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Sentenza

Per Cassazione la caparra confirmatoria non determina il quantum del danno che va integralmente provato.
Per Cassazione la caparra confirmatoria non determina il quantum del danno che va integralmente provato.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 9 aprile - 1° agosto 2013, n. 18423
Presidente Oddo – Relatore Scalisi

Svolgimento del processo

D.R.C. con atto di citazione del 6 luglio 1992 conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma S.A. e S.P. , premesso di aver stipulato il (omissis) un preliminare di vendita con il quale aveva promesso di acquistare un appartamento in (omissis) per il prezzo di un miliardo e 500 milioni di lire; che aveva corrisposto L.700.000.000 e si era obbligato al pagamento del residuo alla stipulazione dell'atto notarile nel termine di sei mesi, con possibilità di proroga di altri sei mesi, previa corresponsione degli interessi del 12%, che i convenuti non si erano presentati davanti al notaio il giorno 2 luglio 1992 per la stipulazione dell'atto definitivo di compravendita chiedeva il trasferimento coattivo ex art. 1932 cod. civ. e il risarcimento del danno.
Si costituivano: S.A. , il quale eccepiva la sua estraneità al contratto preliminare e S.P. , la quale sosteneva l'inadempimento della D.R. , inutilmente da lei diffidata alla stipulazione del contratto definitivo entro il (OMISSIS) e chiedeva, pertanto il rigetto della domanda attorca e in via riconvenzionale che accertato l'inadempimento della D.R. si dichiarasse la legittimità del suo recesso e il suo diritto di ritenzione della caparra o in subordine la risoluzione del contratto con condanna della D.R. al risarcimento del danno attraverso la ritenzione della caparra ovvero con pagamento di una somma da determinarsi nel corso di causa.
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 5 giugno 1995, rigettava la domanda della D.R. nei confronti di S.A. e la accoglieva nei confronti di S.P. risolvendo il preliminare in inadempimento di quest'ultima (S.P. ) che condannò alla restituzione della caparra con gli interessi legali, rigettava la domanda risarcitoria della D.R. per mancanza di prova.
Avverso questa sentenza, proponeva appello S.P. e la Corte di Appello di Roma con sentenza del 7 luglio 1978 riformava la sentenza di primo grado, ritenendo che la diffida della S. avesse prodotto la risoluzione ai sensi dell'art. 1454 c.c. e dichiarava il contratto risolto di diritto, confermava la restituzione dei 700.000.000 di lire, fissando la decorrenza degli interessi dalla domanda e condannava la D.R. al risarcimento del danno alla S. da liquidarsi in separata sede.
Avverso questa sentenza proponeva ricorso per cassazione la D.R. , cui resisteva la S. . La Corte Suprema di Cassazione con sentenza del 26 marzo 2002 rigettò tutti i motivi ad eccezione del quarto relativo alla statuizione sul risarcimento, rimettendo alla Corte di Appello di Roma per un nuovo esame della questione. La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza di rinvio, ha affermato che il giudice d'appello non poteva emanare una condanna generica e rimettere ad un separato giudizio la liquidazione, se non violando il principio prescritto dall'art. 112 cpc, ma doveva liquidare il danno in base agli elementi acquisiti, oppure rigettare per difetto di prova.
Il processo veniva riassunto, separatamente dalla D.R. e dalla S. il 26 e 27 marzo 2003. I processi venivano riuniti.
La Corte di appello di Roma con sentenza n. 153 del 2006 riformava la sentenza del Tribunale di Roma e rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta da S.P. . Compensava le spese sia del giudizio di secondo grado e sia del giudizio di legittimità.
La Corte romana ha ritenuto opportuno, anzitutto, precisare che la S. correlò, alla domanda di risoluzione del contratto, la richiesta di condanna della D.R. al risarcimento da soddisfare alternativamente attraverso la ritenzione della caparra, ovvero nel pagamento della somma da accertare e la sentenza parzialmente annullata statuì sulla prima delle richieste alternative quella, cioè, tendente all'affermazione del diritto della S. di ritenere la caparra e la rigettò in applicazione dell'art. 1385 terzo comma, secondo il quale nell'ipotesi in cui la parte non inadempiente non eserciti il recesso, ma agisca per la risoluzione del contratto il diritto al risarcimento rimane regolata dalle norme generali e va, quindi, dimostrato nell'an e nel quantum. Tale statuizione non è stata censurata e non ha, quindi, formato oggetto di esame da parte della cassazione, limitato esclusivamente alla decisione sulla domanda alternativa di risarcimento quella volta all'effettivo risarcimento del danno e alla sua liquidazione. Ora nella fase di rinvio la S. non ha invero formulato la domanda di risarcimento nella forma della liquidazione del danno, né la S. ha dimostrato o ha chiesto di dimostrare il danno subito, né ha allegato alcuna specificazione e, dunque, la domanda della S. va rigettata.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da S.P. con atto di ricorso affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria. D.R.C. , in questa fase non ha svolto alcuna attività giudiziale.

Motivi della decisione

1.- Con l'unico motivo di ricorso S.P. lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi vigenti in tema di risarcimento e liquidazione dei danni derivanti da risoluzione del contratto, artt. 1385, 1453, 1452, 1455 e ss. cc. in relazione all'art. 360 n. 3 cpc, nonché la violazione dei principi in sede di giudizio di rinvio e d'interpretazione e qualificazione della domanda, anche in rapporto alla funzione del giudicato art. 392 e ss. cpc. art. 163 e ss. cpc. in relazione all'art. 360 n. 3 e 4 cpc.
Avrebbe errato la Corte romana, secondo la ricorrente, nell'aver rigettato le domande avanzate con l'atto di riassunzione dalla S. e, cioè sia la domanda di risarcimento del danno con liquidazione in separato giudizio sia la domanda subordinata di liquidazione del danno nella forma della ritenzione della caparra perché ritenendo che la prima (la domanda di risarcimento del danno con liquidazione in separato giudizio) non potesse essere accolta atteso che, in sostanza, avrebbe disapplicato la statuizione della Corte Suprema espressa con la sentenza di rinvio e oggetto del presente giudizio, mentre la seconda (la domanda subordinata di liquidazione del danno nella forma della ritenzione della caparra) non poteva essere accolta atteso che il diritto alla ritenzione della caparra a titolo di risarcimento escluso dalla Corte di Appello con la sentenza del 7 luglio 1998, ormai divenuta definitiva, non avrebbe tenuto conto dell'intera vicenda processuale.
La Corte romana, secondo la ricorrente non avrebbe tenuto conto che la sig.ra S. con l'atto di appello aveva chiesto contestualmente all'annullamento e/o alla riforma della sentenza di primo grado l'accoglimento di tutte le domande proposte in primo grado che venivano a tal fine integralmente ed espressamente richiamate; pertanto, sia pure in torma gradata e alternativa, la sig.ra S. aveva ritualmente proposto sia la domanda di recesso ex art. 1385 secondo comma cc. (con conseguente ritenzione della caparra) sia in via subordinata la risoluzione del contratto per grave ed incolpevole inadempimento della D.R. con richiesta di risarcimento danni commisurato e riferito o alla perdita della caparra confirmatoria, già versata, ovvero alla somma che sarebbe stata accertata in corso di causa o in separato giudizio. Se, dunque questa era la realtà degli atti di causa, specifica la ricorrente, assume rilievo determinante proprio in rapporto alla decisione emessa dalla Corte Suprema di rinvio che la liquidazione del danno fosse stata espressamente ancorata dall'attuale ricorrente alla misura della caparra versata all'atto del preliminare. Come affermato dalla Corte di Cassazione, specifica ancora la ricorrente, non sarebbe precluso nemmeno alla parte che si sia avvalsa della risoluzione stragiudiziale ex art. 1454 cc, richiedere giudizialmente il risarcimento, utilizzando la caparra nella sua funzione di preventiva liquidazione del danno, atteso che il diritto alla caparra può essere fatto valere, anche, nell'ambito della domanda di risoluzione quale entità del danno da risarcire. Insomma, ritiene la ricorrente, qualora la parte non inadempiente chiede la risoluzione del contratto ex art. 1453 cc, la stessa, conserva il diritto di ritenere la caparra ricevuta con questa conseguenza: a) che se il danno accertato è superiore all'importo della caparra a questo importo deve essere aggiunta la differenza fra lo stesso danno e l'importo della caparra: b) se il danno accertato è inferiore all'importo della caparra, il danno da risarcire viene a corrispondere non al minore importo accertato nel giudizio, ma all'importo della caparra, che costituisce, perciò, la misura minima del danno risarcibile derivante dall'inadempimento. Pertanto, conclude la ricorrente, sulla base delle considerazioni svolte apparirebbe del tutto illegittimo sostenere che la domanda di riconoscimento del diritto alla ritenzione definitiva della caparra, a titolo di risarcimento, risulterebbe preclusa dalla statuizione sul punto della Corte di Appello nella sentenza n. 2396 del 1998. Piuttosto, tale domanda non incontrava alcun tipo di preclusione nel giudicato formatosi, viceversa, esclusivamente in relazione alla domanda di recesso ex art. 1385 cc.
La ricorrente conclude formulando il seguente quesito di diritto: Il risarcimento del danno derivante dalla pronuncia di risoluzione del contratto può essere liquidato a tale titolo e ferma restando la sua autonomia e diversità rispetto alla domanda di recesso ex art. 1385 cc. in favore della parte adempiente con riferimento ed in misura pari all'importo della caparra confirmatoria versata dalla parte inadempiente?
1.1.- Il motivo è infondato.
È giusto il caso di evidenziare che la Corte romana, intanto, ha correttamente richiamato i principi espressi dalla Corte di Cassazione con la sentenza di rinvio ed, ad un tempo, ha correttamente evidenziato le esigenze di fatto e di diritto che il Giudice del rinvio avrebbe dovuto soddisfare.
In particolare, la Corte romana ha chiarito che la Corte di Cassazione, avendo accertato che la S. sia in primo che in secondo grado aveva chiesto la condanna della D.R. al risarcimento dei danni nella misura della caparra versata o in quella che sarebbe stata accertata in corso di causa, ha affermato che il giudice di appello non poteva emanare una condanna generica e rimettere ad un separato giudizio la liquidazione se non violando il principio prescritto dall'art. 112 cpc, ma doveva liquidare il danno in base agli elementi acquisiti, oppure rigettare per difetto di prova. Pertanto, la Corte di Cassazione demandava al Giudice del rinvio di liquidare il danno in base agli elementi acquisiti, oppure rigettare per difetto di prova.
Ora, la Corte romana ha riscontrato che con l'atto di riassunzione la S. ha riformulato la domanda di risarcimento riproponendo: a) in via principale, la domanda di liquidazione del danno in separato giudizio: b) in subordine, la domanda di liquidazione del danno nella forma di ritenzione della caparra.
Epperò, come correttamente ha evidenziato la Corte romana, la domanda in via principale non poteva esser accolta perché avrebbe comportato una disapplicazione della statuizione della Suprema Corte, espressa con la sentenza di rinvio e oggetto del presente giudizio. D'altra parte, era del tutto evidente che l'accoglimento di quella domanda avrebbe comportato lo stesso errore in cui era incorsa la sentenza che era stata cassata. Tale affermazione - come pure è stato evidenziato dalla stessa Corte romana - risponde pienamente al principio più volte espresso da questa Corte secondo cui nei casi in cui il Giudice di legittimità decida questioni di fatto o di diritto che si presentano come necessarie ed inderogabili rispetto alla valutazione dei criteri in procedendo e in iudicando di cui è stata assunta la violazione il giudice del rinvio, non potrà discostarsi non solo da questa, ma anche dall'accertato presupposto, il cui riesame tenderebbe a porre nel nulla o a limitare l'effetto della sentenza della Cassazione.
1.1.a).- Non merita alcuna censura neppure l'affermazione della Corte romana con la quale ha ritenuto preclusa l'altra domanda avanzata dalla S. con l'atto di riassunzione e, cioè, la domanda di riconoscimento del diritto alla ritenzione definitiva della caparra a titolo di risarcimento del danno, perché sulla stessa si era formato il giudicato. A ben vedere, la Corte romana ha correttamente evidenziato che la domanda di risoluzione del contratto proposta dalla S. era stata accompagnata dalla richiesta di condanna della D.R. al risarcimento da soddisfare alternativamente attraverso la ritenzione della caparra versata, ovvero nel pagamento della somma da accertare. Sennonché la domanda al risarcimento da soddisfare con la ritenzione della caparra era stata esclusa dalla sentenza parzialmente annullata dalla Corte di cassazione e tale statuizione non era stata censurata e non aveva formato oggetto di esame da parte della stessa Corte di Cassazione, con l'ineludibile conseguenza che quella statuizione era divenuta definitiva.
Pertanto, tale domanda non poteva essere riproposta, neppure con l'atto di riassunzione. Né quella domanda, di ritenere la caparra a titolo di risarcimento del danno, integrava gli estremi di una domanda volta al concreto ed effettivo accertamento del danno e alla sua liquidazione non fosse altro perché la richiesta di trattenere la caparra a titolo di risarcimento del danno darebbe per affermato ma, non dimostrato che il danno subito fosse eguale all'ammontare della caparra. Piuttosto, correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato che la S. avrebbe dovuto - ma non lo ha fatto - riformulare la domanda di risarcimento del danno nella forma della liquidazione con l'impegno della stessa S. di dimostrare l'an e il quantum del danno di cui chiedeva la liquidazione, che però, come afferma la sentenza impugnata non sembra lo abbia fatto né abbia dimostrato o abbia chiesto di dimostrare il danno subito.
1.1.b).- Per altro è convincimento di queste Sez. Un. che del tutto destituita di fondamento (benché suggestivamente sostenuta in dottrina e motivatamente fatta propria da una recente giurisprudenza di legittimità e di merito) risulti la teoria della caparra intesa quale misura minima del danno risarcibile da riconoscersi, comunque, alla parte non inadempiente, benché questa si sia avvalsa, in sede di introduzione del giudizio, dei rimedi ordinari di tutela" (Cass. n. 553 del 2009).
In definitiva, il ricorso va rigettato. Non occorre provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione atteso che D.R.C. , in questa fase non ha svolto alcuna attività giudiziale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Avv. Antonino Sugamele

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