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Sentenza

Una dipendente di una compagnia telefonica viene licenziata perchè avrebbe attivato tariffe promozionali a schede di amici e parenti. Il licenziamento è sanzione sproporzionata dice la Cassazione.
Una dipendente di una compagnia telefonica viene licenziata perchè avrebbe attivato tariffe promozionali a schede di amici e parenti. Il licenziamento è sanzione sproporzionata dice la Cassazione.
Corte di Cassazione Sez. Lavoro - Ord. del 29.12.2011, n. 29628

Ritenuto in fatto e diritto

 

1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Napoli, N. V. impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli da (…) per violazione del divieto di attivazione di tariffe telefoniche promozionali su schede di utenze personali o riconducibili a parenti ed amici, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno.

2.- Accolta la domanda e proposto appello da (…) la Corte di appello di Napoli con sentenza 14.10.09 rigettava l'impugnazione ritenendo sproporzionata la sanzione espulsiva in relazione al comportamento contestato. Secondo il giudice non esisteva una regola aziendale, conosciuta dai dipendenti, che indicasse i tipi di attivazione vietati ed i soggetti destinatari del divieto, tanto che la condotta oggetto di censura era stata solo vagamente delineata con la lettera di contestazione. La condotta contestata non rientrava, del resto, in nessuna delle categorie di comportamenti cui il ccnl dei dipendenti delle aziende esercenti servizi di telecomunicazione (art. 48, lett. b) ricollegava la sanzione del licenziamento senza preavviso. La Corte riteneva, dunque, che il comportamento del N. V. non fosse caratterizzato da connotati tali da far ritenere che la sua realizzazione avesse fatto venir meno il rapporto fiduciario tra le parti.

3.- Proponeva ricorso per cassazione (…) deducendo: a) carenza di motivazione in quanto la genericità della contestazione è derivata da una parziale lettura della lettera di contestazione (motivi primo e secondo); b) violazione dell'art. 7 s.d.L e dell' art 2119 cc. in quanto il lavoratore, secondo quanto risultante dalla risposta scritta alla contestazione, aveva ben compreso il contenuto dell'addebito, al punto da non eccepirne in giudizio la genericità; il vizio rilevato dal giudice sarebbe dunque frutto di ultrapetizione (motivi terzo e quarto); c) violazione dell'art, 2119 c.c. in quanto il giudizio sulla proporzionalità sarebbe stato effettuato in astratto, senza riscontro probatorio, dato che senza motivazione le prove testimoniali dedotte non erano state ammesse
(motivi quinto e sesto); violazione dell'art. 2119 c.c. in quanto il giudice aveva ritenuto non apprezzabile il danno patrimoniale derivato al datore dalla condotta del dipendente e, comunque, non avrebbe considerato che la condotta stessa, a prescindere dal suo non inserimento tra i comportamenti sanzionabili con il licenziamento comunque era fonte di violazione di un principio etico comunemente avvertito dalla collettività.
Si difendeva con controricorso N. V.

4.- Il consigliere relatore ai sensi degli 380 bis c.p.c. ha depositato relazione, che è stata comunicata al Procuratore generale e notificata ai difensori assieme all'avviso di convocazione dell'adunanza. La ricorrente ha depositato memoria.
5.- I motivi da uno a sei (sub 3.a, 3.b e 3.c) sono privi del requisito dell'auto sufficienza, in quanto non indicano quale fosse il contenuto della lettera di contestazione che si assume male interpretata, né precisano quale fosse il tenore delle difese del lavoratore da cui dovrebbe arguirsi l'evidente significato della contestazione. Analogamente il contenuto dei capitolati di prova non è neppure sommariamente riassunto. Consegue l'assoluta impossibilità per il Collegio di effettuare un qualsiasi riscontro fattuale circa il contenuto della tesi difensiva sostenuta dalla ricorrente.

6.- Quanto ai motivi settimo ed ottavo (sub 4.d) si contrasta l'argomentata motivazione del giudice di merito in punto di genericità dell'addebito e di sproporzione della sanzione espulsiva con considerazioni di merito valutativo (a proposito del contrasto della condotta con il comune senso etico) che sollecitano alla Corte un inammissibile giudizio di fatto, senza colpire il punto fondamentale della motivazione, e cioè che per affermarsi la proporzionalità tra condotta e sanzione espulsiva, avrebbe dovuto provarsi che il lavoratore fosse consapevole che nell'ambito del rapporto di lavoro quel certo comportamento era da considerare vietato.

7.- Il giudice di merito, infatti, deve valutare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo sia alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, che all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all'assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia, (giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 22.6.09 n. 14586)).
Il giudice di merito si è attenuto a tali principi, procedendo alla valutazione del comportamento tenuto dal lavoratore, così giungendo alla conclusione della mancanza di proporzionalità, non sottraendosi - ai fini di un esauriente esposizione degli elementi di convincimento - all'analisi dell'art. 48 del contratto collettivo, traendo proprio dalla valutazione del suo contenuto significativi elementi logici a favore del giudizio di non proporzionalità.
8.- Il ricorso è dunque, infondato e deve essere rigettato. Le spese di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 30 (trenta) per esborsi ed in € 2.000 (duemila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.
Depositata in Cancelleria il 29.12.2011
Avv. Antonino Sugamele

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