L'applicazione di una misura di sicurezza a fronte di una sentenza di assoluzione per vizio totale di mente non legittima il giudice a pronunciarsi sulle richieste risarcitorie civili.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 ottobre - 8 novembre 2013, n. 45228
Presidente Giordano – Relatore Zampetti
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 29.02.2012 la Corte d'assise d'appello di Firenze, in parziale riforma della pronuncia di primo grado resa in esito a rito abbreviato, riduceva nei confronti di H.A.C. , nativo dello (omissis), assolto per vizio totale di mente, ad anni dieci la durata della misura di sicurezza personale del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e disponeva altresì provvisionali in favore delle costituite parti civili, nei termini di cui in atti, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
L'addebito è di duplice omicidio premeditato e di porto ingiustificato di un coltello.
Rilevava dapprima l'anzidetta Corte territoriale come fosse del tutto pacifico che l'imputato avesse, in Firenze il 04.04.2010, ucciso due connazionali colpiti ripetutamente in zone vitali del corpo con un pugnale lungo circa trenta centimetri, ciò risultando in modo indiscutibile dalla deposizione di alcuni testimoni oculari, dalle stesse ammissioni dell'H. e dal ritrovamento nella sua abitazione dell'arma usata.
L'imputato aveva riferito il gesto omicidiario alla sua convinzione di essere perseguitato e deriso a causa della sua personalità sessuale ritenuta di tipo femminile. In esito a perizia psichiatrica, effettuata in incidente probatorio, l'H. era stato ritenuto affetto da disturbo delirante sistematizzato di tipo persecutorio e quindi totalmente incapace di intendere e di volere nonché socialmente pericoloso, pur con possibile evoluzione meno negativa ove adeguatamente curato.
Ciò posto, riteneva la Corte di secondo grado che la misura di sicurezza, in ragione della pena edittale dell'ergastolo, prevista per i reati commessi, dovesse essere determinata nella misura minima di anni dieci (e non venti come stabilito dal Gup). Ritenute poi le deteriori condizioni economiche in cui erano venute a versare le famiglie delle due vittime, la Corte fiorentina disponeva a carico dell'imputato, già condannato in primo grado al versamento di un'equa indennità rimessa per la sua quantificazione al giudice civile, provvisionali di Euro 30.000 per una ed Euro 50.000 complessivi per l'altra.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l'anzidetto imputato che motivava l'impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, argomentando - in sintesi - nei seguenti termini:
a) trattandosi di persona dichiarata totalmente incapace di intendere e di volere per infermità di mente, non avrebbe potuto essere disposto un equo indennizzo ex art. 2047 Cod. Civ., come stabilito dal primo giudice e confermato dalla Corte di secondo grado;
b) sul punto vi era comunque vizio di motivazione, atteso che la sentenza impugnata si limitava a ripetere la decisione del Gup, mancando di confrontarsi con le deduzioni difensive;
c) le provvisionali avrebbero potuto essere collegate ad un vero e proprio risarcimento generico, ma non ad un equo indennizzo.
3. In data 25.09.2013 la parte civile M. depositava memoria di contrasto alle tesi sostenute dal ricorrente.
Considerato in diritto
1. Il ricorso, fondato per i motivi di cui infra, deve trovare accoglimento con limitato riguardo al tema, unico dedotto, della condanna in favore delle costituite parti civili.
2. In proposito occorre rilevare come il giudice di primo grado abbia motivato la condanna generica dell'imputato in favore delle parti civili ricollegandola alla regola generale dettata dall'art. 185, comma 2, Cod. Pen. e facendo riferimento al consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, in caso di assoluzione per mancanza di imputabilità, l'autore del fatto costituente reato è tenuto a corrispondere alla parte lesa un'equa indennità, indennità che il Gup, assumendo che nella fattispecie non risultava esservi stato un diverso soggetto tenuto alla sorveglianza dell'H. , riconduceva alla disposizione di cui all'art. 2047, comma 2, Cod. Civ..
A fronte di tale decisione, l'imputato si era gravato, sul punto, assumendo che il caso di soggetto non imputabile per totale infermità di mente, quale quello in esame, era riconducibile non all'art. 2047, ma all'art. 2046 Cod. Civ., non potendosi equiparare l'ipotesi del minorenne (che può anche essere ritenuto responsabile delle proprie azioni) a quella prevista dall'art. 88 Cod. Pen.. Egli chiedeva dunque l'esclusione della condanna pronunciata in favore delle parti civili.
La Corte d'appello di Firenze, con motivazione quanto mai stringata, respingeva tale motivo di gravame ribadendo che l'equa indennità in favore dei soggetti danneggiati era dovuta in base al combinato disposto degli artt. 185, comma 2, Cod. Pen. e 2047, comma 2, Cod. Civ.. La Corte territoriale, prendendo poi in esame l'appello delle parti civili, che si erano lamentate della mancata concessione di provvisionali a loro favore, in accoglimento di tale motivo, condannava l'imputato a versare loro somme provvisionali nei termini sopra riportati (peraltro ancora con motivazione assai sbrigativa sull'an e del tutto mancante sul quantum).
3. Tanto rilevato, è di tutta evidenza la violazione della legge processuale penale in cui sono incorsi entrambi i giudici del merito.
Deve essere in via preliminare osservato come sia in primo che in secondo grado si sia dibattuto - sulla falsariga della controversia tra le parti, nei termini in cui queste avevano impostato la questione - sulla natura del ristoro dovuto a chi abbia subito un danno cagionato da persona dichiarata non imputabile per vizio totale di mente, sulla fonte normativa di tale ristoro, su chi vi debba far fronte. Si tratta, con tutta evidenza, di problemi di natura sostanziale che trovano nella consolidata giurisprudenza civilistica ampia e puntuale risposta.
Va però rilevato come entrambi i giudici del merito abbiano mancato di confrontarsi con il disposto dell'art. 538, primo comma, Cod. proc. pen. che subordina qualsiasi pronuncia del giudice penale sulle questioni civili alla pronuncia di una sentenza di condanna ("quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt. 74 e seguenti"). Ora è del tutto pacifico che, nella presente vicenda processuale, l'imputato H. è stato assolto (essendo non discutibile che, in caso di accertato vizio totale di mente, l'imputato debba essere assolto), di tal che non si poteva ritenere verificato il presupposto, indefettibile ex lege, per una legittima pronuncia risarcitoria (o di tipo indennitario). In caso di assoluzione dell'imputato, dunque, per qualsiasi causa, è inibito al giudice penale - che in tal senso ha una vera e propria incompetenza funzionale, perché finisce per invadere indebitamente la giurisdizione civile- emettere pronuncia sulle richieste civilistiche dei soggetti danneggiati costituiti in parte civile. Non c'è dubbio, quindi, che il sistema ordinamentale prevede che la parte danneggiata, a fronte di assoluzione dell'imputato, non abbia altra via che quella di promuovere azione davanti alla giurisdizione civile, giudice generale dei diritti.
Il principio di diritto sopra espresso è stato anche di recente ribadito da questa Corte con una decisione che, pronunciata in un caso di assoluzione per la riconosciuta esimente della legittima difesa, ancorché putativa, trova coerente applicazione nella presente vicenda in quanto ribadisce l'affermazione - peraltro imposta da una formulazione normativa (art. 538 Cod. proc. pen.) che non ammette dubbi interpretativi - secondo cui: a) la condanna risarcitoria può essere legittimamente emessa dal giudice penale solo in caso di pronuncia di condanna penale; b) l'assoluzione per causa esimente (e qui per vizio totale di mente), pronunciata ex art. 530, comma 3, Cod. proc. pen., è vera e propria assoluzione (art. 530, primo comma, Cod. proc. pen.); c) a fronte di tale inequivocabile sbarramento normativo, neppure può porsi il principio generale di economia processuale, anche in funzione di un giusto e celere processo, per la cessazione, con il vigente codice di procedura penale, del pregresso sistema di unitarietà della funzione giurisdizionale e di generale prevalenza dell'accertamento in sede penale (su tutto ciò si veda Cass. Pen. Sez. 4, n. 33178 in data 28.06.2012, dep. 23.08.2012, Petrali, Rv. 253264 e l'ampia motivazione di Cass. Pen. S.U. n. 40049 in data 20.05.2008, Rv. 240814, P.C. in proc. Guerra, opportunamente citata dalla precedente).
4. Neppure può dirsi che l'applicazione all'imputato della misura di sicurezza personale dell'assegnazione ad un ospedale psichiatrico giudiziario possa essere qualificata "condanna" penale in senso proprio, tale da legittimare pronuncia, ex art. 538 Cod. proc. pen., in favore delle parti civili. Sul punto non può non essere rilevato che, nell'intero ordinamento penalistico, il termine "condanna" è sempre e solo ricollegato all'irrogazione di una pena, tale essendo solo una di quelle, principali od accessorie, indicate dal Titolo secondo del Libro primo del Cod. pen.. Del resto non a caso l'art. 530, comma 4, Cod. proc. pen. prevede che, in caso di assoluzione, anche se il reato è stato commesso da persona non imputabile (comma primo cit. art.), "il giudice applica le misure di sicurezza". Il verbo "applicare", del resto, con riguardo alle misure di sicurezza personali, è sempre usato dal Codice sostanziale nelle pertinenti disposizioni (art. 199 e segg. Cod. pen.), non rinvenendosi nel sistema che l'applicazione della misura di sicurezza sia espressamente dichiarata condanna in senso proprio. Non è questione solo terminologica, ma concettuale e sistematica. La misura di sicurezza personale, invero, pur se contiene in sé un ineludibile contenuto affittivo (ma lo hanno anche le sanzioni civili o amministrative), resta comunque "misura amministrativa" e non "pena" in senso tecnico. Varrà del resto ricordare come ove il Codice di rito prevede l'applicazione della pena, senza che ciò comporti vera e propria condanna (anche se equiparata), e cioè nel caso di cui all'art. 444 Cod. proc. pen., al giudice è precluso di decidere sulla domanda risarcitoria della parte civile. In coerenza, ex art. 445 Cod. proc. pen., proprio perché in caso di patteggiamento si applica una pena e non si condanna, non vi è condanna alle spese processuali (pur essendo l'Erario astrattamente creditore del soggetto giudicato, così come il danneggiato). Vi è dunque una coerenza del sistema sul punto. L'argomento risulta definitivo: se, in caso di applicazione di (vera e propria) pena su richiesta delle parti, non vi può essere condanna in favore della parte civile, tanto più in caso di assoluzione con applicazione di misura di sicurezza personale, che non è pena, non vi potrà essere pronuncia in favore delle parti civili.
L'applicazione di una misura di sicurezza personale, pertanto, non trasforma una sentenza di assoluzione in una pronuncia di condanna. Resta così confermato che anche in tal caso non vi può essere pronuncia in favore delle parti civili.
4. L'impugnata sentenza deve dunque essere annullata senza rinvio, per violazione di legge, limitatamente alle statuizioni civili pronunciate in entrambi i precedenti gradi del giudizio (condanna generica, provvisionali nonché spese ed onorari), statuizioni che vanno eliminate per l'incompetenza funzionale del giudice penale (per indebita invadenza della giurisdizione civile) a pronunciare condanna risarcitoria in caso di assoluzione dell'imputato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili.
13-11-2013 22:14
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