Detiene cinture con marchio contraffatto: si alla speciale tenuità.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 marzo – 19 giugno 2013, n. 26807
Presidente Zecca – Relatore Settembre
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Tarante, con sentenza del 9-1-2012, a conferma di quella emessa dal Tribunale di Taranto, ha condannato N.S. a pena di giustizia per il reato di cui all'art. 474 cod. pen. per aver detenuto accessori di abbigliamento con marchio contraffatto.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto personalmente ricorso per Cassazione l'imputato lamentando violazione di legge e vizio di motivazione. Deduce che difetta la prova della provenienza illecita della merce e che la grossolanità della contraffazione rendeva la stessa inidonea a ledere la pubblica fede, non essendo compreso, nell'oggetto della tutela, l'interesse del titolare del marchio. Deduce, in ogni caso, la riconducibilità del fatto alla più live ipotesi dell'art. 517 cod. pen., in quanto un marchio grossolano non è altro che la riproposizione di un determinato disegno, di cui vengono imitate "le fattezze". Lamenta l'eccessività della pena e la mancata concessione dell'attenuante dell'art. 62, n. 4, cod. penale.
Considerato in diritto
Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito esposti.
1. Si deve in proposito rilevare come la giurisprudenza di questa sezione abbia già chiarito che l'ipotesi di reato prevista dall'art. 474 c.p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) è volta a tutelare, in via principale e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei consociati nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione; trattasi quindi di reato di pericolo, per la cui configurazione non è necessaria l'avvenuta realizzazione dell'inganno in occasione del singolo acquisto (Sez. 5, 2/12/2009, n. 49565; sez. 2, 11.10.2000, Ndong, rv 217506; sez. 2, 2.10.2001, Fall, rv 220236).
Questa Corte ha anche precisato che il reato previsto dall'art. 474 c.p., è configurabile qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno i terzi, ingenerando confusione tra contrassegno e prodotti originali e quelli non autentici e quindi errore circa l'origine e la provenienza del prodotto. La contraffazione grossolana non punibile è soltanto quella che è riconoscibile "ictu oculi", senza necessità di particolari indagini, e che si concreta in un'imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno (Cassazione penale, sez. 2, 03/06/2010, n. 25073; Cass. Pen., sez. 2, 15/11/2005, n. 518; Cass. Pen, sez. 5, 26/1/2000, n. 3336).
Nel caso di specie la grossolanità di questo tipo è stata ricollegata, dal ricorrente, in maniera impropria, a fattori (quali le modalità e le condizioni della vendita, scarsa fattura della merce) scarsamente significativi ai fini che interessano, giacché non tiene conto che il prodotto con marchio contraffatto è destinato alla circolazione e quindi alla visione da parte di un numero indeterminato e indeterminabile di soggetti, rispetto ai quali (la contraffazione del marchio) conserva tutta la sua potenzialità offensiva. Invece, la grossolanità del falso, per escludere il reato, richiede l'esistenza di ulteriori elementi concreti e specifici, relativi al marchio in sé e al prodotto che questo identifica (sintomatici di un tale grado di imperfezione e incompletezza da escludere, erga omnes, una imitazione ingannevole), che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare davanti al giudice del merito.
2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, giacché il delitto di cui all'art. 517 cod. pen. ha carattere sussidiario e ricorre solo allorché non siano ravvisabili gli estremi della contraffazione. Il reato di cui all'art. 517 cit. tende, infatti, alla tutela dell'ordine economico (e non della pubblica fede) ed è integrato dalla semplice imitazione del nome o del marchio o del segno distintivo, purché idonea a trarre in inganno; inoltre, non richiede l'estremo della registrazione e del riconoscimento internazionale delle cose protette (ex multis, Cassazione penale, sez. 2, 27/10/2000, n. 11071).
Nel caso di specie si verte chiaramente, invece, in tema di contraffazione di un marchio registrato.
3. È invece fondato il motivo di ricorso concernente l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., che la Corte d'appello ha escluso in considerazione dell'oggetto della tutela (la pubblica fede) e della tendenziale potenzialità offensiva della diffusione di prodotti con marchi contraffatti.
Occorre tener conto, per valutare l'applicabilità dell'attenuante in parola ai reati che offendono la fede pubblica, del fatto che la legge 7 febbraio 1990, n. 19, ha esteso l'applicabilità dell'attenuante della speciale tenuità a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene tutelato, e quindi a tutti i delitti in cui la spinta criminogena è data da un vantaggio economico, anche solo sperato, purché la speciale tenuità riguardi sia l'entità del lucro (conseguendo o conseguito dall'agente) che l'entità della lesione (l'evento dannoso o pericoloso subito dalla vittima). Si confrontino, al riguardo, Sez. 5, n. 14713, 7 giugno 1990, Palmieri, e Cass. Pen., sez. 5, 19/10/2005, n. 43342, in fattispecie di falso nummario; Cass. Pen., Sez. 3, n. 1206 del 3 luglio 1992, Vivarelli, in materia di danni ambientali che abbiano cagionato danni economicamente valutabili; Sez. 1, n. 36299 del 12 settembre 2001, Giambo, in materia di abusiva duplicazione, riproduzione, vendita, cessione o noleggio di opere destinate al circuito cinematografico o televisivo, dischi, musicassette, videocassette e simili.
A questa conclusione deve pervenirsi perché, come è stato chiaramente esposto nella sentenza dianzi citata (Cass. 43342/2005) l'espressione "evento dannoso o pericoloso", deve ritenersi riferita alla nozione di evento in senso giuridico. Pertanto, essa è idonea a comprendere qualsiasi offesa penalmente rilevante purché sia, e in astratto (in relazione alla natura del bene giuridico oggetto di tutela) e in concreto (come contestata), di tale particolare modestia da risultare "proporzionata" alla tenuità del vantaggio patrimoniale che l'autore del fatto si proponeva di conseguire o ha in effetti conseguito. Sicché l'attenuante risulta inapplicabile soltanto ai delitti che producono un danno o una situazione di pericolo di una qualche gravità e consistenza, nonché, ovviamente, a quelli la cui previsione è posta a tutela di beni fondamentali o diritti inviolabili (quelli che la dottrina più genericamente definisce "contrassegnati da maggiore disvalore sociale").
Ora, se non presenta particolare difficoltà l'accertamento del vantaggio derivante all'autore dalla commissione del reato, dovendo valutarsi l'incremento (reale o presunto) del suo patrimonio per effetto del reato consumato o tentato, può essere più laborioso, nei reati che non offendono (esclusivamente) il patrimonio, accertare l'entità della lesione all'interesse protetto, ma non per questo l'attenuante dell'art. 62, n. 4., diviene inapplicabile ai reati di tal genere, dovendo comunque esigersi, da parte del giudice, una indagine in concreto, che dia consistenza, per grado e qualità, alla lesione del bene tutelato dalla norma penale.
Tale esigenza sembra intuita dal giudice a quo, laddove, per escludere l'operatività dell'attenuante, fa riferimento "non solo al numero delle cinture sequestrate e ad valore delle stesse", ma "anche al pericolo per la fede pubblica". Tuttavia, non è seguita, in concreto, una indagine volta a verificare (oltre al vantaggio, certamente modestissimo, per il venditore) la misura dell'offesa recata all'affidabilità del segno distintivo del prodotto e, di conseguenza, all'impresa titolare dello stesso: offesa che, stante la natura di bene di consumo delle cinture sequestrate e la loro idoneità a soddisfare, normalmente, un solo acquirente, solo in situazioni particolari, di cui va dato atto in concreto, può assumere dimensioni tali da discostarsi in maniera significativa dalla misura del lucro sperato o conseguito dall'agente.
La sentenza impugnata va pertanto annullata limitatamente al punto relativo alla ritenuta inapplicabilità dell'art. 62, primo comma, n. 4, c.p., con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Lecce per nuovo esame.
P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza in ordine al trattamento sanzionatorio con rinvio alla Corte di Appello di Lecce per nuovo esame sul punto.
21-06-2013 15:54
Richiedi una Consulenza