Il ricorso fai da te può avere insidie. Un cittadino fa ricorso avverso un accertamento di 459 euro e non dichiara il valore delal controversia, nè versa il contributo unificato. Multato per 2.582,28 Euro. La CPT di Bergamo ristabilisce giustizia.
COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE BERGAMO – SENTENZA 20 MARZO 2013, N. 81/1/13
Motivi della decisione
Con ricorso datato 25.11.2011 (RGR n. 1906/2011) [X], agendo personalmente senza l'assistenza tecnica di difensore – non necessaria ex art. 12 comma 5 D.Lvo n. 546/92 in quanto il valore della controversia era inferiore ad euro 2.582,28 – impugnava dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale l'avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dal comune di Bergamo per l'importo di euro 459,00 richiesto a titolo di I.C.I. oltre ad interessi e sanzioni. L'ufficio di segreteria della adita Commissione Tributaria, effettuato il controllo previsto dall'art. 15 D.P.R. n. 115/2002 in ordine alla dichiarazione di valore ed al pagamento del contributo unificato constatava che la ricorrente aveva omesso:
1) di indicare nel ricorso il valore della lite come richiesto dall'art. 14 comma 3 bis D.P.R. n. 115/2002;
2) di versare il contributo unificato dovuto nella misura di euro 30,00 in ragione del suddetto valore della controversia come richiesto dall'art. 13 comma 6 quater lett. a) D.P.R. n. 115/2002.
3) di indicare il codice fiscale come richiesto dall'art. 13 comma 3 bis D.P.R. n. 115/2002;
Conseguentemente l'ufficio dava inizio alla procedura di riscossione ex art. 248 del citato D.P.R. notificando alla ricorrente l'invito al pagamento emesso in data 12.09.2012 dell'importo dovuto, sino a quel momento, di euro 2.250,00 così determinato e corredato da motivazione esplicativa:
- euro 1.500,00 a titolo di contributo unificato nella misura determinata dall'art. 13 comma 6 quater lett. f) (per controversie di valore superiore ad euro 200.000,00) come stabilito dall'art. 13 comma 6 (“il processo si presume del valore indicato al..”), per effetto dell'omissione di cui al punto 1);
- euro 1.500,00 quale aumento della metà per la omissione di cui al punto 3). Con l'invito di pagamento l'ufficio indicava il termine e le modalità di pagamento (entro giorni 30), informando altresì la destinataria che, in mancanza, avrebbe proceduto alla iscrizione a ruolo; e che in caso di pagamento successivo al 30° giorno, avrebbe applicato, con separato provvedimento, sanzioni gradatamente aumentate, a seconda della gravità del ritardo, in misura del 33%, del 150% ed infine del 200%.
Con ricorso depositato il 16.10.2012 [X] impugnava l'invito di pagamento sostenendo che il ricorso (RGR n. …) avverso l'avviso di accertamento del comune di Bergamo – spedito alla C.T.P. per posta – conteneva un allegato nel quale erano annotati il valore della lite ed il codice fiscale; prospettava quindi l'eventualità che l'allegato fosse stato smarrito dopo l'apertura del plico da lei inviato; chiedeva di essere scusata per non avere rispettato le norme di legge, lamentando tuttavia che il suo ricorso non fosse stato ritenuto subito inammissibile per effetto delle sue omissioni. Elencava quindi in calce i documenti prodotti con il presente ricorso. La ricorrente proponeva altresì istanza di sospensione della esecuzione. Costituitosi in giudizio con comparsa 15.11.2012, il direttore della segreteria della Commissione Tributaria Provinciale eccepiva in via preliminare la inammissibilità del ricorso in quanto l'invito di pagamento notificato alla ricorrente non rientrava fra gli atti impugnabili autonomamente a norma dell'art. 19 del D.L.vo n. 546/92. Nel merito sosteneva che l'ufficio aveva correttamente operato alla luce della normativa vigente della quale trascriveva i termini essenziali, già riportati per altro nella motivazione dell'invito di pagamento; sottolineava che le violazioni contestate erano state effettivamente commesse come risultava palesemente dal testo del ricorso RGR n. 1906/2011; che l'atto depositato da Z.A. in data 2.10.2012 ad integrazione di tale ricorso, contenente i dati e gli elementi prescritti dalla normativa, doveva ritenersi inidoneo a sanare le violazioni commesse in quanto “nei processi tributari il valore della lite determinato ai sensi del comma 5 dell'art. 12 del decreto legislativo 31.12.1992 n. 546 e successive modificazioni, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito”. L'ufficio concludeva con richiesta di reiezione del ricorso per i motivi esposti nella comparsa nonché della istanza di sospensione della esenzione in mancanza dei requisiti.
Con ordinanza 21.12.2012 la Commissione disponeva la sospensione della esecuzione.
Nella odierna udienza la Commissione, riunita in Camera di consiglio osserva: In ordine alla eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso, va rilevato che (Cass. Sez. Un. n. 16293/2007) «ai fini dell'accesso alla giurisdizione tributaria debbono essere qualificati come avvisi di accertamento o di liquidazione di un tributo tutti quegli atti con cui la Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorché tale comunicazione si concluda non con una formale intimazione al pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell'attività esecutiva, bensì con un invito “bonario” a versare quanto dovuto. Cioè appare essenziale, perché si possa parlare di avviso di accertamento o di liquidazione, che il testo manifesti una pretesa tributaria compiuta e non condizionata, ancorché accompagnata dalla sollecitazione a pagare spontaneamente per evitare spese ulteriori (o anche essere ammesso a qualche benefìcio); ciò a differenza di quanto può dirsi a proposito delle comunicazioni previste dall'art. 36 bis comma 3 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dall'art. 54 bis comma 3 D.P.R. n. 633 del 1972, aventi ad oggetto comunicazioni che costituiscono infatti anche un “invito” a fornire “eventuali dati o elementi non considerati o valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi” che manifestano quindi una volontà impositiva ancora in itinere e non formalizzata in un atto cancellabile solo in via di autotutela (o attraverso l'intervento del giudice). Nell'ambito di questa impostazione di diritto, che l'ente impostore non può modificare a suo piacimento dichiarando “non impugnabili” atti che impugnabili sono, spetta al giudice di merito sceverare con congrua motivazione gli atti impositivi dagli atti che impositivi non sono, esaminando gli aspetti sostanziali dell'atto, che possono non trovare compiuta corrispondenza nei suoi aspetti formali».
Per quanto attiene alla presente controversia, appare sufficiente rilevare che l'invito al pagamento impugnato contiene le modalità di calcolo dell'imposta e la calendarizzazione dei pagamenti e, quindi, costituisce una vera e propria liquidazione dell'imposta dovuta che incide sulla posizione patrimoniale del contribuente. L'invito contiene quindi adeguati fattori da cui è ragionevole dedurre che ci si trovi di fronte alla comunicazione di una pretesa impositiva, e non ad una richiesta di chiarimenti. Esso è, pertanto, atto equipollente a quelli elencati nell'art. 19 D.L.vo n. 546/92 e, come tale, è suscettibile di autonoma impugnazione.
Alla luce di tali principi l'eccezione preliminare va disattesa.
Non può sfuggire alla attenzione della Commissione il fatto che il ricorso della signora [X] non contiene la formulazione della domanda conclusiva (il cd petitum) che è uno dei requisiti essenziali, previsti a pena di inammissibilità dall'art. 18 comma 2 lett. d) del D.L.vo n. 546/92. Tuttavia il tenore delle doglianze della ricorrente ed insieme la considerazione che essa è abilitata dalla legge ad agire in giudizio senza l'assistenza di un difensore – e quindi con una scontata presunzione di scarsa conoscenza delle norme processuali – consentono di superare l'omissione del dato formale e di ritenere che essa abbia, sia pure implicitamente, inteso ottenere il risultato dell'annullamento dell'invito al pagamento oggetto di impugnazione.
Passando al merito della controversia, va anzitutto premesso che l'art. 14 comma 3-bis del D.P.R. n. 115/2002 dispone: “nei processi tributari, il valore della lite determinato ai sensi deve risultare da apposita dichiarazione resa nelle conclusioni del ricorso…” e che l'art. 13 comma 6 del medesimo DPR dispone: “Se manca la dichiarazione di cui al comma 3-bis dell'art. 14, il processo su presume del valore indicato al comma 6-quater lett. f)” secondo cui è dovuto un contributo unificato di “euro 1.500 per controversie di valore superiore a euro 200.000″. Tale combinato disposto impone inequivocabilmente all'ufficio, una volta che abbia rilevato la omissione della dichiarazione di valore nelle conclusioni del ricorso, di emettere ex art. 248 del DPR n. 115/2002 l'invito al pagamento di un contributo pari ad euro 1.500,00 se – come nella fattispecie – è stato del tutto omesso il versamento del contributo.
L'applicazione incondizionata di tale normativa, ove essa non fosse accompagnata da un correttivo previsto dalla legge, determinerebbe tuttavia un giudizio di manifesta irragionevolezza della legge stessa ed imporrebbe al giudice l'obbligo di sollevare eccezione di illegittimità costituzionale. Ed infatti, appare evidentemente irragionevole una disposizione legislativa in materia di contributo unificato per effetto della quale si imponga la regola che quanto minore è valore effettivo di una lite tanto maggiore deve essere il pregiudizio patrimoniale posto a carico del contribuente; pregiudizio che va individuato nella differenza tra il contributo unificato dovuto in ragione del valore effettivo della lite ed il contributo previsto dall'art. 13 infatti: per esemplificare, a valore minimo della lite – fino ad euro 2.582,28 – corrisponde la pretesa di un contributo di euro 1.500, superiore quindi di 50 volte a quello che sarebbe dovuto – euro 30 – secondo il primo scaglione; ad uno dei valori intermedi della lite – fino ad euro 75.000 -corrisponde la pretesa del medesimo contributo di euro 1.500, superiore quindi di 6 volte a quello che sarebbe dovuto di euro 250; a valore massimo della lite, superiore ad euro 200.000, non corrisponde invece alcuna differenza di contributo rispetto a quello che è comunque dovuto, di euro 1.500, secondo lo scaglione massimo.
Non è richiesto a questo collegio di pronunziarsi sulla sussistenza o meno di soluzioni pratiche di natura amministrativa idonee a consentire alla parte ricorrente di sanare la omissione della dichiarazione relativa al valore della lite con un atto successivo al deposito del ricorso, tanto più che nella fattispecie l'atto depositato in data 2.10.2012 ad integrazione del ricorso RGR n. 1906/11 non contiene la dichiarazione, pur tardiva, del valore della lite. Il collegio deve soltanto decidere in questa sede giurisdizionale se sussista o meno la possibilità di individuare una interpretazione alternativa del combinato disposto che non confligga con il principio costituzionale di ragionevolezza delle norme di legge. Questo giudice ritiene che sussista una interpretazione siffatta per effetto della quale il combinato disposto viene ad acquisire il necessario connotato di ragionevolezza. Tale correttivo non purché essere rinvenuto nella significativa espressione usata dal legislatore laddove ha stabilito che se manca la dichiarazione di cui al comma 3-bis dell'art. 14, il processo “si presume” del valore indicato al comma 6-quater lett. f)”.
Ed infatti deve ritenersi che, così statuendo, il legislatore abbia inteso introdurre a favore del ricorrente la possibilità superare quella che va qualificata come una vera e propria presunzione iuris tantum superamento che può avvenire mediante prova contraria il cui onere grava sul contribuente.
Tale onere può essere assolto, in assenza di preclusioni di legge, nella sede giurisdizionale della impugnazione dell'invito al pagamento.
Nel caso in esame risulta dal testo dell'avviso di accertamento (I.C.I.) prodotto dalla ricorrente – impugnato con il ricorso n. 1906/2011 RGR – che il valore effettivo della controversia insorta tra [Z] ed il comune di Bergamo è di euro 342,00, importo richiesto a titolo di imposta per l'anno 2009, oltre ad interessi e sanzioni (per un totale di euro 459,00).
Deve pertanto ritenersi che la ricorrente abbia superato, sulla base di prova certa documentale, la presunzione di legge dimostrando che il valore effettivo della controversia è inferiore ad euro 2.582,28 e che pertanto essa è tenuta a versare un contributo unificato di euro 30,00 corrispondente allo scaglione di cui all'art. 13 comma 6-quater lett. a) del DPR n. 115/2002.
Tale importo va tuttavia aumentato della metà, sino ad euro 45,00, a norma dell'art. 13 comma 3-bis stesso DPR dal momento che la ricorrente non ha indicato nel ricorso neppure il proprio codice fiscale.
Ne consegue che il ricorso va parzialmente accolto riducendosi al minore importo di euro 45,00 la somma di euro 2.250 richiesta ai punti 1) e 2) dell'invito al pagamento.
La novità della questione, relativa oltretutto alla non agevole interpretazione di norme dalla formulazione dubbia, induce alla compensazione totale delle spese di giudizio.
PQM
A parziale accoglimento del ricorso riduce la misura complessiva del contributo dovuto dalla ricorrente al minore importo di euro 45,00 come sopra determinato. Compensa le spese di giudizio.
27-04-2013 15:45
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