Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Cassazionista Trapani

Sentenza

Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la violenza o minaccia deve consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all' atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione.
Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la violenza o minaccia deve consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all' atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione.
Autorità:  Cassazione penale  sez. II
Data udienza:  08 novembre 2012
Numero:  n. 46065
Intestazione

                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                       SEZIONE SECONDA PENALE                        
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. CARMENINI  Secondo Liber -  Presidente   -                     
Dott. PRESTIPINO Antonio       -  Consigliere  -                     
Dott. GALLO      Domenico      -  Consigliere  -                     
Dott. TADDEI     Margherita    -  Consigliere  -                     
Dott. RAGO       Geppino  -  rel. Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
            C.C. nato il (OMISSIS); 
avverso la sentenza del 19/04/2012 della Corte di Appello di Palermo; 
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; 
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Geppino Rago; 
udito  il  Procuratore Generale Dott. Lettieri Nicola che ha concluso 
per l'annullamento con rinvio. 
                 

(Torna su   ) Fatto
FATTO
1. Con sentenza del 15/03/2007, il Tribunale di Agrigento assolveva C.C. perchè i fatti non sussistono dai seguenti reati:
- resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p. (capo sub A), per essersi opposto a B.T. mentre compiva un atto del proprio ufficio, usando violenza nei suoi confronti, consistita nell'aver proseguito la marcia del proprio autoveicolo nonostante che il succitato pubblico ufficiale fosse rimasto impigliato alla portiera, in tal modo trascinandolo per circa 50 metri, cosi da cagionargli le lesioni meglio descritte al capo B);
- lesioni aggravate ex artt. 582 e 585 c.p., art. 576 c.p., n. 1, (capo sub B), per aver cagionato a B.T., al fine di commettere il reato di cui al capo A), lesioni personali consistite in algia da trauma distorsivo al rachide lombare e da distorsione al rachide cervicale, dalle quali è derivata una malattia ritenuta guaribile in giorni sette;
- rifiuto sull'indicazione della propria identità personale ex art. 651 c.p. (capo sub C), per essersi rifiutato, richiesto da B. T., pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, di dare indicazioni sulla propria identità personale.
2. In data 21/04/2008, la Corte di Appello di Palermo, in accoglimento dell'appello con il quale il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento aveva chiesto la riforma della sentenza e la condanna dell'imputato, dichiarava il C. colpevole dei reati ascrittigli, condannandolo altresì al risarcimento dei danni cagionati alla costituita parte civile ed alla rifusione delle spese processuali dalla stessa sostenute in entrambi i gradi di giudizio.
3. A seguito del ricorso proposto dall'imputato, a mezzo del suo difensore, la Corte di Cassazione, in data 14/10/2010, accogliendo il predetto gravame, annullava la sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo, a causa delle "evidenti manchevolezze del ragionamento che ha portato all'affermazione della responsabilità del C.".
4. Con sentenza del 19/04/2012, la Corte di Appello di Palermo, decidendo quale giudice del rinvio, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato di cui al capo C), essendo lo stesso estinto per prescrizione, e lo condannava per i reati di cui ai capi A) e B), confermando, nel resto, le statuizioni della precedente sentenza di secondo grado a favore della costituita parte civile.
5. Avverso la suddetta sentenza l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto nuovamente ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:
1. Omessa, contraddittoria e illogica motivazione per avere la Corte di Appello riconosciuto la sussistenza del reato di lesioni. Secondo il ricorrente, sarebbe illogico avallare, da un lato, le dichiarazioni dei testi a difesa Br. e M. - secondo le quali il B. non fu trascinato per 100 metri dopo essere rimasto impigliato allo sportello del veicolo condotto dall'imputato, bensì rimase in piedi sul predellino del camion - e, dall'altro lato, riconoscere sussistenti le lesioni riportate dal B., il quale aveva "clamorosamente dimenticato" di non essere stato trascinato e le cui dichiarazioni erano state quindi giudicate inattendibili. La Corte territoriale avrebbe tentato, con esito illogico, di "conciliare i contenuti dei certificati medici (...) con una ricostruzione dei fatti che rende assolutamente inattendibile la testimonianza della persona offesa". Inoltre, il ricorrente lamenta la mancanza di motivazione riguardo alla eziologia delle lesioni, ossia all'affermata compatibilità di un trasporto forzoso e di un'accelerazione improvvisa del mezzo con le lesioni riportate nei certificati medici: la Corte di merito, infatti, non avrebbe indicato la legge causale o la regola di esperienza certa che colleghi la patologia insorta nella persona offesa alla condotta del soggetto agente.
2. Illogica motivazione per avere fa Corte di Appello, per un verso, ritenuto sussistente il reato di resistenza a pubblico ufficiale , e, per altro verso, evitato di accertare chi avesse dato causa all'apertura dello sportello del furgone. Pur ammettendo che quest'ultima fondamentale circostanza era rimasta dubbia, il giudicante aveva illogicamente recuperato le testimonianze del B. e dei testi di accusa - che egli stesso aveva ritenuto inverosimili - secondo le quali sarebbe stato lo stesso imputato ad aprire lo sportello durante l'alterco con il pubblico ufficiale .
Oltre a ciò, il ricorrente lamenta la mancata applicazione della scriminante prevista dal D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4, in quanto, se anche l'attività del B. si fosse limitata ad aprire l'abitacolo e a salire sul predellino per ricordare al C. che egli era tenuto a mostrargli il documento di identità, l'imputato avrebbe potuto percepire tale condotta come espressione di prepotenza e di sopruso.
3. Erronea applicazione dell'art. 337 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto la sussistenza dell'elemento obiettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale . A giudizio del ricorrente, la tipicità del reato in questione sarebbe integrata solo qualora sussista un effettivo "rapporto di condizionalità teleologia tra il compimento dell' atto d'ufficio da parte del pubblico ufficiale e la contestuale reazione violenta o minacciosa del destinatario dell'attività, tale che quest'ultima rappresenti il mezzo utilizzato dall'agente per opporsi all' atto dell'ufficio o del servizio": ne conseguirebbe che, poichè il C. non intendeva affatto sottrarsi all'identificazione attraverso un tentativo di fuga, il suo comportamento non potrebbe costituire una condotta ex ante idonea ad opporsi all' atto dell'ufficio del pubblico ufficiale .
4. Omessa motivazione per avere la Corte di merito pronunciato sentenza di improcedibilità per intervenuta prescrizione della contravvenzione di rifiuto d'indicazioni sulla propria identità personale, invece di quella di proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2; secondo il ricorrente, la testimonianza dell'agente di polizia L.R.S. renderebbe evidente l'insussistenza del fatto, sicchè la Corte di Appello avrebbe dovuto pronunciare immediatamente sentenza di assoluzione.
5. Illogica motivazione in relazione a tutti i reati contestati, per avere la Corte di Appello riformato la sentenza di proscioglimento in assenza della riassunzione delle prove dichiarative utilizzate dal giudice di prime cure a sostegno dell'assoluzione, oppure, illegittimità costituzionale dell'art. 603 c.p.p., in relazione all'art. 117 Cost., comma 1, e art. 6, par. 1, CEDU, nella parte in cui non prevede, quale condizione per la riforma della sentenza di assoluzione, la riassunzione dinanzi al giudice d'appello delle prove dichiarative utilizzate dal giudice di prime cure a sostegno dell'assoluzione. Il ricorrente, alla luce di una recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo, resa in data 05/07/2011 (c.c. 14/07/2011, Pres. Casadevall) nel caso D. contro Repubblica di Moldavia, sostiene l'impossibilità per il giudice di appello di pronunciare una sentenza di condanna in assenza di una valutazione diretta della prova dichiarativa. La citata sentenza, facendo seguito a precedenti della stessa Corte che già avevano enunciato il principio di "valutazione diretta" delle prove, ha esplicitato il suddetto principio nel caso in cui le prove siano costituite da testimonianze, affermando che il giudice d'appello non può riformare la sentenza di primo grado limitandosi ad una diversa valutazione di attendibilità della prova, ricavata dalla mera lettura dei verbali che raccolgono la dichiarazione del teste. La pronuncia muove dalla piena applicazione del principio del giusto processo e dalla valorizzazione del principio del contraddicono, che postulerebbe la contestualità tra l'acquisizione degli elementi di conoscenza e l'organo della decisione. D'altra parte, l'attuale giudizio di appello, a detta del ricorrente, si configurerebbe come un giudizio di controllo di merito della decisione impugnata, piuttosto che come una seconda istanza nella quale si svolga un secondo giudizio atteggiato sulla falsariga del primo: nel giudizio di appello, infatti, non può formarsi e di regola non si forma alcuna prova, perchè si tratta di controllare il giudizio di primo grado e la relativa sentenza sulla base degli atti già acquisiti. Il ricorrente prosegue osservando che la prova maturata attraverso l'esame incrociato delle parti sarebbe servita per deliberare l'assoluzione in primo grado, mentre la condanna in appello sarebbe conseguita all'esercizio di quel "controllo" che caratterizzerebbe il giudizio di secondo grado, così lontano dalla possibilità di saggiare attendibilità e credibilità del testimone da pregiudicare inevitabilmente gli esiti del giudizio. Quanto affermato è la diretta conseguenza della constatazione che in grado di appello, le parti, ed in particolare l'imputato, non sarebbero in condizione di intervenire in alcun modo sulla formazione della conoscenza degli elementi su cui il giudice baserà la propria decisione. Pertanto, il principio di diritto sancito dalla Corte EDU imporrebbe che i giudici di appello debbano essere in grado di sentire i testimoni e valutare la loro affidabilità in prima persona, perchè la valutazione dell'attendibilità di un testimone sarebbe un compito che di solito non potrebbe essere raggiunto attraverso una semplice lettura delle sue parole registrate. Infatti, l'opinione del ricorrente è che il nostro ordinamento non sarebbe conforme a detto principio, in quanto la richiesta dell'appellante della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, e in particolare delle prove testimoniali, sarebbe vincolata al presupposto dell'impossibilità di decidere allo stato degli atti ex art. 603 c.p.p.. Infine, nel motivo di ricorso, si precisa che la questione di legittimità costituzionale avrebbe rilevanza nel presente procedimento in quanto l'intera istruttoria dibattimentale sarebbe fondata sulla contrapposizione tra le versioni dei fatti riconducibili ai testi introdotti dal Pubblico Ministero e quelle offerte dai testimoni della difesa.
(Torna su   ) Diritto
DIRITTO
1. illogicità della motivazione in ordine alle lesioni: la doglianza è infondata per le ragioni di seguito indicate.
Questa Corte di legittimità, nell'annullare con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Palermo, aveva rilevato: "dalla analisi del testo della pronunzia evidenti manchevolezze del ragionamento che ha portato alla affermazione di responsabilità del C., in contrario avviso di quanto esposto in quella di primo grado.
Infatti, il punto centrale che ha condotto la Corte di Appello alla riforma della pronuncia assolutoria è stata la considerazione preminente data alla esistenza di una lesione conseguente alla azione violenta dell'imputato, desunta sia da un certificato medico redatto al momento del fatto, sia dalle successive cure apprestate al B. ed anch'esse documentate. Ma la Corte non spiega, a fronte della oggettiva osservazione di incompatibilità della lesione con la azione violenta del C., posta a base della decisione di primo grado, come questa, costituita dalla distorsione del rachide cervicale, ossia della parte alta della colonna dorsale, tale da imporre successivamente terapia di immobilizzazione con collare, fosse eziologicamente connessa alla manovra oppositiva dell'imputato e neppure chiarisce come la messa in moto dell'automezzo avesse causato il trascinamento del vigile, nonostante che la giacca di costui, asseritamente impigliata, non era stata strappata o danneggiata". Alla stregua della suddetta illogicità, la Corte annullò, quindi, con rinvio la sentenza, demandando "alla Corte distrettuale per una nuova valutazione delle circostanze della condotta ascritta al C., con particolare riferimento alla riconducibilità delle lesioni al suo comportamento".
Di conseguenza, anche in considerazione dei motivi di ricorso dedotti dal ricorrente, occorre verificare se la Corte territoriale abbia correttamente dato risposta al seguente quesito: se le lesioni lamentate dal B. fossero o meno riconducibili all'azione tenuta dal C..
La Corte territoriale, innanzitutto, è partita dai punti pacifici di tutta la vicenda, ossia: 1) il B., nella sua qualità di appartenente al Corpo di VVUU di Licata, prestava servizio presso il mercato ortofrutticolo: nella sua prefata qualità, intimò l'alt al C. richiedendo le generalità atteso che costui, alla guida del suo furgone, si era introdotto nel mercato da un ingresso non consentito; 2) il C. reagì in malo modo, rifiutandosi di declinare le generalità e sostenendo di non avere con sè alcun documento identificativo; 3) a quel punto il B. salì sul predellino del furgone.
La Corte da atto che, dal momento in cui il B. sali sul predellino, le versioni rese dai testi divergono in quanto: a) il teste dell'accusa, riferì che ad aprire lo sportello del furgone era stato lo stesso C. e "che a causa di ciò, il B. venne trascinato, essendo rimasto con la giacca impigliata nel mezzo (...)"; b) i testi della difesa, invece, dichiararono che "fu il vigile, dopo aver richiesto invano i documenti al C., ad aprire lo sportello ed a salire sul predellino del furgone, tenendosi aggrappato al manubrio, confermando, tuttavia, che in quel frangente il conducente riprese la marcia, trasportando con sè il pubblico ufficiale (....)".
La Corte, in ordine a tale primo punto (e cioè se il B. fosse o meno stato trascinato dal furgone in movimento), sulla base di oggettivi riscontri (mancanza di lacerazioni degli indumenti indossati dal B.; mancanza di lesioni (graffi, escoriazioni o ematomi) compatibili con la dinamica dei fatti descritta dalla parte lesa), ha ritenuto compatibile con le suddette risultanze istruttorie, la versione dei fatti resa dai testi della difesa, sicchè ha ricostruito la dinamica nei seguenti termini: "Il compendio probatorio sopra rappresentato induce questa Corte a ritenere certo, da un canto, che l'imputato, durante la discussione intrattenuta con il verbalizzante, essendo sprovvisto di documenti identificativi, non volendo declinare le proprie generalità ed avendo quale unico obiettivo quello di scaricare la mercè contenuta nel furgone nel più breve tempo possibile, abbia improvvisamente deciso di innestare la marcia e di allontanarsi, impedendo al pubblico ufficiale di portare a compimento l' atto del proprio ufficio, e, dall'altro, che la persona offesa, presa alla sprovvista dalla partenza improvvisa del furgone, si sia istintivamente aggrappata al manubrio salendo a bordo del predellino e facendosi cosi trasportare, sia pure contro la sua volontà, dal C.".
La Corte, poi, ha ritenuto che le lesioni (distorsioni al rachide lombare e al rachide cervicale cagionate da un evento traumatico, con prognosi di sette giorni) risultanti dalla documentazione medica in atti, fosse ricollegabile eziologicamente proprio al comportamento tenuto dal C.. Scrive, in proposito la Corte: "Non può porsi in dubbio, in mancanza di qualsiasi elemento di segno contrario, che l'eziologia della lesione sia unica e debba individuarsi nella specifica condotta posta in essere dall'imputato ai danni del B., L'improvvisa accelerazione del mezzo, ad opera dell'imputato, ed il conseguente trasporto forzoso effettuato nei confronti del vigile urbano, secondo la ricostruzione operata da questa Corte, appaiono perfettamente compatibili con la tipologia delle lesioni riportate, dovendosi ritenere in questo modo superate le legittime osservazioni riportate nella sentenza impugnata circa l'assenza di contusioni o lacerazioni o quanto meno di uno strappo degli abiti subito dalla persona offesa per effetto del forte e prolungato trascinamento che egli asserisce di avere subito".
Con la suddetta motivazione, quindi, la Corte territoriale ha dato una puntuale risposta al quesito demandatole da questa Corte di legittimità avendo chiarito, sulla base di una diversa dinamica dei fatti (il B. fu trasportato, sebbene contro la sua volontà, sul predellino del furgone e non trascinato appeso per la giacca) che le lesioni subite erano del tutto coerenti con la suddetta dinamica.
Il ricorrente, in questa sede, non contesta la diversa dinamica dei fatti effettuata dalla Corte ma sostiene che questa non sarebbe compatibile con le lesioni. Queste, in realtà, sarebbero preesistenti, come si desumerebbe dalla stessa documentazione medica e non sarebbe chiaro sulla base di quale regola d'esperienza ed in assenza di qualsiasi contributo tecnico- specialistico, la Corte avesse potuto pervenire alla suddetta conclusione.
In realtà non è così.
Quanto alla mancanza di una regola di esperienza, una volta ricostruita la dinamica del fatto nei termini indicati dalla Corte territoriale, è perfettamente logico ed aderente a comuni e notorie regole (delle leggi della fisica) ritenere che, a seguito delle partenza improvvisa del furgone, il B. - che si trovava sul predellino - abbia subito un contraccolpo (del tipo "colpo di frusta") che provocò quelle tipiche lesioni che colpiscono il rachide cervicale e la parte lombare del corpo.
Quanto al fatto che non vi sarebbe prova che quelle lesioni sarebbero conseguenza del comportamento dell'imputato, la Corte (pag. 8-9 della sentenza impugnata) ha preso in esame la suddetta censura ma l'ha disattesa con motivazione amplissima, logica ed aderente agli evidenziati elementi fattuali, sicchè la censura, riproposta in questo grado di giudizio, non può che essere disattesa.
2. violazione dell'art. 337 c.p.: la Corte territoriale, pur ricostruendo, diversamente dal primo giudice, la dinamica dei fatti, ha ritenuto la configurabilità del reato di cui all'art. 337 c.p. alla stregua del seguente iter motivazionale: "a prescindere, infatti, dalla circostanza che il pubblico ufficiale sia stato trascinato dal furgone in marcia, cosi come sostenuto dai pubblici ufficiali, ovvero trasportato coattivamente, poggiando i piedi sul predellino, secondo quanto ritenuto maggiormente verosimile da questa Corte, non può porsi in dubbio che l'azione violenta, posta in essere dall'imputato, ponendo in marcia il furgone, abbia interrotto l' atto del pubblico ufficiale , consistito nell'alt intimato al conducente del mezzo e nel tentativo di identificazione del medesimo, impedendo che lo stesso venisse portato a compimento (...) Nella fattispecie in esame, non può porsi in dubbio che l'imputato avesse la piena coscienza e volontà di impedire, con la propria condotta violenta, il compimento dell' atto di ufficio del vigile urbano, ponendo in pericolo l'incolumità di quest'ultimo, nonostante gli intimasse di fermarsi, essendo rimasto aggrappato al manubrio del furgone".
La Corte, infine, ha negato che fosse configurabile la scriminante di cui al D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4 (ora art. 393 bis c.p.) in quanto "come in precedenza evidenziato, risulta essere privo di qualsiasi conforto probatorio l'assunto difensivo, recepito dal primo giudice, sia pure con qualche riserva (...) secondo cui il C. avrebbe subito una vera e propria aggressione da parte del vigile urbano innervositosi per la mancata esibizione dei documenti.
Infatti, anche da un punto di vista logico, risulta difficile ipotizzare che sia stata effettivamente posta in essere un'aggressione da parte del pubblico ufficiale nei confronti del conducente del furgone, da lui conosciuto soltanto di vista, senza che sia emerso che tra i predetti sussistesse alcun motivo di astio o di rancore, mentre dalle risultanze dibattimentali emerge, in maniera inconfutabile, l'insofferenza del C. nei confronti dei pubblici ufficiali, rei, secondo la propria visione dei fatti, di aver ostacolato l'esercizio della propria attività lavorativa, non consentendogli di scaricare prontamente la merce presso lo stand del mercato ortofrutticolo (...) Nè, con riguardo alla fattispecie in esame, può ritenersi scriminata la condotta contestata all'imputato per la semplice circostanza (su cui peraltro la prova è controversa) che il B., nel corso della procedura di identificazione del prevenuto, possa aver aperto lo sportello del furgone: tale atto , seppure poco ortodosso, non appare che possa assumere i caratteri del sopruso e della prepotenza necessari per la sussistenza della causa di giustificazione invocata".
Il ricorrente, in questa sede, ha obiettato che:
- il delitto di resistenza non sarebbe configurabile perchè l'imputato avrebbe tenuto un atteggiamento meramente non collaborativo o di resistenza passiva. Era, infatti, emerso che "il C. non intendeva affatto sottrarsi all'identificazione attraverso un tentativo di fuga - non riuscito a causa del fortuito "aggancio" dell'agente - bensì intendeva solo dirigersi a scaricare i propri prodotti presso il proprio stand (...)". Di conseguenza, non avendo la condotta neppure "una minima ed astratta capacità di frapporre un ostacolo all' atto di ufficio", il reato non sarebbe configurabile mancando l'elemento oggettivo;
- erroneamente la Corte non aveva riconosciuto la scriminante in quanto il comportamento tenuto dal B. era espressione di prepotenza e sopruso e, quindi, integrava tutti i presupposti giuridici perchè il C. fosse legittimato a reagire.
Entrambe le censure sono infondate.
2.1. Quanto alla configurabilità dell'art. 337 c.p. il dato fattuale oggettivo dal quale non si può prescindere è che il C. fece ripartire il furgone proprio nel mentre il B. gli stava contestando di aver commesso un'infrazione (essere entrato da un ingresso vietato) e nel mentre gli stava chiedendo di declinare le generalità. Questo essendo il fatto (pacifico), come ha correttamente rilevato la Corte è del tutto irrilevante - ai fini della configurabilità del reato in esame - stabilire le modalità con le quali l'imputato si sottrasse al controllo, perchè, qualunque tesi si voglia seguire, il reato deve ritenersi perpetrato. Infatti, costituisce giurisprudenza consolidata di questa Corte quella secondo la quale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la violenza o minaccia deve consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all' atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione: ex plurimis Cass. 3493/1983 Rv. 158578; Cass. 8667/1999 Rv. 214199; Cass. 31716/2003 Rv. 226251;
Cass. 3970/2010 Rv. 245855. E' irrilevante, pertanto, il motivo addotto dall'imputato a giustificazione del suo comportamento, perchè, essendo ben conscio che si stava sottraendo - con violenza - ad un legittimo atto di un P.u. (nel che va ravvisato l'elemento psicologico: cfr pag. 6 sentenza impugnata), l'unica possibilità di andare esente dalla responsabilità penale consisteva nell'invocare (e provare) la sussistenza di qualche scriminante.
2.2. Sennonchè, lo stesso imputato ha invocato come scriminante la sola ipotesi di cui al D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4 (ora art. 393 bis c.p.) da ritenersi insussistente per le ragioni di seguito indicate.
In punto di fatto, si sono supra ( 2) illustrate le ragioni in base alle quali la Corte territoriale ha ritenuto di escluderla.
In punto di diritto, è opportuno rammentare che i requisiti perchè la suddetta scriminate possa essere applicata sono i seguenti:
- come tutte le scriminanti, essendo invocata dall'imputato, è costui che ha l'onere di allegare tutti gli elementi concreti sulla base dei quali possa ritenersi configurabile la sussistenza della scriminante: ex plurimis Cass. 11030/1997 Rv. 209047; Cass. 5251/1991 Rv. 187144;
- la reazione dev'essere proporzionata all' atto arbitrario del p.u.
perchè "altrimenti verrebbe ignorato il principio più generale del ristabilimento dell'equilibrio dell'ordinamento giuridico, qualora anzichè giustificarsi in via eccezionale il ripristino di una situazione alterata dall'arbitrio dell'autorità, si consentissero, attraverso il riconoscimento di cause di non punibilità, reazioni altrettanto arbitrarie proprio perchè sproporzionate". Cass. 13007/1985 Rv. 174347; Cass. 5222/1993 Rv. 194025;
- il concetto di "arbitrarietà" dev'essere inteso in senso autonomo rispetto a quello di "eccesso" e va interpretato in un'ottica essenzialmente soggettiva, come consapevole volontà (e quindi malafede) del pubblico ufficiale di eccedere i limiti delle sue funzioni: Cass. 5414/2009 Rv. 242917; contra tuttavia, Cass. n. 7928/2012, Vaniate, rv. 252175 secondo la quale "l'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4) è integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale , per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell'illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato".
Tanto premesso in diritto, ed applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame, la sentenza impugnata non si presta alla censura del ricorrente, sotto molteplici profili.
Innanzitutto, come ha accertato la Corte in punto di fatto "rimane dubbia la circostanza relativa all'apertura dello sportello del furgone: secondo i verbalizzanti sarebbe stato lo stesso imputato ad aprirlo durante l'alterco con il B. mentre, secondo la versione resa dal prevenuto e dai testi di difesa, sarebbe stata la stessa persona offesa ad aprire la portiera": ciò significa, quindi, che l'imputato non ha affatto dato la prova dell'asserito atto arbitrario ; il che consente, già sotto questo solo profilo, di ritenere non configurabile l'esimente.
In secondo luogo, come ha rilevato la Corte, pur a voler ritenere che il B., nel corso della procedura di identificazione del prevenuto, possa avere aperto lo sportello del furgone, tale atto , benchè "poco ortodosso", non giustifica la sproporzionata reazione dell'imputato che, incurante delle conseguenze del suo gesto sulla incolumità del B., non esitò a ripartire portando con sè la parte offesa: anche tale profilo esclude la configurabilità dell'esimente.
3. violazione dell'art. 129 c.p.p.: la censura è infondata.
La Corte territoriale, dopo avere correttamente richiamato la giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine ai presupposti perchè possa essere pronunciata sentenza di assoluzione a fronte della prescrizione già maturata (la declaratoria della causa di proscioglimento può essere pronunciata solo quando la prova dell'innocenza risulti ictu oculi: ex plurimis SS.UU. 35490/2009 riv 244273), ha ritenuto che la testimonianza del L.R. - contrariamente a quanto sostenuto dall'imputato - non consentisse di pervenire ad un'assoluzione. Infatti, risulta non solo che il primo giudice si era espresso in termini problematici (il L.R. "ha riferito una circostanza che sembra avvalorare quanto dedotto dall'imputato (...)": cfr pag. 19 del ricorso in cui viene trascritto il brano della sentenza di primo grado) ma, in realtà, in senso contrario, depongono le testimonianze, oltre che della parte offesa B. anche del vigile di Licata D. (pag. 3 sentenza impugnata) i quali avevano testimoniato, invece, che il C. si era rifiutato di declinare le proprie generalità. Tanto basta per ritenere che non vi sia la prova evidente dell'innocenza dell'imputato sicchè la decisione della Corte territoriale non si presta ad alcuna censura.
4. LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE: la suddetta questione (supra in parte narrativa 5.5.) è infondata per le ragioni di seguito indicate.
4.1. la sentenza della corte Edu." il ricorrente, invoca, come si è detto, a suo favore, la sentenza pronunciata dalla Corte EDU in data 5/07/2011 nel caso Dan vs Moldavia.
Nella suddetta fattispecie, infatti, era successo che la Corte di Appello di Chisinau aveva accolto l'appello della Procura e riformato la sentenza assolutoria di primo grado senza udire nuovamente i testimoni, ma semplicemente dando una diversa valutazione delle dichiarazioni da costoro rese davanti al Tribunale, ritenendole tutte attendibili e non riscontrando contraddizioni rilevanti ai fini della decisione.
La Corte EDU, ha ritenuto la violazione dell'art. 6 p. 1 della Convenzione ("Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente (...) da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge che deciderà (...) sul fondamento di ogni accusa elevata contro di lui") sulla base dell'iter motivazionale di seguito indicato.
La Corte, innanzitutto, ha ribadito che "30. (...) le modalità di applicazione dell'art. 6 ai procedimenti davanti alle Corti d'Appello dipendono dalle particolari caratteristiche del procedimento in questione; si deve tener conto dell'insieme del procedimento nell'ordinamento giuridico interno e del ruolo delle Corti d'Appello in merito (vedi Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996, 39, Reports 19961). Se una Corte d'Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell'innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare conettamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove (vedi Popovici c. Moldavia, nn. 289/04 e 41194/04, 68, 27 novembre 2007; Constantinescu c. Romania, n. 28871/95, 55, CEDU 200-7^ e Marcos Barrios c. Spagna, n. 17122M7, 32, 21 settembre 2010)".
La Corte, poi, ha preso in esame il caso di specie, osservando che "31. (...) le principali prove contro il ricorrente erano le dichiarazioni testimoniali secondo cui egli aveva sollecitato una tangente e l'aveva ricevuta in un parco. Il resto delle prove erano prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente (vedi paragrafi 13 e 15 supra). Pertanto le testimonianze e il peso dato a esse era di grande importanza per la determinazione del caso. 32. Il Tribunale di primo grado ha assolto il ricorrente perchè esso non ha creduto ai testimoni dopo averti uditi personalmente. Nel riesaminare il caso, la Corte d'Appello ha dissentito dal Tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell'accusa e ha condannato il ricorrente. Nel far ciò, la Corte d'Appello non ha udito nuovamente i testimoni ma si è semplicemente basata sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti".
Alla stregua delle suddette considerazioni, la Corte, quindi, ha cosi concluso: "33. Visto quanto è in gioco per il ricorrente, la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d'Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena - e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del Tribunale di primo grado - avrebbero potuto, in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fomite dai testimoni dell'accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l'innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell'attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate.
Naturalmente, vi sono casi in cui è impossibile udire un testimone personalmente durante il processo perchè, per esempio, egli o ella è deceduto/a, o per proteggere il diritto del testimone di non autoaccusarsi (vedi Craxi v. Italia (n. 1), n. 34896/97, 86, 5 dicembre 2002). Tuttavia, non sembra che le cose stessero così in questo caso".
Si può, quindi, affermare - come ha ritenuto questa Corte di legittimità di recente - che "la Corte Europea, pertanto, ancora la violazione, con riferimento al giudizio di appello, dell'art. 6, par.
1, CEDU, al duplice requisito della decisività della prova testimoniale e della rivalutazione di essa da parte della Corte di appello, in termini di attendibilità, in assenza di nuovo esame dei testimoni dell'accusa per essere la diversa valutazione di attendibilità stata eseguita non direttamente, ma solo sulla base della lettura dei verbali delle dichiarazioni da essi rese" (Cass. sez. 5, n 38085/2012 udienza 05/07/2012, dep. il 02/10/2012).
4.2. LA RINNOVAZIONE DEL DIBATTIMENTO NEL PROCESSO PENALE ITALIANO:
prima di verificare se l'art. 6 p. 1 della CEDU sia compatibile 19 con le norme processuali attualmente vigenti nel processo penale italiano e, in particolare, se, nel caso di specie, vi sia o no stata violazione del giusto processo, è opportuno, rammentare, sia pure brevemente, quale sia la normativa prevista in materia di rinnovamento del dibattimento penale in sede di appello.
Il giudizio di appello, nell'attuale ordinamento processuale italiano, pur essendo congegnato come una revisio prioris istantiae, non si basa sulla semplice rilettura degli atti acquisiti nel giudizio di primo grado.
L'art. 603 c.p.p., infatti, prevede - oltre a quanto stabilito nella peculiare ipotesi di cui al quarto comma - che il dibattimento di appello possa essere rinnovato in ben tre diverse ipotesi:
- per la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l'assunzione di nuove prove: tale fattispecie, prevista nel comma 1, è subordinata alla circostanza che il giudice ritenga "di non essere in grado di decidere allo stato degli atti", situazione questa che si verifica quando i dati probatori già acquisiti siano incerti ovvero quando l'incombente richiesto rivesta carattere di decisività, nel senso che è idoneo ad eliminare le eventuali incertezze ovvero ad inficiare ogni altra risultanza;
- per l'assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado: tale fattispecie, prevista dal comma 2, va disposta nei limiti previsti dall'art. 495 c.p.p., comma 1 norma che, a sua volta, richiama l'art. 190 c.p.p., comma 1 e art. 190 bis c.p.p. relativi, rispettivamente, al diritto alla prova ed ai requisiti della prova nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell'art. 51 c.p., comma 3 bis. In conseguenza di tale doppio richiamo, deve ritenersi che - nel caso previsto dall'art. 603 c.p.p., comma 2 - il Giudice è tenuto sì a disporre la rinnovazione del dibattimento, ma con il limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti: ex plurimis Cass. 8382/2008 riv 239341;
- per l'assunzione disposta d'ufficio: questa terza ipotesi di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale prevista dall'art. 603 c.p.p., comma 3, ricorre solo se se il giudice "la ritiene assolutamente necessaria", dovendosi intendere con tale espressione, il caso in cui ritenga che non gli sia possibile decidere se non dopo l'assunzione di una determinata prova.
Va anche notato che il giudice di appello, ove, nonostante la richiesta delle parti, decida di respingere la richiesta di rinnovazione del dibattimento, è tenuto a motivare e la motivazione è soggetta al controllo di legittimità di questa Corte.
Non è vero, quindi, che l'art. 603 c.p.p., come sostiene il ricorrente "non prevede, quale condizione per la riforma della sentenza di assoluzione, la riassunzione innanzi al giudice di appello delle prove dichiarative utilizzate dal giudice di prime cure a sostegno dell'assoluzione" (pag. 30 del ricorso): al contrario, l'art. 603 c.p.p., prevede che le suddette prove possano essere assunte sia su richiesta delle parti (comma 1) sia d'ufficio (comma 3).
A ciò aggiungasi che, nella specifica e particolare ipotesi in cui, a seguito dell'appello del Pubblico Ministero, il giudice di appello condanni l'imputato assolto in primo grado, questa Corte di legittimità è intervenuta a tutela dell'imputato, in un'ottica rivolta proprio alla realizzazione ed al rispetto del giusto processo.
Infatti, le SS.UU., con la sentenza n 33748/2005, hanno affermato che "l'appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all'esito del dibattimento, salva l'esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice "ad quem" gli ampi poteri decisori previsti dall'art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b).
Ne consegue che, da un lato, l'imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall'altro, il giudice dell'appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all'onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell'imputato" (rv 231675) ed hanno, ulteriormente precisato che "l'imputato ha il diritto di riproporre ogni questione sostanziale o processuale già posta e disattesa in primo grado, nonchè di chiedere con memorie o istanze l'acquisizione di altre e diverse prove favorevoli e decisive, pretermesse dal primo giudice, con la conseguenza che il giudice di appello ha l'obbligo di argomentare al riguardo e, in caso di omissione, l'imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione. La Corte ha infine precisato che il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo alla pronuncia di assoluzione quella di condanna dell'imputato, è tenuto a dimostrare in modo rigoroso l'incompletezza o l'incoerenza della prima" (rv 231674).
In sostanza, le SS.UU., con la suddetta sentenza, hanno enunciato, a tutela dell'imputato assolto in primo grado, i seguenti principi:
1) l'imputato, la cui sentenza di assoluzione è impugnata dal P.m. al fine di ottenerne la condanna, "ha il diritto di ripropone ogni questione sostanziale o processuale già posta e disattesa in primo grado, nonchè di chiedere con memorie o istanze l'acquisizione di altre e diverse prove favorevoli e decisive, pretendesse dal primo giudice";
2) di giudice di appello ha l'obbligo di argomentare al riguardo e, in caso di omissione, l'imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione";
3) "il giudice di appello che rifornì totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo alla pronuncia di assoluzione quella di condanna dell'imputato, è tenuto a dimostrare in modo rigoroso l'incompletezza o l'incoerenza della prima", 4.3. VERIFICA DELLA COMPATIBILITA' dell'art. 6, p. 1 CEDU, COSI' come interpretato dalla Corte EDU, con l'art. 603 c.p.p.: sulla base di quanto si è appena illustrato nei precedenti 4.1. e 4.2., si può, innanzitutto, affermare che non esiste nell'ordinamento processuale italiano alcuna norma che vieti di rinnovare il dibattimento di appello e che, quindi, imponga al giudice di appello di decidere sulla sola base degli atti assunti nel giudizio di primo grado essendogli consentita la sola rilettura di quegli atti. Al contrario, l'art. 603 c.p.p. depone in modo diametralmente opposto a quanto sostenuto dal ricorrente, imponendo al giudice anche di motivare sulla reiezione di riassunzione delle prove: il che significa che non sussiste alcun ostacolo di diritto (ossia di carenza strutturale dell'ordinamento processuale) ma "l'ostacolo" è solo di fatto e consiste nella decisione con la quale il giudice di appello ritenga di non rinnovare il dibattimento, che, però, ove sta ritenuta affetta da vizio motivazionale, è censurabile in sede di legittimità con conseguente annullamento, sul punto, della sentenza.
In altri termini, l'attuale art. 603 c.p.p., letto ed interpretato anche alla stregua dei citati principi di diritto enunciati dalle SS.UU. con la sentenza n. 33748/2005, consente la più ampia rinnovazione del dibattimento sicchè, il giudice di appello, sia d'ufficio, sia ove sollecitato dall'imputato, ben può provvedere alla riassunzione delle prove già assunte nel giudizio di primo grado.
E' importante, a tal proposito, rilevare come il principio per cui la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado - stabilito nell'art. 603 c.p.p., comma 1 - sia subordinata ad una duplice circostanza (ossia che: a) i dati probatori già acquisiti siano incerti; b) l'incombente richiesto sia decisivo e, quindi, idoneo ad eliminare le eventuali incertezze ovvero ad inficiare ogni altra risultanza) è perfettamente coincidente e sovrapponibile con il principio di diritto enunciato dalla Corte EDU secondo il quale il giudice di appello non può decidere sulla base delle testimonianze assunte nel giudizio di primo grado limitandosi ad una mera rivalutazione - in termini di attendibilità - delle medesime (in senso peggiorativo per l'imputato) quando siano decisive.
Sulla base di un esame comparato fra l'art. 603 c.p.p., e l'art. 6, p. 1 CEDU, cosi come interpretato dalla Corte EDU, si può, pertanto, concludere affermando che non vi è alcuna incompatibilità o contrasto non sanabile in via interpretativa fra la norma interna e la disposizione dell'art. 6 p. 1 della Convenzione: di conseguenza, la sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 603 c.p.p. va ritenuta infondata.
4.4. verifica della violazione dell'art. 6 p. 1 CEDU nel caso concreto: appurato che l'art. 603 c.p.p. è compatibile con l'art. 6 1 della CEDU, occorre ora verificare se, nel caso concreto, la rinnovazione del dibattimento fosse o no necessaria.
Innanzitutto, non risulta che il ricorrente abbia richiesto la rinnovazione del dibattimento, ex art. 603 c.p.p., comma 1, al fine di ottenere la riassunzione delle prove acquisite nel dibattimento di primo grado: tale fatto è particolarmente significativo e va stigmatizzato perchè, in un processo di parti, com'è quello penale in cui l'imputato ha ampie facoltà di difesa, non è ammissibile che l'imputato non si faccia parte diligente sollecitando il giudice ad assumere (o riassumere) prove a suo favore.
In secondo luogo, va osservato che la Corte territoriale non ha riformato la sentenza di assoluzione, sulla base di una mera rivalutazione dell'attendibilità - in senso peggiorativo per l'imputato - delle testimonianze assunte in primo grado.
Infatti, a pag. 3 ss. della sentenza impugnata, la Corte territoriale, dopo avere riportato le dichiarazioni testimoniali rese sia dai testi dell'accusa che di quelli della difesa, così conclude:
"Orbene, le versioni dei fatti sopra rappresentate, con le differenze che verranno appresso evidenziate, convergono univocamente sulla circostanza che, effettivamente, il B. fosse intento a compiere un atto del proprio ufficio, consistente nel controllo dell'ingresso dei camion all'interno del mercato ortofrutticolo di (OMISSIS) e nella conseguente identificazione del conducente del mezzo, introdottosi impropriamente da un accesso non consentito, e che tale atto fu impedito dalla condotta dell'imputato che, non essendo in possesso dei documenti richiesti, si rifiutò di declinare le proprie generalità e, nonostante gli fosse stato intimato di fermarsi, innestò la marcia del proprio furgone, trascinando con sè il verbalizzante fino al raggiungimento del traguardo, costituito dallo stand ove avrebbe dovuto scaricare la merce trasportata".
Ciò significa, quindi, che tutte le testimonianze convergevano sul fatto che l'imputato - nonostante il B., nell'esercizio delle proprie funzioni di vigile, gli avesse legittimamente richiesto di declinare le generalità - continuò la sua corsa a bordo del camion. Come si è ampiamente illustrato (supra 2.1.) il suddetto comportamento, è di per sè sufficiente, anche in assenza di alcuna valida causa di giustificazione ( 2.2.), a ritenere integrato il primo dei reati addebitati e cioè la resistenza a pubblico ufficiale di cui all'art. 337 c.p..
Si può, quindi, affermare, in relazione al suddetto reato, che non vi era alcuna necessità di rinnovare il dibattimento perchè, in ordine al dato fondamentale di natura fattuale (e cioè che il C., alla richiesta del B. di declinare le sue generalità, innestò la marcia del proprio furgone, trascinando con sè il verbalizzante fino al raggiungimento del traguardo, costituito dallo stand ove avrebbe dovuto scaricare la merce trasportata), tutti i testi - sia della difesa che dell'accusa - concordano. E' del tutto evidente, pertanto, che, in ordine al reato di cui all'art. 337 c.p., la Corte non ha effettuato alcuna diversa valutazione delle varie testimonianze, essendosi solo limitata, piuttosto, ad inquadrare correttamente, sub specie iuris, la fattispecie sottoposta alla sua attenzione.
D'altra parte, è lo stesso ricorrente che, ben conscio di quanto appena detto, nel sostenere la necessità della rinnovazione del dibattimento, sofferma la sua attenzione sulla "mancata presa di posizione della Corte distrettuale in ordine al significato e all'effettiva consistenza probatoria delle condotta del B. (apertura dello sportello e fasi successive), che, sulla base di una contraddizione tra le versioni dei colleghi del B. e quelle dei testi a discarico, viene ricondotta alla sola, eventuale apertura dello sportello del camion ed esclusa dal fuoco della valutazione giudiziale, se non per contestarne, in via soltanto eventuale, la rilevanza": pag. 33 ricorso.
In realtà, la suddetta censura è fuorviante, non attenendo tanto alla configurabilità dell'art. 337 c.p., quanto alla sussistenza della pretesa scriminante di cui al D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4 (ora art. 393 bis c.p.).
Sennonchè, come si è illustrato ( 2.2.), la Corte territoriale ha escluso la sussistenza della suddetta scriminante sia in punto di fatto che in punto di diritto: di conseguenza, dovendosi ritenere la conclusione in punto di diritto - che ha come presupposto fattuale proprio la tesi difensiva dell'imputato - del tutto corretta, ancora una volta, la rinnovazione del dibattimento sarebbe stata del tutto irrilevante.
Infine, quanto al reato di lesioni, è sufficiente rilevare che la Corte ha accolto la tesi difensiva (e cioè che il B. non era stato trascinato dal camion in movimento, bensi solo trasportato, contro la sua volontà, mentre si trovava appoggiato sul predellino del camion) ma ha ritenuto ugualmente che le lesioni fossero ricollegabili eziologicamente al comportamento tenuto dall'imputato, sulla base di dati oggettivi (certificazione medica) e di comune esperienza (cfr. supra 1): non vi era, quindi, alcuna necessità di rinnovare, sul punto, l'istruttoria.
5. In conclusione, l'impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
(Torna su   ) P.Q.M.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 8 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2012
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza