Costringe la sua ex convivente ad arrestare la marcia dell'autoveicolo, dopo averla inseguita e bloccata con l'auto. E' violenza privata.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 20 marzo – 13 giugno 2013, n. 25889
Presidente Teresi – Relatore Fiale
Ritenuto in fatto
La Corte di appello di Trento, con sentenza del 7.12.2011, in parziale riforma della sentenza 8.6.2010 del Tribunale di Rovereto, ha ribadito l'affermazione della responsabilità penale di A.Z. in ordine:
- al reato di cui all'art. 544-bis cod. pen. (per avere, con crudeltà e senza necessità, con un colpo volontariamente inferto allo sterno, ammazzato un cagnolino di razza meticcia appartenente alla sua ex convivente S..P. - in (…), in un sabato della (omissis) );
- nonché al reato di cui all'art. 610 cod. pen., (qualificato come violenza privata consumata e non continuata, per avere inseguito e bloccato S..P. mentre transitava, in (omissis) , a bordo della sua autovettura) ed ha confermato la condanna alla pena inflitta dal primo giudice - con i doppi benefici - nella misura di complessivi mesi sei di reclusione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso lo A. , il quale ha eccepito:
- l'erronea ed immotivata qualificazione della condotta di uccisione del cane quale fattispecie sanzionata dall'art. 544 bis cod. pen., laddove il fatto avrebbe dovuto essere ricondotto alla previsione dell'art. 638 cod. pen., con conseguente declaratoria di improcedibilità per la intervenuta rimessione della querela;
- la inconfigurabilità del reato di cui all'art. 610 cod. pen., sia per carenza del dolo sia a fronte di una condotta riconduclbile piuttosto alla contestata fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen., dichiarata estinta già dal primo giudice in seguito all'intervenuta rimessione della querela;
- vizio della motivazione quanto al denegato riconoscimento di circostanze attenuanti generiche ed alla mancata sostituzione della pena detentiva inflitta con la corrispondente pena pecuniaria rateizzata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve essere rigettato.
2. La prima doglianza - relativa alla qualificazione giuridica della condotta di uccisione del cagnolino - è inammissibile, poiché la censura non era stata dedotta con i motivi di appello. Nessun onere di motivazione incombeva, pertanto, sul punto, alla Corte territoriale.
Questa Corte - comunque - ha già avuto modo di evidenziare che il delitto di uccisione di animali di cui all'art. 544-bis cod. pen. (introdotto dall'art. 3 della legge 20.7.2004, n. 189) si differenzia dalla fattispecie di cui all'art. 638 cod. pen. per la diversità del bene oggetto di tutela penale (proprietà privata nell'art. 638 e sentimento per gli animali nella nuova fattispecie) e conseguentemente dell'elemento soggettivo [così Cass., Sez. II, 26.3.2010, n. 24734. Vedi pure Sez. III, n. 44822/2007].
Il Collegio osserva altresì che la sfera di operatività dell'art. 638 cod. pen. - in seguito alle modifiche ad esso introdotte dalla legge n. 189/2004 e l'apposizione della clausola di riserva indeterminata "salvo che il fatto costituisca più grave reato" - appare ormai essere quasi interamente assorbita dai nuovi delitti di uccisione e maltrattamento di animali.
Quanto alla ravvisata configurazione del reato di cui all'art. 544-bis cod. pen., i giudici del merito, nella vicenda in esame, hanno congruamente accertato la volontarietà del fatto di crudeltà verso l'animale - non considerato dall'agente nella sua utilità economica - del quale, senza necessità, l'imputato ha cagionato la morte con un colpo dato intenzionalmente e con grande forza al solo scopo di infierire sullo stesso per una sorta di traslazione dell'astio nutrito verso la padrona. Razionalmente deve dedursi, dunque, che il fatto illecito non è stato perpetrato al fine di compromettere un bene patrimoniale della donna, mentre esula dai poteri di questa Corte di legittimità quello di una "rilettura" degli elementi probatori e di una nuova valutazione delle risultanze processuali.
3. La fattispecie criminosa di atti persecutori (stalking), di cui all'art. 612 bis cod. pen. tutela il singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure. Essa è finalizzata a garantire alla personalità individuale l'isolamento da influenze perturbatrici.
Ipotesi speciale rispetto a tale reato è il delitto di violenza privata, per la cui configurazione non è sufficiente che sia stato indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità, fungendo invece da elemento specializzante lo scopo di costringere altri - contro la sua volontà - a fare, tollerare od omettere qualcosa, impedendone la libera determinazione con una condotta immediatamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di determinazione e azione) del soggetto passivo.
Nel delitto di cui all'art. 610 cod. pen. il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di costringere il destinatario della violenza a tenere, contro la sua volontà, la condotta pretesa dall'agente.
La sussistenza degli elementi fattuali e dell'elemento soggettivo della violenza privata appare correttamente individuata dalla Corte di merito a fronte di un accertato comportamento rivolto ad interferire nella condotta di guida della signora P. , costretta con manovre intimidatorie a fermarsi (ed a rifugiarsi nel portone dell'abitazione di una sua amica) piuttosto che proseguire secondo le originarie intenzioni.
4. Le attenuanti generiche, nel nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità di delinquere dell'imputato. Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Anche il giudice di appello - pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante - non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur In carenza di stretta contestazione.
Nella fattispecie in esame, la Corte di merito, nel corretto esercizio del potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge - in carenza di congrui elementi di segno positivo - ha dato rilevanza decisiva alla gravità dei fatti, deducendo logicamente prevalenti significazioni negative della personalità dell'imputato dai suoi non lievi precedenti penali (droga ed armi).
5. L'art. 53 della legge 24.11.1981, n. 689 - come modificato dall'art. 4 della legge 12.6.2003, n. 134 - consente al giudice di sostituire la pena detentiva, determinata entro il limite di sei mesi, con la pena pecuniaria della specie corrispondente.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, però, ai fini della sostituzione della pena detentiva breve, il giudice ha il dovere di valutare un coacervo di elementi sia oggettivi che soggettivi, sicché deve apprezzare - esercitando i poteri discrezionali riconosciutigli dall'art. 58 della legge n. 689/1981 - l'esistenza dei motivi a delinquere, delle condizioni nelle quali si sono svolte le condotte, dei comportamenti tenuti dal reo, rivelatori della spiccata capacità a violare la legge penale.
Nella specie la Corte territoriale - apprezzando le precedenti condanne e la pervicacia dimostrata nell'attuazione dei comportamenti illeciti - ha legittimamente ritenuto che la concessione della misura sostitutiva non sia idonea a favorire il reinserimento sociale del condannato e che la stessa non presenti serie possibilità di richiamarlo ai propri doveri ed indurlo, per il futuro, a più corretta condotta.
6. Al rigetto del ricorso segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
14-06-2013 18:55
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