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Sentenza

Si rivolge ad una collega con la domanda: «Ma hai lavorato come prostituta? E' reato.
Si rivolge ad una collega con la domanda: «Ma hai lavorato come prostituta? E' reato.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 22 marzo - 11 giugno 2013, n. 25563

Presidente Ferrua – Relatore Bruno

Ritenuto di fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Salluzzo confermava in parte qua la sentenza del 28/09/2009 con la quale il Giudice di pace di quella stessa città aveva dichiarato B.T.B. colpevole del reato di ingiuria nei confronti di L.P. e, per l'effetto, l'aveva condannata alla pena di giustizia nonché al risarcimento del danno in favore della persona offesa, costituitasi parte civile.
2. Avverso la pronuncia anzidetta il difensore dell'imputata, avv. Riccardo Reinaudo, ha proposto ricorso per cassazione affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

Considerato in diritto

1. Con unico motivo d'impugnazione, parte ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità dell'imputata, al sensi dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen. lamenta, al riguardo, che il Tribunale abbia ritenuto sussistente il reato di ingiuria nonostante mancassero i relativi presupposti, soggettivi e oggettivi, posto che dalla ricostruzione dei fatti era emerso che la stessa B., peraltro collega della persona offesa, si era limitata a chiedere alla stessa se fosse vero quanto si vociferava nell'ambiente di lavoro, cioè che avesse svolto, in passato, attività di prostituta in casa, sicché mancava ogni volontà dl ledere l'altrui onore.
2. La doglianza è, manifestamente, infondata.
Ed invero, non merita censura di sorta la struttura motivazionale dei provvedimento impugnato che offre coerente rappresentazione del convincimento del giudice a quo, che, nel ribadire il giudizio di colpevolezza espresso dal primo giudice, ha ravvisato nella fattispecie gli estremi del reato in contestazione, al di là delle forme con cui è stato consumato. Ha infatti ritenuto, con insindacabile apprezzamento di merito, che la domanda capziosamente rivolta alla destinataria, per sapere se fosse vero che in passato avesse svolto attività di meretricio, recasse offesa alla dignità della persona, indipendentemente dal fatto che la circostanza oggetto dell'interrogativo rispondesse o meno a verità.
Tale epilogo decisionale è in linea con indiscussa lezione giurisprudenziale di questa Corte regolatrice, secondo cui in tema di tutela dell'onore, ancorché in generale, al fine di accertare se sia stato leso il bene protetto dall'art. 594 cod. pen., sia necessario fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata, esistono, tuttavia, limiti invalicabili, posti dell'art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utitizzate "ioci causa" (cfr. Cass. Sez. 5 n. 11632 dei 14/02/2008, Rv. 239479; cfr. pure, id. Sez. 5, n. 39454 del 03/06/2005, Rv. 232339).
Correttamente, pertanto, sono stati ravvisati nella fattispecie gli estremi dell'ingiuria, riconoscendosi che nella tendenziosa formulazione dell'interrogativo vi fosse volontà di ledere la dignità della destinataria, con il chiaro intendimento di metterla a disagio ed umiliarla.
3. Per quanto precede, i! ricorso è inammissibile e tale va, dunque, dichiarato con le consequenziali statuizioni espresse in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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