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Sentenza

Vuole arruolarsi nell'esercito e dichiara con autocertifcazione di avere preso un voto piu' alto di quello reale. E' reato. 483 c.p.
Vuole arruolarsi nell'esercito e dichiara con autocertifcazione di avere preso un voto piu' alto di quello reale. E' reato. 483 c.p.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE , SENTENZA 18 aprile 2012 n. 15048 Pres. Ferrua – est. Marasca


In fatto e in diritto

 

1.1. Il Pubblico Ministero chiedeva la emissione di un decreto penale per la violazione dell'articolo 483c.p. contro P.L. accusato di avere falsamente attestato nella domanda di arruolamento nell'esercito italiano di avere conseguito il diploma di scuola media secondaria con una votazione di buono superiore a quella realmente ottenuta di sufficiente,

1.2. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza emessa in data 29 ottobre 2010, dichiarava, ai sensi dell'articolo 129c.p.p., non doversi procedere contro il P.L. in ordine al delitto ascrittogli perché il fatto non sussiste, sul presupposto che la lettera m) dell'articolo 46 del DPR 445 del 2000 individuava, come fatti soggetti ad autocertificazione, il titolo di studio e gli esami sostenuti, ma non anche il giudizio o il voto riportato nell'esame con il quale era stato conseguito il titolo.

2. Con il ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli deduceva la violazione della legge penale perché il voto riportato si doveva ritenere inscindibilmente correlato al titolo di studio conseguito, anche perché la votazione costituiva titolo preferenziale nel reclutamento degli aspiranti.

3.1. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata con trasmissione degli atti al tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

3.2. Il difensore di P.L. in data 4 novembre 2011 depositava una memoria difensiva con la quale, richiamando anche un precedente giurisprudenziale, contestava gli argomenti del ricorrente.

4.1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Secondo il giudicante l'art. 483 c.p. costituisce una norma penale in bianco il cui precetto va specificato e riempito con altre fonti normative, facenti obbligo al privato di dichiarare il vero per il conseguimento di specifici effetti giuridici; nel caso specifico - ha osservato; ancora, il G.U.P. - la norma di cui all'art. 46 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 ricollega alla lettera m) l'effetto di autocertificazione alla dichiarazione del privato riguardante il titolo di studio e gli esami sostenuti, ma non ricollega alcun effetto all'attestazione riguardante il giudizio riportato: sicché, non essendo consentita un'estensione in malam partem della norma incriminatrice, l'avere il P. falsamente dichiarato di aver ottenuto il giudizio di "buono", anziché quello di "sufficiente", non può considerarsi penalmente rilevante.

4.2. La motivazione della sentenza impugnata muove da un'esatta premessa, là dove il giudicante osserva che la norma penale contenuta nell'art. 483 c.p. richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma - eventualmente di carattere extrapenale- che conferisca attitudine probatoria all'atto in cui confluisce la dichiarazione inveritiera, così dando luogo all'obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità; in tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema, anche a Sezioni Unite (v. Cass. Sez. Un. 17 febbraio 1999 n. 6; Cass. Sez. Un, 15 dicembre 1999 n. 28; nonché le più recenti Cass. Sez. V 13 febbraio 2006 n. 19361; Cass. sez. V 4 dicembre 2007 n. 5365).

Del pari condivisibile è l'individuazione dell'art. 46 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 quale norma integratrice del precetto penale nella fattispecie qui rassegnata: la citata disposizione, invero, attraverso l'indicazione di cui alla lettera m) attribuisce efficacia probatoria, ai fini amministrativi, alla dichiarazione del privato riguardante il titolo di studio e gli esami sostenuti.

4.3. Non ha, di contro, fondamento giuridico l'interpretazione ingiustificatamente restrittiva data dal G.I.P. al testo normativo in esame, il cui tenore letterale è il seguente; "Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti: (omissis)... m) titolo di studio, esami sostenuti”. Nell'ottica della sentenza impugnata, l'attestazione resa dal privato nella dichiarazione sostitutiva varrebbe a provare soltanto il superamento dell'esame ivi enunciato, mentre sarebbe giuridicamente irrilevante l'indicazione - veridica o mendace - del giudizio riportato, in quanto non richiesta dalla norma e, perciò, priva di valenza probatoria; tanto dovrebbe dedursi dalla lettera della disposizione, da ritenersi insuperabile se non si voglia accedere ad un'interpretazione estensiva in malam partem, ritenuta illegittima dal giudicante.

Proprio in quest'ultima valutazione si annida il vizio che inficia, per violazione di legge, il deliberato. L'interpretazione c.d. estensiva della norma penale, lungi dall'essere vietata, è invece lecita e, anzi, doverosa quando sia dato stabilire - attraverso un corretto uso della logica e della tecnica giuridica - che il precetto legislativo abbia un contenuto più ampio di quello che appare dalle espressioni letterali adottate dal legislatore; in tal caso non si da luogo ad alcuna violazione dell'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale (che vieta, invece, l'applicazione analogica di una norma al di fuori dell'area di operatività che le è propria), in quanto non ne risulta ampliato il contenuto effettivo della disposizione, ma si impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto di manchevoli espressioni letterali. Il suesposto principio, che nella giurisprudenza di legittimità è stato enunciato da Cass. 29 aprile 1974 n. 1041/75, è di origine assai risalente e risponde ad insopprimibili esigenze di logica giuridica, ignorando le quali si perverrebbe all'assurdo risultato di ritenere - ad esempio - penalmente lecita l'uccisione volontaria della donna, sol perché l'art. 575 c.p. punisce colui che "cagiona la morte di un uomo". Nel caso specifico di cui ci si occupa, il ricorso all'interpretazione estensiva è reso necessario dalla formula eccessivamente contratta utilizzata dal legislatore nell'indicare l'oggetto della dichiarazione sostitutiva: qualora, infatti, si ritenesse bastante la mera indicazione degli esami "sostenuti", come dovrebbe trarsi dal tenore letterale della norma se piattamente applicato, il dichiarante sarebbe legittimato ad elencare, senza alcuna specificazione (o perfino con indicazione di esito favorevole, secondo la logica della sentenza impugnata), anche gli eventuali esami sostenuti con esito negativo. Tale considerazione basta ad evidenziare la necessità di una lettura della disposizione che sia consona alla finalità di essa; sicché, avuto riguardo alla ratio legis, appare chiaro come nell'ambito di una procedura amministrativa nella quale non solo il titolo di studio, ma anche l'esito degli esami sostenuti assume rilievo nella valutazione comparativa dei richiedenti, debba riconoscersi all'autocertificazione valenza probatoria anche riguardo al giudizio riportato: con ogni conseguenza in ordine all'obbligo di attestare il vero e all'applicabilità della sanzione penale in caso di sua inottemperanza. La sentenza qui impugnata, che non ha dato corretta applicazione ai suesposti principi, va conseguentemente annullata con rinvio, per nuovo giudizio, allo stesso Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

 

P.Q.M.

 

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Avv. Antonino Sugamele

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