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Sentenza

Commercio internazionale. Non sempre il dollaro è la valuta.
Commercio internazionale. Non sempre il dollaro è la valuta.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 21 maggio - 5 luglio 2013, n. 16881
Presidente Felicetti – Relatore Bertuzzi

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 2000 R.N.A.J. , a mezzo del procuratore speciale M.A.K. , convenne dinanzi al tribunale di Milano la s.r.l. Expertim ed il suo amministratore unico in proprio sig.ra G.E.M. , chiedendone la condanna in solido al pagamento della somma di lire 1.010.551.000, oltre accessori, a titolo di saldo della fornitura di tappeti, effettuata in 16 blocchi, per un valore complessivo di oltre due miliardi di lire.
Le parti convenute si costituirono in giudizio eccependo il difetto di legittimazione passiva dell'amministratore unico e l'infondatezza nel merito della domanda.
Istruita la causa in via solo documentale, con sentenza del 2004 il Tribunale rigettò le domande avanzate dall'attore.
Interposto gravame da parte di quest'ultimo, con sentenza n. 986 del 4 aprile 2007 la Corte di appello di Milano riformò integralmente la decisione impugnata, condannando la società Expertim al pagamento della somma di Euro 467.384,77 a titolo di saldo prezzo della mercé acquistata e la G.E.M. in via solidale fino alla somma di lire 20.000.000, oltre interessi legali e spese di giudizio. Premessa la validità della procura rilasciata dall'attore R. al K. anche in relazione al giudizio di appello, la Corte territoriale affermò che il vero punto controverso della lite era rappresentato dal prezzo complessivo della mercé fornita; la produzione documentale effettuata dalle parti era infatti sostanzialmente concorde in ordine alla individuazione e quantità dei beni venduti, risultando le fatture prodotte dall'attore in copia coincidenti al riguardo con quanto descritto dai documenti prodotti dalla convenuta, relativi all'importazione della mercé ed al suo passaggio in dogana, mentre essi divergevano in relazione al prezzo pattuito, indicato negli uni in dollari statunitensi e negli altri in marchi tedeschi e, in parte, in lire, con una notevole differenza in relazione al risultato finale, dal momento che l'importo totale del prezzo risultava determinato, in base alle fatture prodotte dall'attore, in lire 2.130.972.000, mentre, sulla base dei documenti della società convenuta, esso era pari a lire 713.398.000. Ciò stabilito, il giudicante, precisato che essendo stata l'importazione dei beni curata da un rappresentante della Expertim e non dal venditore, dalla documentazione relativa non poteva discendere alcun vincolo a carico di quest'ultimo, ritenne provata l'indicazione del prezzo fornita dall'attore, sulla base delle seguenti considerazioni: per essere risaputo e costituendo nozione di fatto di comune esperienza che nelle operazioni di commercio internazionale, soprattutto prima dell'introduzione dell'Euro, era consueto fissare i prezzi utilizzando come moneta di riferimento il dollaro USA, anche considerato che il riferimento al marco tedesco non trovava nel caso di specie alcuna giustificazione in relazione alla nazionalità delle parti; che, per contro, non erano attendibili i documenti prodotti dalla società Expertim riferiti al transito doganale della mercé, essendo state tali operazioni curate da un rappresentante della stessa, la quale, quale soggetto passivo dell'obbligazione tributaria, aveva più interesse ad una sottofatturazione del prezzo, in quanto comportante un minor carico fiscale; che ulteriori argomenti di prova in tale senso andavano tratti dal comportamento processuale della società convenuta, che nella comparsa di risposta si era limitata a negare il rapporto contrattuale per poi ammetterlo in sede di deduzione delle prove, mediante la produzione delle fatture e degli altri documenti in atti, eccependo solo in questo momento di avere pagato il prezzo concordato, nonché dalla circostanza che, tenuto conto dei versamenti in contanti indicati dall'attore, ammessi dalla convenuta, nonché dai bonifici bancari effettuati dalla stessa, risultava che la predetta società aveva corrisposto alla controparte la somma complessiva di lire 1.120.421.000, di gran lunga superiore al prezzo di lire 713.398.000 che appariva dai documenti da essa prodotti. Con riferimento alla posizione assunta dall'amministratrice unica sig.ra G.E.M. , il giudice di secondo grado rilevò invece che tale parte doveva essere rispondere in via personale e solidale solo per l'importo di lire 20.000.000, corrispondente all'importo dell'assegno da lei rilasciato sul suo conto personale in favore dell'attore, qualificabile come promessa di pagamento, ai sensi dell'art. 1988 cod. civ..
Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 23 agosto 2007, ricorrono la s.r.l. Expertim e G.E.M. , affidandosi a sei motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso R.N.A.J. , a mezzo del procuratore speciale M.A.K. .

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 1392 cod. civ. e 83 cod. proc. civ. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte di appello abbia disatteso l'eccezione sollevata dagli appellati di inammissibilità dell'atto di appello per invalidità della procura alle liti. Tale conclusione, ad avviso dei ricorrenti, è errata, tenuto conto che l'attore stava in giudizio a mezzo del suo procuratore speciale e che questi non aveva il potere di delegare il difensore nominato alla proposizione dell'appello, tenuto conto che, ai sensi dell'art. 1392 cod. civ., la procura deve rivestire la stessa forma del negozio che il rappresentante è chiamato a concludere e che, a mente dell'art. 83, comma 4, cod. proc. civ., la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del giudizio. Nella specie la procura conferita dall'attore R. è carente di qualsiasi riferimento al potere di impugnare la sentenza di primo grado.
Inoltre il nominativo indicato nella procura come rappresentante è M.A.K. , mentre nell'atto di citazione risulta indicato M.A.K. .
Sotto altro profilo si deduce che la domanda avrebbe dovuto essere respinta per difetto di legittimazione attiva dell'attore R. , essendo pacifico dalla produzione documentale che il rapporto dedotto in giudizio era intercorso tra la Expertim e R.C.E.B. .
Il motivo è infondato.
Quanto alla prima censura, che deduce l'invalidità della procura rilasciata dal R. al proprio rappresentante per mancanza in essa di ogni indicazione il ordine al potere da parte di quest'ultimo di proporre appello, essa merita di essere respinta per l'evidente errore in cui cade il ricorso laddove sovrappone e confonde la procura alle liti, per cui vale l'invocata regola posta dall'art. 83, comma 4, cod. proc. civ., secondo cui la procura si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, con la procura sostanziale a gestire e disporre di un affare altrui, di cui agli artt. 1387 e seguenti cod. civ., per la quale l'estensione di tale regola non ha alcun senso.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha accertato che l'azione giudiziale era stata svolta validamente da M.A.K. in nome e per conto del R. , dal momento che egli risultava investito anche di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, rispettando il tal modo la condizione richiesta, sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale, dall'art. 77 cod. proc. civ. (Cass. n. 13898 del 2003; Cass. S.U. n. 4666 del 1998). In tale contesto, il richiamo all'art.83, comma 4, cod. proc. civ. è inconferente, non risultando contestato che la procura speciale al rappresentante negoziale conteneva limitazioni in ordine alla proposizione della domanda in giudizio, né dedotto che la procura alle liti da questi conferita avesse natura speciale e non generale.
Priva di pregio appare altresì la denunziata differenza grafica del nominativo del rappresentante, stante il rilievo non contestato che si legge nella sentenza circa l'equivalenza tra i nomi K. e K. , nonché l'assenza di qualsiasi contestazione nel giudizio di merito circa l'identità della persona che, quale rappresentante del R. , ha promosso il giudizio con quella cui era stato conferito il potere rappresentativo.
L'ultima censura, che denunzia il difetto di legittimazione attiva del R. in ordine alla proposizione della domanda in giudizio appare, infine, oltre che generica, non essendo sostenuta da alcun richiamo specifico agli atti del giudizio, anche inammissibile in quanto coperta dal c.d. giudicato interno, tenuto conto che la relativa questione, che era stata sollevata in primo grado, risulta implicitamente respinta dalla sentenza del Tribunale, che aveva pronunciato sul merito della domanda, e che la parte ricorrente non ha dedotto di avere riproposto la relativa eccezione dinanzi al giudice di appello. Il secondo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 116 cod. proc. civ., lamentando che la Corte distrettuale abbia accolto la domanda dell'attore con motivazione apodittica e senza ancorarla a convincenti elementi di prova. La scelta di dare prevalenza, nel contrasto tra i documenti prodotti dalle parti con riguardo al prezzo di vendita convenuto, alle fatture prodotte in copia dall'attore
R.G.N. 22615/07.
piuttosto che ai documenti della società convenuta è infatti argomentata sulla base di labili elementi di sospetto e non su fatto oggettivi. In particolare, il giudice di secondo grado, nell'individuare gli elementi di prova su cui fondare il proprio convincimento, non ha tenuto in considerazione che le fatture prodotte in copia dalla controparte non era state mai inviate e ricevute dalla Expertim, che esse non costituiscono prova dell'avvenuta esecuzione del contratto e presentano evidenti indizi contraffattivi; che esse non diversificano i prezzi sulla base del modello e della metratura dei tappeti, contrariamente ai documenti prodotti dalla convenuta; che a questi ultimi, a differenza dei primi, va riconosciuta una presunzione di autenticità sia in ragione della loro datazione certa, che per essere stati timbrati e convalidati dalla Dogana di Corno, procedimento che ha loro attribuito efficacia di piena prova, elementi che se fossero stati attentamente valutati avrebbero dimostrato la inattendibilità delle fatture prodotte dalla controparte.
Sotto altro profilo la decisione impugnata è criticata per avere desunto argomenti di prova dal comportamento processuale della convenuta, giudicato contraddittorio, per avere essa negato in comparsa di risposta il rapporto contrattuale con la controparte per poi successivamente ammetterlo. Sostengono per contro le ricorrenti che esse in primo grado si erano difese assumendo di non dovere alcunché alla controparte e che tale comportamento era l'unico coerente con i documenti in loro possesso, laddove le fatture contrarie vennero prodotte dall'attore soltanto nel corso del giudizio, a mente dell'art. 184 cod. proc. civ..
Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione dell'art. 184 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere fondato la propria conclusione sulle fatture prodotte della controparte, la cui produzione avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile in quanto avvenuta con la memoria di replica ex art. 184 cod. proc. civ. e quindi al di fuori dei termini concessi dal giudice di grado per la produzione di documenti e nuovi mezzi di prova.
Il quarto motivo di ricorso, denunziando illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione dell'arti 15 cod. proc. civ., investe l'affermazione della Corte di appello secondo cui era risaputo e rientrava tra le nozioni di comune esperienza il fatto che nelle operazioni di commercio internazionale, soprattutto prima dell'introduzione dell'Euro, era consueto fissare i prezzi utilizzando come moneta di riferimento il dollaro USA. Ad avviso delle ricorrenti si tratta di una conclusione soggettiva ed aprioristica, che viola la disposizione di cui all'art. 115 con riferimento ai fatti di comune esperienza, condizione che può ricorrere soltanto laddove il fatto sia certo e pacifico, non soltanto probabile. Il giudizio di inattendibilità dei documenti prodotti dalle convenute, in quanto riportanti i prezzi in marchi tedeschi, non appare inoltre adeguatamente motivato, non avendo il giudice a quo considerato che i pagamenti venivano indirizzati in una Banca di Zurigo, ove il R. aveva una propria sede, e che alcune fatture indicavano l'importo in lire italiane.
Il quinto motivo di ricorso denunzia illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione dell'art. 2727 e seguenti cod. civ., assumendo che la Corte di appello ha fondato il proprio convincimento su elementi di prova del tutto incerti ed erroneamente interpretati. In particolare, sbagliata appare l'affermazione secondo cui la società Expertim avrebbe versato alla controparte una somma superiore a quella indicata nei propri documenti, da cui il giudice a quo fa desumere l'inattendibilità degli stessi con riguardo ai prezzi ivi indicati.
Intanto perché parte di tali versamenti sarebbero stati effettuati in contanti e sul punto il giudicante ha ritenuto raggiunta la prova per avere di essi parlato l'attore e per non averli la convenuta contestati, senza invece considerare che sul punto la Expertim si era limitata a richiamare l'atto di citazione e che in comparsa di risposta in appello aveva anzi denunziato la strumentalità della ricostruzione dei pagamenti effettuata dall'appellante. In secondo luogo non è stato tenuto conto che tra le parti erano stati intrattenuti anche rapporti commerciali diversi, attinenti alla fornitura di altro tipo di merce.
Sotto altro profilo si censura l'affermazione della sentenza secondo cui la società acquirente aveva interesse a avrebbe sottovalutare i beni nelle operazioni doganali al fine di conseguire un vantaggio fiscale, sia pure illecito, assumendo che si tratta di asserzione priva di fondamento e non ancorata ad alcun elemento oggettivo, nonché errata anche dal punto di vista giuridico, atteso che l'importatore ha diritto alla detrazione dell'iva assolta in Dogana. Per contro è evidente che l'interesse ad indicare in fattura un prezzo superiore a quello pattuito è di chi vende.
Questi motivi, che per la loro connessione obiettiva possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati nei limiti che si preciseranno, ad eccezione del terzo, che invece va respinto.
In particolare, il terzo motivo, che deduce l'inammissibilità dei documenti prodotti dall'attore per violazione dell'art. 184 cod. proc. civ., merita di essere respinto dal momento che esso pone una questione da ritenersi ormai preclusa, non risultando che essa sia stata proposta dagli odierni ricorrenti in grado di appello, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ. Il mezzo è inoltre, per come formulato, del tutto generico, non illustrando il ricorso in modo compiuto la scansione processuale e l'esatto momento in cui le parti hanno formulato le loro rispettive deduzioni istruttorie, indicandone il contenuto anche al fine di dimostrare che quelle che si assume dedotte tardivamente dalla controparte integravano una prova diretta e non una prova contraria, come tale deducibile esclusivamente con la memoria istruttoria e non con la replica.
Con riferimento agli altri motivi di ricorso, invece, si osserva che la Corte di appello, una volta precisato che il punto controverso della lite verteva non già sull'esecuzione delle forniture di beni, bensì sull'ammontare del prezzo, che, in base ai documenti prodotti delle parti, presentava evidenti differenze nel suo importo complessivo, indicato negli uni in dollari statunitensi e negli altri in marchi tedeschi e, in parte, in lire italiane, ha ritenuto di accogliere la indicazione fatta dall'attore venditore sulla base dei seguenti argomenti: per la contraddittorietà della condotta processuale dei convenuti, che prima avevano negato le operazioni di vendita per poi, solo nel corso del giudizio, riconoscerne l'esistenza sia pure ad un prezzo inferiore, reputando da essa di poter trarre argomento di prova, ai sensi dell'art. 116, comma 2, cod. proc. civ., in favore della tesi dell'attore; perché l'uso del dollaro statunitense indicato nelle predette fatture appariva conforme alla nozione di comune esperienza che tale moneta, prima dell'introduzione dell'Euro, era utilizzata nelle transazioni internazionali, laddove il riferimento al marco tedesco non trovava giustificazione alcuna in relazione alla nazionalità delle parti; che l'indicazione di un prezzo inferiore a quello reale che emergeva dai documenti di importazione della mercé poteva trovare spiegazione nell'interesse della acquirente, che aveva provveduto alle operazioni doganali, ad indicare un prezzo minore per pagare meno diritti doganali; che tenuto conto dei pagamenti effettuati in contanti, secondo le indicazioni dell'atto di citazione non contestati dalla convenuta, e a mezzo di bonifici bancali, risultava che quest'ultima aveva già versato al venditore una somma notevolmente superiore al prezzo di vendita da essa stessa indicato, circostanza che faceva ragionevolmente presumere che invece il prezzo pattuito fosse maggiore.
Tanto precisato, ritiene la Corte che la motivazione fornita dal giudice distrettuale, sopra sinteticamente riassunta, non sia sufficientemente adeguata a sostenere la soluzione accolta, risultando affetta da una insufficiente ponderazione di fatti e delle circostanze ivi indicate nonché da evidenti errori di diritto.
In particolare, l'assunto che trae argomenti di prova dal comportamento processuale della società convenuta, con riferimento nella specie a quanto da essa dedotto nella propria comparsa di risposta, non risulta persuasivo mancando nel relativo giudizio qualsiasi riferimento a quanto dedotto dallo stesso attore nell'atto di citazione, nonché alla circostanza che questi aveva prodotto le fatture da cui risultava l'importo preteso soltanto nel corso del giudizio. Appare evidente, infatti, che la valutazione della condotta processuale della parte, laddove le si imputi una generica ed ingiustificata negazione della pretesa fatta valere contro di essa in giudizio, non può prescindere dal riscontro ed esame dei necessari elementi di concretezza della domanda, anche con riferimento, nel caso di diritti di credito, ai documenti che ne attestano l'esistenza ed il loro esatto ammontare. La motivazione sul punto appare per tale ragione insufficiente, in quanto la Corte, pur nella formazione del suo libero convincimento, avrebbe dovuto valutare la condotta processuale del convenuto senza isolarla dal contesto della pretesa come postulata nell'atto di citazione, ma in relazione al grado di concretezza e specificità con il quale essa era stata formulata, potendo soltanto al termine di tale raffronto trarre da tale condotta argomenti di prova.
La motivazione della sentenza impugnata appare altresì non convincente laddove qualifica come fatto di comune esperienza la circostanza che, prima dell'Euro, le transazioni tra soggetti appartenenti a Paesi diversi usassero come moneta di riferimento il dollaro statunitense. Ferma la considerazione che l'indicazione del tipo di moneta utilizzato nei contrapposti documenti prodotti dalle parti rappresenta una circostanza che, sulla base di una adeguata motivazione, avrebbe potuto, in ipotesi, essere valutata in termini presuntivi circa la maggiore attendibilità degli uni o degli altri, l'affermazione della Corte milanese, per come formulata, non appare accettabile, dovendosi al riguardo ribadire l'insegnamento secondo cui il c.d. fatto notorio, che dispensa le parti dal fornire la prova, deve essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione soltanto probabile (Cass. n. 2808 del 2013). In questa prospettiva l'uso della divisa statunitense nei rapporti commerciali internazionali non sembra assumere quel grado di certezza da poter essere considerato fatto di comune esperienza, tale da escludere il ricorso a pratiche diverse.
Incerto appare inoltre l'argomento della decisione che ravvisa un elemento di prova presuntivo nel fatto che la società acquirente avrebbe corrisposto al venditore R. importi che, tenuto conto dei versamenti in contanti indicati in atto di citazione e non contestati dalla convenuta e di altri mezzi di pagamento, superavano in misura considerevole il prezzo di vendita indicato dalla stessa convenuta. La stessa sentenza infatti riconosce che quest'ultima aveva ammesso di avere acquistato una quantità di tappeti maggiore di quella per il cui pagamento l'attore aveva agito in giudizio, circostanza non contestata e che fa presumere che tra le parti erano intercorsi rapporti negoziali ulteriori rispetto a quelli dedotti in giudizio. In tale contesto, l'argomentazione basata sull'ammontare dei versamenti effettuati dalla convenuta, anche per le modalità con cui era stata accertata, imponeva una più approfondita verifica delle circostanze in cui essi erano stati effettuati, al fine di stabilire in maniera più puntuale la loro diretta riferibilità alle sole forniture di cui il venditore aveva chiesto il pagamento.
Priva di alcun sostegno probatorio appare, infine, l'osservazione che desume l'inattendibilità dei documenti di importazione prodotti dalla società acquirente in ragione del fatto che essa aveva interesse in tale momento ad indicare un valore inferiore al fine di sopportare un minor carico fiscale. L'asserzione è del tutto indimostrata ed affidata ad un criterio logico inadeguato.
Le considerazioni svolte mostrano, in conclusione, che le argomentazioni con cui la Corte di appello ha giustificato la soluzione accolta, sia prese singolarmente che nel loro complesso, non appaiono affatto persuasive e convincenti dal punto di vista della sufficienza ed adeguatezza logica e giuridica della motivazione, rendendo necessaria una nuova valutazione del materiale probatorio da parte di altro giudice. Ciò, merita aggiungere, anche tenuto conto del rilievo che la pretesa fatta valere dall'attore risulta fondata su fatture e che, per insegnamento constante di questa Corte, tale documento, provenendo direttamente da una delle parti, non può assurgere a mezzo di prova del relativo diritto di credito una volta che il suo contenuto sia contestato dalla controparte, con l'effetto che esso può costituire, al più, un mero indizio (Cass. n. 15383 del 2010; Cass. n. 9593 del 2004) e che la parte istante è tenuta con altri mezzi a dimostrare la fondatezza della sua pretesa.
11 sesto motivo che, denunziando illogica, contraddittoria ed insufficiente motivazione e violazione del'art. 97 cod. proc. civ., investe la statuizione sulle spese, si dichiara assorbito.
La sentenza impugnata va pertanto cassata nei limiti di cui in motivazione in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata ad altre Sezione della Corte di appello di Milano, che provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

accoglie il secondo, quarto e quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, rigetta il primo ed il terzo, dichiara assorbito il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese di giudizio, ad altre Sezione della Corte di appello di Milano.
Avv. Antonino Sugamele

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