La V sez. penale della Cassazione, con la sentenza n. 15846 del 5 aprile 2013, afferma nuovamente l'applicazione dell'aggravante del danno di rilevante gravità anche nel caso si bancarotta impropria.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 marzo – 5 aprile 2013, n. 15846
Presidente Marasca – Relatore Demarchi Albengo
Ritenuto in fatto
1. V.P. , M.D.M.G. e Ma.An. sono imputati, in qualità di componenti del collegio sindacale, di vari reati di bancarotta in relazione al fallimento delle società SICAR Spa e F.I.M. Spa.
2. Il giudice di primo grado ha ritenuto M.D.M.G. , quale presidente del collegio sindacale, responsabile dei reati di cui ai capi B, E ed H e lo ha condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione; V.P. e Ma.An. sono stati ritenuti responsabili dei soli capi B ed E e condannati entrambi alla pena di anni quattro di reclusione. Tutti gli imputati sono poi stati condannati al risarcimento dei danni in favore del Fallimento SICAR Spa e del Fallimento F.I.M. Spa., con provvisionale di Euro 30.000 per il primo e di Euro 150.000 per il secondo.
3. La Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la prescrizione del reato di cui al capo H, riducendo la pena inflitta a M.D.M.G. a tre anni e nove mesi di reclusione; ha inoltre ridotto le pene inflitte a V.P. e Ma.An. nella minor misura di tre anni e due mesi di reclusione.
4. Le pene sono state condonate per tutti nella misura di anni tre in applicazione dell'indulto.
5. Contro la sentenza di appello propongono ricorso per cassazione tutti e tre gli imputati per i seguenti motivi:
6. M.D.M.G. .
a. erronea applicazione delle norme di cui agli articoli 219 comma uno e 223 della legge fall.; secondo il ricorrente l'aggravante speciale del danno di rilevante gravità di cui all'articolo 219, comma uno, della legge fallimentare, non si può applicare ai fatti di bancarotta impropria.
b. mancanza di motivazione in relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale contestata al capo H.
c. illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità del ricorrente a titolo di concorso in ordine ai delitti di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale contestati ai capi B ed E. Secondo il ricorrente i giudici di merito avrebbero sminuito le conclusioni della consulenza D. -P. , le dichiarazioni rese dal dottor M..B. e le considerazioni espresse dal curatore fallimentare. La Corte territoriale avrebbe proceduto ad una erronea rappresentazione, in motivazione, del dato probatorio acquisito, atteso che lo stesso - secondo il ricorrente -consentiva di escludere che i rilievi all'operato degli amministratori, da parte del collegio sindacale, fossero tardivi.
7. V.P. .
a. il primo motivo di ricorso è uguale al motivo numero uno presentato dal M. .
b. con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell'articolo 157, comma due, del codice penale per essere i reati estinti per prescrizione, in conseguenza della inapplicabilità dell'aggravante speciale di cui all'articolo 219, comma uno, della legge fallimentare.
c. violazione dell'articolo 29 del codice penale per essere stata irrogata una pena accessoria di cinque anni, quando la pena detentiva era di anni tre e mesi due di reclusione; secondo il ricorrente la Corte d'appello avrebbe dovuto contenere la pena accessoria entro i limiti della pena detentiva comminata.
8. Ma.An. .
a. violazione degli articoli 216, comma uno numero uno della legge fallimentare e 429, lett. c), del codice di procedura penale. Secondo il ricorrente la Corte territoriale non avrebbe validamente motivato in ordine al rigetto del secondo motivo di appello, con il quale si chiedeva che venisse dichiarata la nullità della sentenza di primo grado per la genericità di entrambi i capi di imputazione B ed E.
b. vizio di motivazione in relazione agli articoli 216, comma uno, numero uno e 223 c. 1 e 2 n. 1 della legge fall.; secondo il ricorrente la Corte non avrebbe spiegato perché la condotta negligente dei sindaci configurasse un comportamento doloso e non un addebito a titolo di colpa.
c. il terzo motivo di ricorso è uguale al motivo di ricorso numero uno di M. e V. .
d. con il quarto motivo di ricorso si chiede la declaratoria di prescrizione dei reati e l'annullamento di tutti i capi della sentenza di primo e secondo grado che riguardano il pagamento delle spese processuali.
Considerato in diritto
1. È opportuno trattare per prima la questione relativa alla applicabilità della circostanza aggravante speciale di cui all'articolo 219, comma uno, della legge fallimentare all'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria, in quanto motivo di ricorso comune a tutti e tre i ricorrenti. Il motivo è inammissibile ai sensi dell'art. 606, ultimo comma, c.p.p. per tutti e tre i ricorrenti, trattandosi di violazione di legge non dedotta con i motivi di appello. In ogni caso il motivo è anche manifestamente infondato. Corrisponde a verità che questa stessa sezione della Corte ha recentemente affermato che non è applicabile la circostanza aggravante ad effetto speciale del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 219, comma primo, l. fall., all'ipotesi di bancarotta documentale fraudolenta impropria, stante il richiamo letterale dell'art. 219 comma primo l. fall., circoscritto agli art. 216, 217 e 218 l. fall. (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 8829 del 18/12/2009, Rv. 246154); tuttavia non può parlarsi di vero e proprio contrasto, che imporrebbe la rimessione alle sezioni unite, trattandosi di una pronuncia isolata che si inserisce nell'ambito di un orientamento consolidato in senso contrario (tra le più recenti si vedano Sez. 5, n. 10791 del 25/01/2012, Bonomo, Rv. 252009; Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Rv. 251215, Pisani; Sez. 5, Sentenza n. 127 del 08/11/2011, Rv. 252664, Pennino; Sez. 5, Sentenza n. 30932 del 22/06/2010, Rv. 247970 e Sez. 5, Sentenza n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247320, mentre per il passato si possono vedere Cass. Sez. 5, 29 novembre 1968, Solare, CED Cass. 110171; Cass. Sez. 5, 27.4.1992, Bertolotti, CED Cass. 191564). L'arresto di questa sezione del 2009 ha rammentato che la bancarotta c.d. "impropria" si presenta come reato a diversa struttura rispetto alla fattispecie "propria", sicché mancando, nell'articolo 223, il rinvio all'articolo 219, non sarebbero applicabili ai soggetti di cui all'articolo 223 le predette aggravanti, non potendosi operare un'interpretazione analogica, vietata dal divieto di analogia in malam partem in ambito penale (risolvendosi l'operazione ermeneutica in una lettura sfavorevole al reo). Ma all'applicabilità dell'aggravante di cui all'articolo 219 non si giunge percorrendo la via dell'interpretazione analogica, bensì tramite una semplice operazione ermeneutica di tipo sistematico ed, al più, con una interpretazione di tipo estensivo; si vuole dire che l'applicabilità dell'aggravante per la bancarotta impropria deriva direttamente dalla sua disciplina normativa e non si ricava invece in via di integrazione analogica di una disciplina carente. Innanzitutto si devono distinguere le ipotesi previste dal primo comma dell'articolo 223 da quelle del comma successivo; mentre in quest'ultima norma vengono introdotte nuove fattispecie di reato, per le quali il rinvio all'articolo 216 è solo quoad poenam, nel primo comma vengono sanzionate le stesse condotte previste dall'articolo 216, con l'unica differenza che in questo caso sono realizzate da soggetti diversi dall'imprenditore, sebbene in qualche modo legati all'amministrazione dell'ente collettivo. Ne consegue che le differenze strutturali tra la bancarotta propria e quella impropria di cui al primo comma dell'articolo 223 sono minime e non attengono al dato oggettivo della condotta; ne conseguirebbe, pertanto - seguendo l'interpretazione propugnata dal ricorrente - una ingiustificata disparità di trattamento a favore degli amministratori degli enti collettivi, tanto più irragionevole se si pensa che le più vaste dimensioni dell'impresa societaria comportano normalmente una maggiore gravità e diffusività delle conseguenze dannose del reato di bancarotta, anche a causa del più elevato dinamismo e della più intensa pericolosità degli organismi societari, capaci di ledere molteplici interessi. È ben vero che una tale considerazione di ordine logico non sarebbe sufficiente a scalfire una chiara disposizione normativa in senso contrario, ma nel caso in esame vi è la possibilità di operare un'interpretazione non solo costituzionalmente orientata, bensì anche più aderente al dato sistematico. Ebbene, l'art. 223.1 dice che agli amministratori (...) di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nell'articolo 216, si applicano le pene ivi stabilite. Ciò significa che la determinazione della pena per i reati commessi ai sensi dell'articolo 223 primo comma si deve operare con riferimento a quanto previsto dall'articolo 216 per la bancarotta propria; ma le pene per la bancarotta propria si determinano tenendo conto non solo dei minimi e massimi edittali contemplati dall'articolo 216, bensì anche considerando le attenuanti e le aggravanti "speciali" previste per tali reati. Il rinvio alla determinazione della pena, cioè, deve ritenersi integrale ed è basato sul presupposto della identità oggettiva delle condotte; ogni diversa interpretazione sarebbe irragionevole in quanto condotte potenzialmente più pericolose sarebbero punite in modo più lieve. Ne conseguirebbe il rilievo d'ufficio della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 223, comma primo, della legge fallimentare nella parte in cui non prevede che ai reati di bancarotta commessi dai soggetti gestori delle imprese societarie si applichino le aggravanti previste dall'articolo 219 della medesima legge. Ma, per costante insegnamento del giudice delle leggi, l'interprete deve prima di tutto verificare se sia possibile operare un'interpretazione costituzionalmente orientata e solo in caso negativo rimettere gli atti alla Consulta. Nel caso di specie non risulta essersi formato un diritto vivente, impeditivo di una diversa interpretazione, mentre sussiste invece la possibilità di operare un'interpretazione, peraltro conforme alla giurisprudenza maggioritaria, che sia rispettosa dei canoni costituzionali. Né può dirsi ostativa ad una tale interpretazione la recente sentenza delle Sezioni Unite (21039/2011, Loy), la quale affronta il problema incidentalmente in un breve passo della motivazione; non è chiaro, infatti, l'intendimento delle sezioni unite, le quali prima parlano di interpretazione estensiva e poi di applicazione analogica. Pare emergere dal contesto della motivazione (riferita al diverso caso dell'applicabilità dell'articolo 219, co. II, n. 1) che l'applicabilità dell'art. 219 alla bancarotta impropria sia diretta ("..il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull'applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l'aggravante sui generis di cui si discute. D'altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v'è ragione, ricorrendo l'eadem ratto, di differenziare la disciplina sanzionatoria"); il periodo successivo della motivazione sembra indicare che l'applicabilità del 219 può operare solo in via analogica ("L'applicazione analogica della L Fall., art. 219, ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all'imputato..") ma così interpretato implicherebbe una contraddittorietà evidente tra i due passi della sentenza. Quest'ultimo periodo deve dunque essere interpretato come argomento subordinato per giustificare l'applicabilità dell'articolo 219, co. II, n. 1 alla bancarotta impropria, anche qualora tale applicabilità presupponesse un'interpretazione analogica (che viene però esclusa dalla sentenza). Vi è, infine, da prendere in esame un ultimo aspetto, di natura sistematica, che potrebbe indurre l'interprete ad una interpretazione restrittiva; gli articoli da 223 a 226 della legge fallimentare si occupano dell'estensione delle pene previste per l'imprenditore individuale agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società dichiarate fallite. In tali norme sono richiamati espressamente gli articoli 216,217,218 e 220, mentre non è mai richiamato il 219. Da ciò potrebbe desumersi un'esclusione volontaria di quest'ultima norma da parte del legislatore, con conseguente sua inapplicabilità a tutte le ipotesi di bancarotta impropria. In realtà una tale interpretazione si palesa superficiale e non tiene conto di un dato fondamentale, e cioè del fatto che mentre gli articoli 216,217,218 e 220 individuano delle specifiche fattispecie di reato, l'articolo 219 contempla delle semplici circostanze (anche se la sentenza citata delle Sezioni Unite riqualifica sostanzialmente l'aggravante di cui all'articolo 219, co. II, n. 1 come una peculiare disciplina del concorso di reati).
2. Il secondo motivo di ricorso di M.D.M.G. (mancanza di motivazione in relazione al reato di bancarotta fraudolenta documentale contestata al capo H) è inammissibile in quanto per il capo H vi è stata declaratoria di prescrizione. Ed allora è sufficiente richiamare Sez. 6, n. 40570 del 29/05/2008, Di Venere, Rv. 241317, secondo cui: È inammissibile il ricorso per cassazione che deduca il difetto di motivazione della sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, in quanto l'inevitabile declaratoria di estinzione anche da patte del giudice del rinvio preclude che l'impugnata sentenza possa essere annullata con rinvio.
3. Il terzo motivo di M. (illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità del ricorrente a titolo di concorso) è inammissibile; con questo motivo di ricorso si deduce, implicitamente, un travisamento delle prove, senza però indicarne con precisione gli elementi essenziali, limitandosi il ricorrente ad affermare che non erano stati adeguatamente valutati e valorizzati alcuni elementi di prova, che a dire della difesa avrebbero consentito di escludere la responsabilità dell'imputato. In realtà si tratta di elementi valutativi delle prove, dei quali non è consentito il riesame in questa sede di legittimità, essendovi adeguata motivazione sul punto alle pagine 12 e seguenti della sentenza impugnata. Si rammenta, poi, che il travisamento della prova, comunque, richiede che un dato di essa sia stato letto da parte del giudice di merito in modo tale da condurre all'affermazione dell'esistenza di una specifica circostanza oggettivamente esclusa dal risultato probatorio o alla negazione della sussistenza di una circostanza sicuramente risultante dalla prova. Deve trattarsi, quindi, di un errore che inquini la trama motivazionale dell'intero provvedimento stravolgendola al punto di disarticolarla, con la conseguenza di rendere "ictu oculi" errato il risultato decisorio raggiunto su un punto rilevante e perciò decisivo ai fini della decisione. Solo in tal caso, e sempre che dell'errore il ricorrente abbia fatto una precisa e specifica individuazione tra gli atti del processo, indicando alla Corte, con assoluto rigore, la sua precisa collocazione "topografica", è possibile al giudice di legittimità esaminare quell'atto e procedere all'annullamento della sentenza, ove sia rilevata l'esattezza della deduzione del ricorrente (Cassazione penale, sez. VI, 13 marzo 2009, n. 26149). Va, infine, rilevato che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto solo nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronuncia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cassazione penale, sez. II, 28 maggio 2008, n. 25883). In tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l'eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (sez. 4, n. 20395 del 10 febbraio 200$. Quanto premesso consente a questa Corte di affermare la piena legittimità, sotto il profilo della motivazione, della sentenza impugnata.
4. Il primo motivo di ricorso V.P. è già stato trattato (quale motivo comune ai tre ricorrenti) e ritenuto inammissibile; ne consegue che anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto dipendente dal primo. Il terzo motivo è inammissibile prima di tutto perché non è esplicitata chiaramente la violazione di legge lamentata; l'articolo 29 del codice penale, infatti, impone la interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni e l'imputato è stato condannato, come evidenzia lo stesso motivo di ricorso, alla pena di anni tre e mesi due di reclusione. Quanto alla inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale per la durata di 10 anni, trattasi di fattispecie addirittura non disciplinata dall'articolo 29 del codice penale, per cui il motivo di ricorso risulta del tutto inconferente, oltre che privo della necessaria specificità. In ogni caso si ricorda che le sanzioni accessorie oggetto di doglianza sono stabilite dalla legge in misura fissa, per cui non si può ritenere nemmeno violato l'articolo 37 del codice penale, che si riferisce unicamente alle pene accessorie di cui non è determinata espressamente la durata (cfr. Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 9672, RV 246891; nello stesso senso Sez. V, n. 23720 del 21 marzo 2010, e poi Sez. 5, n. 23606 del 16/02/2012, Ciampini, Rv. 252960; Sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690; Sez. 5, n. 269 del 10/11/2010, Marianella, Rv. 249500 ed infine Sez. 5, n. 30341 del 30/05/2012, Pinelli, Rv. 253318; Sez. 5, n. 16083 del 23/03/2011, Capizzi, Rv. 250089; si veda anche Corte cost., 31 maggio 2012, n. 134).
5. Il primo motivo di ricorso di Ma.An. è infondato; il lamentato difetto di motivazione, infatti, non sussiste. Il ragionamento dei giudici di merito, riportato per stralci nello stesso motivo di ricorso, è adeguato e condivisibile. In tema di requisiti del decreto di citazione a giudizio, infatti, ai fini di ritenere completo nei suoi elementi essenziali il capo d'imputazione è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (ex multis, Sez. 4, n. 34289 del 25/02/2004, Mayer, Rv. 229070) e nel caso di specie l'imputato, proprio sulla base delle contestazioni contenute nel decreto, aveva articolato puntuali difese ed aveva dimostrato, anche nel corso delle spontanee dichiarazioni, di avere ben presente quali erano i fatti a lui addebitati. D'altronde, il capo di imputazione non può che contenere l'individuazione dei tratti essenziali del fatto di reato attribuito, dato che quest'ultimo può emergere in tutte le sue sfaccettature solo all'esito del dibattimento (Sez. 6, n. 21953 del 01/04/2003, Zakaria, Rv. 226273).
6. Con il secondo motivo di ricorso non si deduce una violazione di legge, ma la mancanza di motivazione sull'elemento soggettivo. Ma la motivazione c'è ed è priva di vizi logici, nonché piuttosto approfondita, alle pagine 12 e seguenti della sentenza che, dopo alcune premesse in diritto, evidenziano - con vantazione in fatto non suscettibile di controllo in sede di legittimità, in quanto adeguatamente motivata - come le plurime e gravi irregolarità non potessero non essere state percepite dai sindaci nel corso di un così lungo arco temporale.
7. Il terzo motivo di ricorso è già stato trattato (quale motivo comune ai tre ricoprenti) e ritenuto inammissibile; ne consegue che anche il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto dipendente dal terzo.
8. Ne consegue che i ricorsi di V.P. e M.D.M.G. devono essere dichiarati inammissibili; alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrenti: cfr. Corte Costituzionale sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno.
9. Il ricorso di Ma.An. , invece, deve essere rigettato; ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.
10. Tutti gli imputati devono poi essere condannanti in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di V.P. e M.D.M.G. e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso di Ma.An. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna altresì i ricorrenti, in solido, al rimborso delle spese della parte civile Fallimento SICAR Spa, che liquida in Euro 3.500,00, oltre accessori come per legge.
08-04-2013 23:59
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