà putativa idonea a dar luogo ad un ad un errore sul fatto che costituisce reato (cfr., ex plurimis: Cass. Sez. 6,18.9.2008 n. 45266, De Pascali, rv. 242395; Cass. Sez. 6,13.1.2012 n. 7928, P.M. in proc. Variale, rv. 252175).
2. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso in tema di lamentata compressione del diritto alla prova a causa della revoca della ammessa testimonianza dell'avv. Gaetana Valente. Revoca disposta dal Tribunale per decadenza susseguente alla mancata comparizione in udienza della testimone e confermata dalla Corte di Appello anche con riguardo alla oggettiva irrilevanza della deposizione del legale, in quanto non presente all'episodio di oltraggio integrante la regiudicanda.
Il diritto alla prova riconosciuto alle parti dall'art. 190 c.p.p., comma 1 implica la corrispondente attribuzione del potere di escludere le prove palesemente superflue e irrilevanti, in base ad una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito, che sfugge al sindacato di legittimità quando sia stata oggetto di apposita motivazione.
Da un lato il Tribunale ha adottato una decisione corretta, revocando l'ammessa testimonianza. Sia perchè la mancata citazione o la mancata comparizione del teste ben possono essere valutate dal giudice di merito come un contegno processuale rivelatore della volontà della parte richiedente di rinunciare alla prova già ammessa. Sia perchè la parte autorizzata a citare i propri testimoni ha l'onere di curarne chiamata e presenza in udienza; onere il cui inadempimento, se pur non produce rinammissibilità della prova, impedisce alla parte di invocare un differimento dell'udienza dibattimentale per l'esame dei propri testimoni, non citati o non presenti (Cass. Sez. 3,13.6.2007 n. 32343, Licitra, rv. 237074; Cass. Sez. 3,11.11.2008 n. 2103, Smigaglia, rv. 242346).
Da un altro lato la Corte di Appello ha in ogni caso additivamente rimarcato la inutilità e superfluità della prova testimoniale in rapporto alla non presenza del testimone ai fatti contestati all'imputata (cfr.: Cass. Sez. 5, 27.5.2008 n. 35986, Ricci, rv.
241584; Cassa. Sez. 3, 18.2.2010 n. 13507, Cimilo, rv. 246604). Al riguardo è appena il caso di osservare che l'odierno ricorso non propone alcun dato specifico che focalizzi la concreta rilevanza (decisività ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) della testimonianza ritenuta ininfluente dal giudice di appello, che ha motivato le ragioni di tale giudizio. E del resto l'esercizio del potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello (tenuto ad offrire specifica giustificazione soltanto dell'ammessa rinnovazione) presenti una struttura argomentativa evidenziante, in caso di denegata rinnovazione, l'esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità (cfr. Cass. Sez. 6,18.12.2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064). Ciè è proprio quel che deve rilevarsi alla luce del testo dell'impugnata sentenza di secondo grado.
3. Indeducibili in questa sede di legittimità debbono, infine, valutarsi le subordinate censure in ordine all'entità della pena inflitta all'imputata e alla sua onerosità. Censure che investono la tematica del trattamento sanzionatorio, che è riservata all'esclusivo apprezzamento del giudice di merito, sottratta a scrutinio di questa S.C., allorchè, come nel caso di specie, tale trattamento sia sorretto da adeguata e non illogica motivazione.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, che si stima equa, di Euro 1.000,00 (mille) alla cassa delle ammende.
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P.Q.M.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2012
Avv. Antonino Sugamele

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