No della Cassazione all'estradizione di un cittadino olandese verso le carceri brasiliane che deve scontare 17 anni di carcere. In Brasile esiste la cronica, costante e generalizzata violazione dei diritti umani sistematicamente perpetrata nelle carceri che sono invivibili.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 15 ottobre – 18 novembre 2013, n. 46212
Presidente Milo – Relatore Conti
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Roma dichiarava sussistenti le condizioni per la estradizione verso la Repubblica del Brasile del cittadino olandese V.C.R. , per l'esecuzione della pena di diciassette anni, sei mesi e un giorno di reclusione, residua rispetto alla condanna di venti anni di reclusione, pronunciata dal Tribunale Federale di Espirito Santo emessa il 26 giugno 1995, divenuta definitiva il 13 luglio 1998, per il reato di traffico di sostanze stupefacenti.
Nel corso della procedura di estradizione, nei confronti del V.C. , detenuto per fatti analoghi commessi in Italia, la Corte di appello di Roma aveva emesso in data 10 ottobre 2012 ordinanza di custodia cautelare.
2. Rilevava la Corte di appello che sussistevano tutti i presupposti per la estradizione e, in particolare, che non poteva costituire ostacolo ad essa, salve eventuali determinazioni discrezionali del Ministro della Giustizia, la denunciata condizione strutturale degli stabilimenti carcerari brasiliani come implicante di per sé la sottoposizione dei detenuti a trattamenti crudeli, disumani e degradanti, tale da costituire una violazione dei diritti fondamentali del condannato, perché, in primo luogo, dalla documentazione prodotta (in particolare quella dal sito Internet di Amnesty International) risultava che la denunciata situazione riguardava episodi occasionali e non aspetti considerabili come connotativi di una generale condizione dei detenuti in Brasile; in secondo luogo, il divieto di estradizione di cui all'art. 705, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., per costante giurisprudenza, riguarda ipotesi in cui simili trattamenti derivino da una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, che non ricorreva nel caso in esame, tanto più che il Ministro della Giustizia di quel Paese aveva in data 15 maggio 2011 adottato una risoluzione per l'adozione di un piano di emergenza finalizzato all'impiego di risorse idonee a risolvere le carenze del trattamento carcerario brasiliano.
3. Ricorre personalmente per cassazione l'estradando che deduce la violazione degli artt. 698, comma 1, 705, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., 5, lett. b) del Trattato di estradizione Italia-Brasile firmato a Roma il 17 ottobre 1989, 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, e il vizio di motivazione, in punto di mancata considerazione, come dato ostativo alla estradizione verso il Brasile, della cronica, costante e generalizzata violazione dei diritti umani sistematicamente perpetrata nelle carceri di quel Paese, ove vi è una condizione di sovraffollamento spaventoso nell'ambito di edifici fatiscenti e malsani, non sono assicurate le minime condizioni igieniche e di assistenza sanitaria in un contesto di diffusione di malattie infettive quali tubercolosi, affezioni dermatologiche e AIDS, ove i detenuti, spesso costretti a dormire sul pavimento e privi di aria, luce e servizi igienici, sono per di più frequentemente sottoposti ad atti di violenza fisica condotti fino allo stupro o all'uccisione e derubati dei loro averi da parte di bande criminali interne e perfino di guardie carcerarie diffusivamente corrotte e comunque assolutamente inadeguate numericamente a fare fronte alla pandemica violenza regnante negli istituti, ove viene inoltre spesso praticata la tortura, il tutto come attestato da numerosi studi di autorevoli studiosi e dai rapporti annuali di accreditate e affidabili istituzioni non governative quali Amnesty International e Human Rights Watch; condizioni terrificanti non attenuatesi nonostante le pressanti raccomandazioni rivolte dall'ONU al Governo brasiliano e i propositi, rimasti inattuati, espressi da quest'ultimo.
Si osserva che la sentenza impugnata, oltre a svalutare illogicamente la univoca produzione documentale depositata dalla difesa, interpreta erroneamente la giurisprudenza di legittimità, che in realtà si è limitata a precisare che non costituiscono indici di un sistema generalizzato episodi occasionali di persecuzione, di maltrattamenti e di violenze riconducibili a iniziative estemporanee, e paradossalmente adduce come argomento contrario alle deduzioni difensive il fatto che anche l'Italia ha subito una condanna dalla Corte EDU per il sovraffollamento carcerario, situazione peraltro lontanissima dalla endemica condizione di illegalità e di abbandono in cui versano le prigioni brasiliane.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato.
2. Fra l'Italia e il Brasile vige il Trattato di estradizione sottoscritto a Roma il 17 ottobre 1989, entrato in vigore il 1 agosto 1993, il cui art. 5, alla lettera b), prevede un divieto di estradizione "se vi è fondato motivo di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta a pene o trattamenti che comunque configurano violazione dei diritti fondamentali".
3. Questa norma convenzionale è contenutisticamente analoga alla disciplina codicistica, nell'ambito della quale l'art. 705, comma 2, lett. c), rinviando all'art. 698, comma 1, dello stesso codice, pone il divieto di estradizione ricorrendo la previsione che l'estradando, in caso di consegna, sia sottoposto a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Come ricordato dalla stessa Corte di appello, da parte della giurisprudenza di legittimità si è più volte espresso il principio che la condizione ostativa alla estradizione collegata alla violazione dei diritti fondamentali deve derivare da una scelta normativa o solo di fatto dello Stato richiedente, e non da mere iniziative estemporanee da parte di apparati pubblici agenti a titolo personale ed estemporaneo (ex plurimis, Sez. 6, n. 21985 del 24/05/2006, Radnef, Rv. 234767; Sez. 6, n. 10106 del 27/10/2005, dep. 2006, Aradi, Rv. 233856; Sez. 6, n. 26900 del 26/04/2004, Martinez, Rv. 229172; Sez. 6, n. 3702 del 18/11/1998, dep. 1999, Frederik, Rv. 212256).
In applicazione di questo principio, si è ad esempio in un caso negata l'estradizione verso la Repubblica della Turchia in presenza di un documentato e generalizzato impiego da parte delle forze di polizia di sistematici atti di violenza fisica o comunque di maltrattamenti nei confronti dei detenuti, evidentemente sul presupposto che ciò fosse tollerato dalle autorità di quel Paese (v. Sez. 6, n. 32685 del 08/07/2010, Seven, Rv. 248002).
4. In termini non dissimili si è più volte espressa la Corte EDU, in relazione alla analoga previsione dell'art. 3 Cost., da cui si è ricavato che è fatto divieto a uno Stato aderente alla Convenzione Europea dei Diritti Umani di disporre la estradizione o la espulsione di individui esposti al rischio di subire nel Paese di destinazione simili trattamenti (sent. 11/01/2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi); con la precisazione che il divieto sussiste anche qualora tali condotte siano poste in essere da privati, qualora il Paese di destinazione le tolleri, non avendo posto in essere misure adeguate allo scopo di prevenirle (sent. da ultimo cit.; nonché, fra le altre, sent. 02/05/1997, D. c. Regno Unito).
5. Poiché in gran parte dei casi non ricorre, per intuibile ragioni, una previsione a livello normativo che possa autorizzare o addirittura imporre in un determinato Paese simili trattamenti contrari ai diritti umani, è appunto a una situazione di fatto, che non sia episodica, ma sia apprezzabilmente consolidata, conosciuta e tollerata dagli organi dello Stato di destinazione, cui occorre fare riferimento per verificare se sussista un impedimento alla estradizione.
Al fine dell'accertamento di una siffatta situazione di fatto, tra le fonti di conoscenza dell'a.g. deputata a decidere su una domanda di estradizione, ben possono essere annoverati documenti e rapporti elaborati da organizzazioni non governative la cui affidabilità sia generalmente riconosciuta sul piano internazionale, tra le quali Amnesty International e Human Rights Watch (v. per questa specifica affermazione Sez. 6, n. 32685 del 2010, Seven, cit. che richiama a sostegno Corte EDU, Grande Camera, sent. 28/02/2008, Saadi c. Italia; cfr. inoltre, tra le altre, nell'ambito di una costante giurisprudenza della Corte EDU, sent. 22/09/2009, Abdolkhani e Karimnia c. Turchia).
6. Venendo al caso in esame, risulta dai rapporti di varie fonti non governative, quali appunto Amnesty International e Human Rights Watch, che la situazione delle carceri brasiliane è da tempo endemicamente caratterizzata, soprattutto in alcuni distretti statali - tra i quali quello di Espirito Santo, che interessa specificamente la presente procedura - dalla pratica della violenza e della sopraffazione nei confronti dei detenuti ad opera sia di bande criminali interne, conosciute e tollerate dalle autorità carcerarie, sia degli stessi agenti di custodia; il tutto nell'ambito di una condizione strutturale di fatiscenza e inadeguatezza degli edifici carcerari che è causa di vistose condizioni di sovraffollamento e di carenze igieniche sanitarie, tali da favorire la propagazione di gravi malattie infettive.
Tale inquietante situazione di fatto, stando a Sez. 6, n. 7911 del 17 gennaio 2011, Lopes (n.m.), è stata accertata anche nel Rapporto elaborato dai capi-missione dell'Unione Europea nella loro visita in Brasile del dicembre 2009, comunicato in estratto con nota del Ministero degli Affari esteri n. 171028 del 13 maggio 2010; e, quel che appare decisivo, è ben conosciuta, come riconosce la sentenza impugnata, dalle stesse autorità brasiliane, tanto che il Ministro della Giustizia di quel Paese in data 15 maggio 2011 adottò una risoluzione per l'adozione di un piano di emergenza finalizzato all'impiego di risorse idonee a risolvere le carenze del trattamento carcerario brasiliano.
7. A fronte di questi univoci dati, indicativi di una condizione non contingente ma protrattasi da tempo, ammessa dallo stesso Governo brasiliano, sicuramente di per sé presuntivamente tale da rendere concretamente configurabile l'assoggettamento dei detenuti a trattamenti carcerari quantomeno degradanti, se non crudeli o disumani, la sentenza impugnata si limita a rilevare che essa non dipende da una scelta normativa e neppure di fatto dello Stato richiedente; non considerando tuttavia che è appunto una "scelta di fatto" quella di conoscere lo stato di degrado in cui versano da tempo le carceri di quel Paese senza approntare le misure (edilizie, igieniche, sanitarie, educative, di polizia interna) idonee ad assicurare ai detenuti le condizioni per ragguagliare il loro trattamento a minime esigenze di rispetto della dignità umana.
Non è comprensibile il rilievo secondo cui anche l'Italia è stata "sanzionata per la situazione in cui si trovano le carceri nel nostro paese": in disparte la considerazione che la inaccettabile condizione di sovraffollamento che ha dato causa ai recenti rilievi mossi all'Italia dalla Corte EDU non sembra sia lontanamente comparabile con quella di grave offesa alla dignità umana che emerge dai rapporti degli organismi internazionali a proposito della situazione del Brasile - non connessa invero al solo problema del sovraffollamento - non si vede come la deprecabile realtà carceraria italiana possa condizionare l'autorità giudiziaria nella valutazione ad essa imposta dalle norme interne e convenzionali circa il presupposto del rispetto dei diritti umani ai fini della decisione in tema di estradizione.
Altrettanto oscuro è il riferimento fatto nella sentenza impugnata alla circostanza che l'estradando vive abitualmente in Brasile, posto che qui non è questione di dove egli viva da libero ma di quale possa essere il suo trattamento da detenuto.
Nel fare riferimento, poi, al proposito espresso dal Ministro della Giustizia brasiliano nel maggio del 2011, la Corte di appello non ha considerato che perché possa ritenersi superata la critica condizione delle carceri di quel Paese, (che, per come rappresentata dagli organismi internazionali e ammessa dalle stesse competenti autorità brasiliane, inibirebbe allo stato l'estradizione del ricorrente), non è sufficiente una simile presa di impegno, ma occorre acquisire informazioni, con le forme previste dall'art. 10 del Trattato di estradizione Italia - Brasile, circa l'esito di tali annunciate iniziative, onde verificare se la situazione di inaccettabile degrado materiale e umano che caratterizza il trattamento carcerario brasiliano secondo le fonti di informazione sino ad ora acquisite possa dirsi se non risolta quanto meno significativamente attenuata.
8. Per le suesposte considerazioni, si impone l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che, all'esito delle informazioni che vorrà acquisire presso l'autorità brasiliana, nei termini sopra chiariti, valuterà se sussistono le condizioni per l'estradizione in quel Paese di R..V.C. , con specifico riferimento alla prospettiva che egli possa essere sottoposto a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, avendo riguardo alle norme interne e convenzionali e ai principi di diritto sopra richiamati.
La Cancelleria curerà gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. cod. proc. pen..
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. cod. proc. pen.
19-11-2013 22:26
Richiedi una Consulenza