SPECIALITÀ TRA GLI ARTT. 270 BIS E 270 C.P.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE , SENTENZA 2 aprile 2012 12252 Pres. Ferrua – est. Fumo , n.12252 - Pres. Ferrua – est. Fumo
Svolgimento del processo
B.D., C.A., D.A., Ga.
M., G.B., L.C., M. A., R.D., S.A., S.V., T.M. furono riconosciuti colpevoli, in primo grado (sentenza Corte di assise di Milano del 13.6.2009), del delitto di cui all'art. 306 c.p., commi 1, 2, 3, in relazione all'art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, denominata Partito Comunista Politico Militare, PCPM, mediante costituzione di banda armata (capo A), Sc.Sa.: del delitto di concorso esterno nel delitto sopra indicato (capo B), B., G., Ga., L., S., T.: del delitto di cui all'art. 81 cpv. c.p., art. 110 c.p., n. 1, L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 12, artt. 1 e 21, per avere, fino a febbraio 2007, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, in concorso tra loro e con R.V. e con altre persone non identificate, occultato un numero imprecisato di armi da guerra e comuni da sparo, clandestine (Kalashikov, Uzi, mitraglietta Skorpion, revolver, carabina ecc), di parti di esse, il relativo munizionamento, nonchè vario materiale esplodente ciò allo scopo di utilizzare le dette armi per le finalità proprie del sodalizio sovversivo di cui sopra (capo E), gli stessi: del delitto di ricettazione di cui all'art. 648 c.p. (capo F) con riferimento alle suddette armi, B., L., G. e T.: del delitto di tentato furto pluriaggravato (artt. 110 e 56 c.p., e art. 61 c.p., n. 5, art. 624 c.p., art. 625 c.p., nn. 2, 3, 5, 7, in concorso tra loro e con altre persone non ancora identificate, per aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad impossessarsi delle banconote contenute nel bancomat della banca Antonveneta, agenzia di (OMISSIS) (capo G), gli stessi: del delitto di furto pluriaggravato di due autovetture Fiat "Uno" e di alcune targhe di autovetture, utilizzate allo scopo di commettere il delitto di cui al capo che precede (capi H ed I), L., S., B., D., S.: del delitto ex artt. 81 cpv, 110, 112 e 468 c.p., utilizzando la carta di identità intestata a S. che ne aveva falsamente denunciato lo smarrimento, contraffacendola e, in particolare, apponendovi la foto di D. (capo M), G., L., S., B., D.: del medesimo reato di cui al capo che precede, per avere utilizzato, in tempi diversi, fotocopie di carte d'identità che G., approfittando delle sue mansioni di archivista presso la società Italease, sottraeva da varie pratiche ivi giacenti (capo N).
Tutti i predetti delitti sono contestati come aggravati ai sensi della L. n. 15 del 1980, art. 1. I suddetti imputati furono, in ragione di quanto sopra, condannati alla pena ritenuta di giustizia, nonchè in solido al risarcimento del danno in favore delle costituite PP.CC. I.P. (Euro 100.000) e Presidenza del consiglio dei ministri (Euro 1.000.000).
La Corte di assise di appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, decidendo su appello degli imputati, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto B., G., Ga., L., S. e T. dei reati di cui ai capi E) ed F), limitatamente a quanto contestato in relazione alla detenzione di alcune specifiche parti di armi e/o munizioni, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dei predetti, in relazione ai capi sopraindicati, limitatamente alla detenzione di alcune cartucce per arma comune da sparo, esclusa l'aggravante di cui alla L. n. 15 del 1980, ha parzialmente riqualificato il capo E) con riferimento ad una partita di munizioni ritenute per arma comune da sparo e ha rideterminato più favorevolmente la pena degli imputati sopra indicati, confermando nel resto la sentenza impugnata a carico di costoro e, integralmente, a carico degli altri appellanti, condannando questi ultimi al pagamento delle spese processuali; ha confermato le statuizioni civili, condannando gli imputati al ristoro delle spese sostenute dalle parti civili nel secondo grado di giudizio.
Nel corso delle indagini preliminari, vennero svolti accertamenti tecnici non ripetibili (su armi, materiale biologico ecc), fu analizzato, con la procedura dell'incidente probatorio, materiale informatico caduto in sequestro, fu trascritto il testo di numerose conversazioni intercettate.
In detta fase procedimentale il co-indagato R.V. decise di collaborare con gli inquirenti, rilasciando dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie.
I giudici del merito, invero, hanno fondato il loro convincimento, tanto sulle dichiarazioni del collaborante R. (giudicato separatamente), quanto sul contenuto delle conversazioni intercettate, quanto sull'esito dell'attività di perquisizione, sequestro, pedinamento, osservazione, operati dalla polizia giudiziaria, quanto, ovviamente, sull'analisi del materiale acquisto agli atti.
In particolare, risultano cadute in sequestro le armi, le munizioni, i caricatori, le parti di ricambio di cui al sopra indicato capo E), documenti informatici, filmati, nonchè alcune copie del giornale clandestino "(OMISSIS)", espressione della ideologia e dei propositi strategici del gruppo politico al quale gli imputati non hanno nascosto di appartenere. Ricorrono per cassazione, tramite i difensori, gli imputati e deducono:
Il difensore di R. (avv. Covi):
1) inosservanza, ovvero erronea applicazione dell'art. 270 bis c.p. e dell'art. 306 c.p., mancanza illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico.
I giudici del merito non hanno dimostrato l'effettivo inserimento di questo imputato nella struttura organizzata, attraverso l'indicazione di condotte sintomatiche, consistenti nello svolgimento di attività preparatorie rispetto all'esecuzione del programma comune, nè hanno dimostrato l'assunzione di un ruolo concreto nell'organigramma criminale. Il delitto di cui all'art. 270 bis c.p. presuppone il dolo specifico, nel quale la consapevolezza della volontà del fatto di reato deve essere indirizzata al perseguimento della finalità di terrorismo, vale a dire, l'intenzione di spargere terrore tra la popolazione o di costringere i poteri costituiti, nazionali o internazionali, a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti; alternativamente la volontà deve essere diretta a destabilizzare gravemente o a distruggere le strutture politiche fondamentali di un paese. Detto elemento psicologico, quindi, non può essere ravvisato nella mera adesione (inconsapevole o involontaria) ad una qualche iniziativa presa da altri. R. è accusato di aver preso parte ad alcune attività del sodalizio, ma non vi è prova che egli fosse a conoscenza di dette attività, nè degli scopi cui esse miravano e neppure dell'esistenza dell'associazione ritenuta sovversiva.
2) inosservanza e disapplicazione della legge penale per erronea qualificazione giuridica del fatto in relazione alla configurazione dei reati di cui agli artt. 270 bis e 360, in luogo dell'art. 270 ter c.p..
Anche a concedere che sia corretta l'interpretazione che si legge in sentenza sulla formulazione del capo di imputazione in relazione al delitto di cui al capo A), va considerato che la contestazione, come concretamente articolata, al più, integrerebbe il delitto di assistenza agli associati di cui all'art. 270 ter c.p..
3) mancata assunzione di prova decisiva, atteso che non è stato acquisito il verbale d'interrogatorio del R. in data 17 settembre 2007, innanzi al PM milanese, nè i giudici del merito hanno motivato tale mancata assunzione. In detto verbale si legge che R. ha protestato la sua assoluta estraneità, ha chiarito di conoscere solo alcuni dei pretesi associati, ha respinto l'uso della violenza per fini politici. Sempre da detto verbale, si evince che L. esprimeva perplessità sulla figura del R.. Anche a voler accettare che questo imputato abbia favorito il rientro in Italia di D., ospitandolo, è da notare che costui aveva scelto una sorta di latitanza volontaria, ma non era ricercato.
Il difensore di Sc., S. e T. l'avv. Giudiceandrea) articola sei di motivi comuni ed alcuni motivi relativi alle singole posizioni dei predetti imputati.
Motivi comuni:
4) violazione del combinato disposto dell'art. 525 c.p.p. e L. n. 287 del 1951, art. 26 in relazione agli artt. 178 e 179 c.p.p., atteso che in primo grado il presidente aveva esonerato dall'incarico di giudice popolare ben tre dei componenti della corte.
I tre provvedimenti sono privi di motivazione e le richieste sono basate su motivi assolutamente generici. L'eccezione di nullità fu proposta tanto al giudice di primo, quanto a quello di secondo grado, ma essa fu respinta sulla base di una antica sentenza della corte di cassazione. In realtà, come è noto, qualsiasi provvedimento giurisdizionale deve essere motivato; è dunque errata la convinzione espressa nella sentenza che si impugna, in base alla quale il provvedimento in questione non avrebbe bisogno di alcuna particolare motivazione. Peraltro, ai sensi del D.Lgs. n. 273 del 1989, art. 10, secondo alcuni, ha implicitamente abrogato gli ultimi tre commi dell'art. 26 sopra richiamato, l'impedimento di uno dei giudici componenti del collegio avrebbe dovuto imporre la sospensione del dibattimento. Non avendo così operato, il giudice di primo grado ha violato il principio in base al quale la sentenza deve essere deliberata dalle stesse persone fisiche che hanno composto, sin dall'inizio, l'organo giudicante.
5) violazione di legge in ordine alla mancata declaratoria di nullità dell'ordinanza del giudice di primo grado del 22 gennaio 2009, per violazione dell'art. 178 c.p.p., lett. e) e dell'art. 6, comma 3, lett. b) CEDU. Invero, nell'udienza del 22 gennaio 2009 fu arbitrariamente espletato il controesame del collaboratore di giustizia R.. Infatti, a conclusione della precedente udienza, il presidente aveva disposto che gli imputati non fossero allontanati da (OMISSIS), preannunciando che non avrebbe concesso il nullaosta per il loro trasferimento in altre carceri. Viceversa, gli imputati ricorrenti furono tradotti in un carcere in provincia di Catanzaro.
Ciò ha reso nella pratica impossibile l'esercizio della diritto della difesa, attesa la distanza che è stata arbitrariamente posta dall'amministrazione penitenziaria, violando l'indicazione presidenziale, tra i difensori e gli imputati. E noto che il ricordato art. 6 dispone che ogni accusato ha diritto a disporre del tempo e della possibilità necessari per preparare la sua difesa. La condotta dell'amministrazione penitenziaria ha finito per violare anche l'art. 85 dell'ordinamento penitenziario, che prevede il trasferimento dei detenuti solo per gravi e comprovati motivi di sicurezza e comunque previo nullaosta dell'autorità giudiziaria. In merito, la risposta del giudice d'appello è stata del tutto irrazionale e insoddisfacente, in quanto si è articolata attraverso il richiamo ad un precedente giurisprudenziale assolutamente non in termini.
6) Violazione dell'art. 470 c.p.p., e art. 178 c.p.p., lett. c) e dell'art. 6 CEDU, nonchè dell'art. 111 Cost., in relazione alla mancata declaratoria di nullità dell'ordinanza della corte d'assise del 18 luglio 2008, con la quale è stato consentito alla teste To.Fe. di deporre e di essere sottoposta a controesame, essendo visibile solo per la Corte. Il provvedimento appare sostanzialmente immotivato e comunque assunto fuori dei casi previsti dalla legge, atteso che la deposizione della teste è avvenuta senza che le difese ne abbiano potuto vedere le fattezze e l'espressione.
La sentenza impugnata, pur ammettendo che non ricorreva alcuna delle situazioni previste dall'ordinamento, ha rilevato che la teste, così come non era visibile per le difese, non era visibile per il PM, dimenticando che la stessa era già stata ascoltata dall'Organo dell'accusa nel chiuso del suo ufficio, nel corso delle indagini preliminari.
7) violazione di legge per mancata declaratoria di incompetenza territoriale e dunque erronea applicazione degli artt. 8 e 9 c.p.p..
La corte d'assise d'appello ha respinto l'eccezione, già tempestivamente sollevata in primo grado, assumendo che la competenza per territorio si radica nel momento della costituzione delle parti, essendo irrilevanti le successive emergenze dibattimentali. In realtà, i giudici dell'appello hanno dimenticato che le pretese sopravvenienze, emerse nel corso del dibattimento altro non erano che conferma della tesi dell'incompetenza per territorio. In tema di delitto associativo, la giurisprudenza chiarisce che, per individuare il luogo di consumazione del reato, in difetto di elementi storicamente certi, può farsi ricorso a criteri presuntivi, tenendo presente il luogo in cui sodalizio si è manifestato per la prima volta, o quello in cui si concretino i primi segni della sua operatività; solo nel caso in cui ciò non sia possibile, si fa ricorso ai criteri sussidiari e presuntivi di cui all'articolo 9 del codice di rito. Tra questi criteri, desumibili dai reati fine, vi è quello dei primi segni di vitalità del sodalizio. Ebbene, nel caso di specie, l'associazione è contestata come costituita in Milano tra il 2003 e il 2004; si chiarisce però che detta associazione aveva articolazioni in Veneto e in Piemonte. Al proposito, i giudici del merito, da un lato, hanno ammesso che deve farsi luogo ai criteri presuntivi e quindi deve farsi riferimento alla località nella quale si sono concretizzati i primi segni della operatività dell'associazione, dall'altro, tuttavia, fanno esplicito riferimento alla intensificazione e sistematicità di contatti che vengono datati all'estate del 2005, spostando -in tal modo- in avanti di ben due anni la data di effettiva costituzione della presunta associazione.
Ne è senza rilievo che gli unici episodi concreti attribuiti agli associati si sono verificati in Veneto e che di origine veneta sono la maggior parte degli imputati.
8) mancata declaratoria della inammissibilità della costituzione di parte civile di I.P., atteso che i giudici del merito hanno completamente trascurato la giurisprudenza di legittimità, per la quale, in presenza di reato associativo, la persona offesa non può essere che lo Stato italiano. Secondo la corte d'assise d'appello, i reati associativi contestati hanno natura plurioffensiva e dunque hanno inciso anche nella sfera dell' I.; ma l'assunto è errato per il motivo sopraindicato.
9) Violazione di legge in ordine all'entità del risarcimento riconosciuto alle parti civili, atteso che in sentenza si fa genericamente riferimento alla sussistenza degli elementi della condotta, del danno e del nesso causale; tutto ciò non spiega affatto perchè il risarcimento sia stato determinato nella misura esorbitante indicata in sentenza.
10) Per quanto riguarda specificamente la posizione di Sc., il difensore deduce violazione di legge e carenza dell'apparato motivazionale, nonchè inosservanza dell'applicazione dell'art. 110 c.p., art. 306 c.p., comma 2, art. 270 bis c.p.. La sentenza in questione è dotata di motivazione solo apparente, atteso che nessuna dimostrazione è in effetti fornita circa la consapevolezza di questo imputato dell'esistenza del gruppo associato; di talchè non si vede come lo stesso potesse esserne concorrente esterno. La giurisprudenza di legittimità, ovviamente, pretende che, per rispondere di concorso esterno, il soggetto abbia chiara cognizione dell'esistenza della struttura associativa. Tautologicamente si afferma in sentenza che Sc. avrebbe fornito, in maniera non occasionale, un apporto consapevole, volontario e concreto. In realtà egli ha contatti solamente con G. ed un solo, insignificante incontro con L.. La sentenza non chiarisce quali comportamenti dell'imputato si sarebbero posti in correlazione causale con la vita dell'associazione, in quale misura ciò sarebbe avvenuto, quali altri eventuali condotte possono costituire l'obiettiva espressione di una partecipazione alla banda armata. In realtà, le motivazioni che muovevano Sc. erano riferibili all'ambiente della delinquenza comune e nulla avevano di politico. Le stesse conversazioni intercettate non contengono alcun accenno a questioni politiche.
Paradossalmente, poi, questo imputato è stato assolto dagli episodi relativi alle armi, ma condannato come concorrente esterno per aver fornito armi al sodalizio. La contraddizione, puntualmente rappresentata al giudice d'appello, è stata superata con una non condivisibile argomentazione, priva di qualsiasi fondamento logico.
11) Per quanto riguarda specificamente la posizione di Sc., il difensore deduce violazione di legge e carenze dell'apparato motivazionale per erronea applicazione dell'art. 110 c.p., art. 306 c.p., comma 2, art. 270 bis c.p., atteso che a questo imputato (capo M) è addebitato, tra l'altro, di aver messo a disposizione la sua carta d'identità per favorire il rientro clandestino in Italia di D., nonchè la partecipazione ad un corso di informatica, tenutosi a (OMISSIS). Ebbene, quanto alla carta d'identità, è assolutamente inconcepibile che uno degli associati si esponga personalmente, mettendo a disposizione il suo documento, per favorire altro associato. Gli stessi inquirenti della polizia giudiziaria, richiesti sul punto, hanno manifestato la loro meraviglia per un simile modus procedendo Si vuole attribuire a Sc. la condotta sopradescritta sulla base di confuse, oscure, equivoche parole captate nel corso di una intercettazione. La Corte di appello ignora volutamente, per altro, che la carta d'identità smarrita era del tipo elettronico e quindi non falsificabile e che a casa dell'imputato è stata trovata una carta identità scaduta ma regolare; la stessa Corte, per altro, ammettere che in precedenza Sc. aveva denunciato lo smarrimento di altra carta di identità. Quanto al corso di informatica, la partecipazione di questo imputato non è nemmeno stata provata con certezza, atteso lo stesso non è stato visto scendere dal treno a (OMISSIS). Si tratta dunque di elementi neutri o non provati. Sul computerai questo imputato non è stata trovata traccia di articoli pubblicati sul giornale "(OMISSIS)"; Sc., poi è raggiunto da accuse vaghe e generiche da parte del collaboratore di giustizia, nè viene messo in evidenza che gli avrebbe adottato particolari precauzioni per non essere pedinato. Peraltro, la sentenza si sottrae completamente all'esame dell'elemento psicologico e, invero, ammesso e non concesso che sia stato utilizzato il documento in questione, manca la prova della consapevolezza che questo ricorrente avrebbe dovuto necessariamente avere del fatto che detta carta serviva al D., persona che egli non conosceva affatto.
Per quanto specificamente riguarda la posizione di T., il difensore deduce:
12) violazione di legge carenza dell'apparato argomentativo in relazione all'art. 110 c.p., art. 306 c.p., comma 2, e art. 270 bis c.p., atteso che la sentenza esibisce una preoccupante mancanza di effettiva motivazione. Quanto al tentativo di svaligiamento del bancomat, secondo i giudici del merito, il coinvolgimento del T. si evidenzierebbe dal fatto che, attraverso l'impianto GPS, sarebbe stata segnalata più volte la presenza della sua vettura nella zona dove poi avvenne il fatto criminoso. Altro elemento ritenuto indiziante è una sua conversazione (intercettata) con la signora N.; altri elementi vengono indicati nel fatto che, la notte dell'azione, egli sarebbe stato assente da casa e nel fatto che avrebbe frequentato un locale pubblico in quella stessa notte. Tutto ciò alla corte d'assise d'appello basta per ritenere che questo imputato avrebbe partecipato alle azioni preparatorie del tentativo di furto. In realtà, si tratta di condotte assolutamente neutre, dalle quali nulla si può dedurre. Nè il pentito R. ha fornito indicazioni concludenti, atteso che gli stessi giudicanti non gli credono quando egli accusa T. di aver preso parte al furto.
Nessuna valida motivazione poi viene esibita per porre nel nulla le dichiarazioni dei testi della difesa, S. e Ca..
Con riferimento al primo, la Corte erra nel ritenerlo non credibile, con riferimento a quanto egli ebbe a dire circa la condotta dell'imputato nella notte del tentato furto, atteso che al T. non è addebitata l'azione tipica, ma l'azione preparatoria svoltasi nei giorni precedenti; quanto alla seconda, paradossalmente, la Corte non le crede perchè troppo precisa.
Quanto alla esercitazione con le armi, che si sarebbe svolta in località (OMISSIS), i giudici di merito pretendono di dedurre dal fatto che questo imputato ha eseguito alcune passeggiate nella zona una condotta etichettata come "sopralluogo", ovviamente finalizzato a rendere possibile la successiva sparatoria. Al proposito, viene data piena credibilità al teste R., il quale tuttavia ha affermato di aver riconosciuto l'imputato solo successivamente ("dalle occasioni che si erano poi presentate di studiarne meglio le fattezze"), pur avendo ammesso l'ottima conoscenza del T. stesso, ancor prima di quella sera.
La mancanza di motivazione, infine, è palese in relazione alle varie questioni proposte con l'atto di appello, questioni relative alla impossibilità di un riconoscimento in loco, atteso che l'azione di fuoco si sarebbe svolta nel buio più assoluto, alla palese inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie del collaboratore di giustizia, all'ambivalenza di alcune frasi intercettate, in base ai quali non è consentito individuare nel T. "il più giovane" del gruppo, alla mancata conoscenza tra il ricorrente e il G., all'assoluta equivocità dell'indizio consistente nel ritrovamento di un bigliettino, con annotazione di alcuni numeri di targa, al fatto che il ricorrente, pur indicato come responsabile del "settore giovanile", nulla sapeva del viaggio in Svizzera di Sa. (assolto) e M..
Il difensore di B., C., D., G., L., M. e S. (avv. Pelazza) articola motivi comuni e motivi "specifici" per taluni dei predetti imputati. Motivi comuni:
13) vengono, innanzitutto, richiamate e condivise le censure -sopra illustrate- relative alla pubblicità del dibattimento, alle modalità di audizione della teste t., all'illegittimo trasferimento degli imputati nel carcere di Siano-Catanzaro, alla questione di legittimità costituzionale della L. n. 14 del 2006, art. 9, commi 6 e 7 (vedasi sub. 47).
Altri motivi comuni.
14) inosservanza dell'art. 36 c.p.p., art. 111 Cost. e art. 6 CEDU. Alla prima udienza innanzi al giudice di appello, era stata rappresentata al presidente l'opportunità di una sua astensione ai sensi di quanto previsto dall'art. 36, n. 1, lett. h), vale a dire per gravi ragioni di convenienza. Il presidente infatti aveva precedentemente prestato servizio nella Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano con funzioni di procuratore aggiunto.
Orbene, anche se il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante era avvenuto pochi mesi prima dell'entrata in vigore della norma che tale passaggio vieta nell'ambito dello stesso distretto, nondimeno, si manifestava la assoluta esigenza di evitare che il presidente della corte d'assise d'appello fosse gravato da un pregiudizio colpevolista nei confronti degli imputati, dovendo detto presidente giudicare sugli esiti dell'indagine compiuta dal suo precedente Ufficio. A ciò è da aggiungere che il sostituto Procuratore generale di udienza, fino al 2007, aveva prestato servizio come sostituto Procuratore della Repubblica nello stesso ufficio nel quale il presidente della corte aveva, come detto, esercitato la funzione di Procuratore aggiunto. Peraltro il medesimo presidente, negli anni '80, aveva fatto parte, sempre nell'ufficio requirente di cui sopra, del cosiddetto pool antiterrorismo. Le gravi ragioni di convenienza attenevano, tanto I1 imparzialità, quanto all'apparenza di imparzialità del giudice, di talchè la motivazione con la quale il predetto magistrato ha rifiutato la sua astensione non è coerente con la finalità sopraindicata, atteso che, in detta motivazione, si fa riferimento alla mancanza di incompatibilità, a norma della legge all'epoca vigente, tra le due funzioni. Il principio di terzi età del giudice, come evidenziato da sentenze della Corte costituzionale e della Corte europea, si articola, per così dire, in un versante oggettivo e in uno soggettivo, consistendo quest'ultimo nella fiducia che la figura del giudice deve ispirare agli imputati, fiducia che non può che derivare dalla consapevolezza della sua assoluta equidistanza tra le parti in causa. E dunque evidente che rientrano nelle gravi ragioni di convenienza di cui alla lettera h) dell'articolo 36 del codice di rito tutte quelle situazioni che possono dare spazio al sospetto della non imparzialità del giudicante e quindi alla violazione del principio del giusto processo come stabilito in Costituzione; ciò anche perchè la predetta causa di astensione non può dar luogo a ricusazione, con la conseguenza che, in caso di inottemperanza da parte del giudice al suo obbligo di astensione, la parte è priva di immediato mezzo di tutela.
15) inosservanza dell'art. 416 c.p.p., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e mancanza di motivazione. Al giudice di secondo grado era stata rappresentata, come già in primo grado, la circostanza che il PM non aveva depositato tempestivamente, ai sensi dell'art. 415 bis, tutto il materiale raccolto nel corso delle indagini. Una parte di detto materiale, infatti, era stato depositato successivamente, con avviso ai sensi dell'art. 430 c.p.p.. Ebbene, la Corte costituzionale, con la sentenza 145 del 1991, ha chiarito, con pronuncia interpretativa di rigetto, che la legittimità del predetto art. 416 deve essere affermata sulla base del presupposto che l'Organo dell'accusa non può selezionare gli atti da rimettere al giudice dell'udienza preliminare. Anche i lavori preparatori del codice militano in tal senso, dovendo il PM procedere ad una piena discovery fin dall'udienza preliminare. Secondo la corte d'assise d'appello, i riferimenti della difesa erano generici. Si tratta di un assunto infondato, atteso che era stato fornito l'elenco dettagliato dei numerosi atti di indagine compiuti prima dell'avviso di cui all'art. 415 bis c.p.p. ma che in esso non sono ricompresi.
16) inosservanza degli artt. 415 bis e 416 c.p.p., L. n. 742 del 1969, art. 2, comma 2, lett. a) della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, ratificata con L. n. 146 del 2006 e mancanza di motivazione. Già in primo grado, si era sostenuto che i reati per i quali si procede non possono essere qualificati fatti di criminalità organizzata, con la conseguenza che per essi non vige la deroga al principio della sospensione feriale dei termini e con l'ulteriore conseguenza che non poteva non essere dichiarata la nullità ai sensi dell'art. 416 c.p.p., della richiesta di rinvio a giudizio, poichè non preceduta da valido avviso ai sensi dell'art. 415 bis e di tutti gli atti conseguenti. Invero il termine di cui al predetto articolo, anzichè ispirare il 15 settembre 2007, avrebbe dovuto cominciare a decorrere dal 16 settembre. La Corte d'assise d'appello, travisando il senso delle pronunzie giurisprudenziali citate e ignorando l'evoluzione legislativa degli ultimi anni, ha affermato che il concetto di criminalità organizzata abbraccia anche la cosiddetta criminalità terroristica. Al proposito, basta riflettere sul fatto che il legislatore ha sentito l'esigenza, allo scopo di estendere taluni istituti -sostanziali e processuali- anche alla normativa antiterroristica, di operare specifici richiami e significative aggiunte alla normativa previgente, di talchè se tali richiami e aggiunte non fossero stati effettuati, detta normativa avrebbe continuato ad essere in vigore solo per i cosiddetti reati di mafia. Ne consegue che, se è stato necessario, di volta in volta, affiancare alle norme confezionate per combattere la criminalità mafioso "aggiunte normative", utili per estendere al contrasto al terrorismo i predetti istituti, è di tutta evidenza che proprio tale duplicazione di produzione normativa sta a significare che, nel concetto di criminalità organizzata, non poteva, e non può, farsi rientrare il fenomeno della criminalità terroristica. D'altra parte, la convenzione di Palermo e i conseguenti protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001 e ratificati con L. n. 146 del 2000, definiscono il gruppo criminale organizzato come un aggregato umano composto da persone che agiscono al fine di commettere uno o più reati, diretti ad ottenere un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale. Orbene, la finalità di ottenimento di vantaggi materiali o finanziari è esclusa dagli stessi capi di imputazione, che individuano esclusivamente la finalità di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1. 17) inosservanza della L. n. 287 del 1951, art. 26, artt. 525, 178 e 179 c.p.p., art. 25 Cost. e art. 6 CEDU, con riferimento alla ordinanza con la quale in primo grado si provvide alla sostituzione di un giudice popolare. Secondo i giudici di merito, trattasi di provvedimento che non ha necessità di motivazione, in quanto il fatto stesso che si provveda alla sostituzione dimostra l'avvenuta realizzazione di una delle condizioni previste dalla legge. Tale motivazione è radicalmente illogica, in quanto pretende di trarre la prova della sussistenza delle condizioni necessarie per il corretto verificarsi del fatto, dall'essersi verificato il fatto; in realtà, il ricordato art. 26 parifica i vari motivi di impedimento a quelli di astensione e di ricusazione. E noto che, per la giurisprudenza di legittimità, la sostituzione non è più ammessa dopo la chiusura del dibattimento. Ebbene, nel caso in esame, la sostituzione è avvenuta successivamente alla ultimazione della discussione e immediatamente prima della successiva udienza, fissata unicamente per le dichiarazioni di alcuni imputati. Dunque, al di là di ogni sterile formalismo, non si può che ipotizzare che, nel lasso di tempo intercorrente tra il termine della discussione e l'udienza fissata per l'ingresso in camera di consiglio, le opinioni dei giudici componenti il Collegio siano emerse. Ne consegue l'assoluta illegittimità della sostituzione. Invero, la ratto della norma è quella di evitare che il presidente, avendo compreso l'orientamento dei giudici popolari, possa provvedere a sostituire coloro che abbiano manifestato un'opinione dissonante dalla sua. Peraltro, emerge con assoluta evidenza, nel caso di specie, la natura pretestuosa della sostituzione, atteso che il giudice popolare lamentava un trauma contusivo alla caviglia, che certo non poteva costituire un impedimento assoluto allo svolgimento della funzione.
Il provvedimento ("visto si esonera") manifesta un'evidente mancanza di motivazione. Anche l'esonero del giudice supplente viene giustificato in maniera apodittica ("visto si esonera"), atteso che il predetto aveva semplicemente addotto motivi familiari.
18) inosservanza degli artt. 475, 178 e 179 c.p.p., artt. 24 e 111 Cost., art. 6 convenzione europea sopra ricordata, con riferimento all'allontanamento dell'imputato G.. Nell'udienza del 23 gennaio 2009, il presidente disponeva l'allontanamento dall'aula di tutti gli imputati, delegando alla polizia penitenziaria la individuazione di coloro che effettivamente avevano tenuto una condotta incompatibile con l'udienza. Alla ripresa, i difensori rilevavano la illegittimità dell'espulsione indiscriminata e obiettavano che il potere di individuazione era stato arbitrariamente delegato dal presidente agli agenti di custodia. Conseguentemente, obiettavano circa la assenza degli imputati dall'aula e quindi circa l'assenza degli stessi in udienza, con conseguente motivo di nullità assoluta; veniva pertanto chiesta la revoca immediata del provvedimento. Il presidente non accedeva alla richiesta e disponeva che il controesame del teste I. avvenisse in quelle condizioni;
e in effetti il PM procedeva a detto controesame. Alla successiva ripresa, il caposcorta chiariva che G. non aveva tenuto alcuna condotta irriguardosa nei confronti della corte, non avendo aperto bocca. Conseguentemente, il presidente revocava l'ordinanza di allontanamento dall'aula nei confronti del predetto. Resta il fatto che parte dell'udienza è stata celebrata in assenza di quest'imputato, immotivatamente e ingiustamente allontanato.
Investita della questione, la Corte d'assise d'appello l'ha risolta con una motivazione apparente e del tutto tautologica, facendo riferimento ai poteri presidenziali e non esaminando in concreto la vicenda sottoposta alla sua attenzione. Viceversa, avrebbero dovuto essere singolarmente individuati gli imputati disturbatori e solo essi avrebbero dovuto essere allontanati dall'aula. D'altra parte, l'ordinanza in questione è stata, per quel che riguarda G., revocata e ciò sta significare che se ne è riconosciuta la illegittimità. Non si è in presenza, dunque, di un provvedimento di riammissione, ma di revoca con tutte le inevitabili conseguenze del caso.
19) inosservanza degli artt. 191, 581 e 585 c.p.p. e mancanza di motivazione ovvero sua illogicità o contraddittorietà. Con i motivi di appello, era stato rappresentato il fatto che gran parte della sentenza di primo grado (pagg. 12-328) era stata redatta facendo uso di atti inutilizzabili, vale a dire le relazioni di servizio, adoperate dall'estensore per redigere la cosiddetta "cronologia dell'emergenza". Al proposito la Corte di secondo grado ha respinto l'eccezione, qualificando l'atto d'appello come generico, sul punto, e apodittico e rilevando che la Corte di primo grado, con apposita ordinanza, aveva disposto l'esclusione delle annotazioni relative alle attività di indagine e alle informative di polizia giudiziaria.
Ha sostenuto il giudice di secondo grado, inoltre, che il richiamo, operato dal difensore nel corso della discussione orale della questione sopra indicata aveva costituito la espressione di motivi nuovi, enunciati fuori termine.
E di tutta evidenza, viceversa, da un lato, che l'ordinanza della Corte d'assise ha natura programmatica, ma non garantisce che effettivamente quel giudice l'abbia osservata. Era dunque necessaria una verifica in concreto della fondatezza della doglianza articolata con i motivi di appello. Nè può essere considerato rilevante il fatto che si sia svolta un'istruttoria dibattimentale ampia, atteso che ciò che rileva, alla luce dell'atto d'appello, è il controllo da esercitarsi sull'impianto della sentenza, per verificare se esso sia stato basato su prove non utilizzabili. Contraddittorio e illogico poi è l'assunto della corte di secondo grado in base al quale la illustrazione, nel corso della discussione orale, anche con esempi, delle ragioni poste allo base dell'atto d'impugnazione, costituirebbe motivo nuovo. In realtà la Corte d'assise d'appello evidenzia di non potere prendere in esame la corposa mole degli atti solo in sede di conclusioni orali. Ma, così argomentando, il giudice di secondo grado attesta di non avere esaminato - come avrebbe dovuto, alla luce dei motivi d'appello - in un momento precedente, gli atti a sua disposizione. Opinare diversamente vorrebbe dire togliere ogni senso ed ogni funzione alla discussione orale.
20) inosservanza dell'art. 191 c.p.p. con conseguente inutilizzabilità dei decreti del GIP, autorizzativi delle intercettazioni telefoniche e ambientali, conseguente contraddittorietà della motivazione. Secondo le doglianze della difesa, l'attività di intercettazione aveva avuto inizio sulla base di informazioni ricevute dal Sisde. Trattandosi di informazioni confidenziali, la cui fonte non è stata rivelata, esse non potevano essere utilizzate per avviare l'attività di intercettazione. Secondo i giudici del merito, la censura sarebbe infondata in quanto dette informazioni provenienti dal Sisde avrebbero costituito lo spunto per attività investigativa operata dalla Digos. Ma quale in concreto sia stata questa attività investigativa non è chiarito e non è dato sapere. Alla polizia giudiziaria era nota la pretesa esistenza del cosiddetto gruppo milanese, mentre l'ingresso nelle indagini di persone come S., B. e D. è conseguenza unicamente delle segnalazioni operate dal Sisde. Le attività di indagine che la corte indica come autonomamente svolte dalla Digos si riferiscono ad una pregressa perquisizione effettuata al D. a Parigi nel 2003, in esecuzione di rogatoria della Procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli e a non meglio indicate pregresse attività di indagini riguardanti L., Ga. e Gh..
La Corte costituzionale, con la sentenza 410 del 1998, ha chiarito che una prova illegittimamente raccolta non può essere posta a base di successiva attività di indagine. Il caso riguardava atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di Stato e, come tali, inutilizzabili. Nel caso in esame, è identico il rapporto tra fonti di inteitigence, inutilizzabili, e i risultati delle indagini successive.
21) inesistenza e comunque inutilizzabilità delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali per inosservanza degli artt. 221, 222 e 223 c.p.p., motivazione illogica e contraddittoria. Le trascrizioni sono avvenute attraverso l'ascolto di registrazioni non originarie, in quanto i periti hanno avuto a disposizione supporti magnetici sui quali, ad opera di personale non ausiliario, era stato riversato il contenuto del supporto originario. Tanto premesso, è incomprensibile l'argomentazione della Corte in base alla quale la duplicazione sarebbe stata un'operazione meramente meccanica, che non comporta alcuna attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica.
Infatti, se è vero che la trascrizione non costituisce prova della conversazione, ma va considerata solo come un'operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica, è altrettanto vero che la trascrizione peritale è, a sua volta, rappresentativa, appunto, in forma grafica del contenuto di supporti magnetici, che, nel caso in esame, sono cosa diversa da quello sul quale furono originariamente registrate le conversazioni intercettate. Si è così interrotto il rapporto, che dovrebbe essere inscindibile, della trascrizione con la registrazione originale e tale interruzione, per di più, è avvenuta ad opera di un soggetto sfornito di qualsivoglia investitura.
22) inosservanza dei principi in tema di prova con riferimento al contenuto delle intercettazioni, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Era stata lamentata l'assoluta inattendibilità della trascrizione delle intercettazioni e i giudici del merito furono, a suo tempo, invitati ad ascoltare le stesse in udienza. In primo grado ciò non avvenne; in secondo grado la Corte ha argomentato sostenendo che l'ascolto non doveva necessariamente avvenire nel contraddittorio delle parti e che esso poteva anche avvenire in camera di consiglio; sta di fatto che non risulta che detto ascolto sia avvenuto in camera di consiglio. In particolare la intercettazione del 9 dicembre 2006, per come evidenziato dalle difese, appare di difficile intelligenza, in considerazione della pessima qualità della registrazione. In essa, secondo la tesi d'accusa, gli imputati si sarebbero accordati per uccidere il prof. I.. Con riferimento a tale intercettazione, la stessa Corte di assise d'appello ha dovuto ammettere che essa non può ritenersi concludente, appunto perchè sostanzialmente non intelligibile. Per tale ragione, la Corte stessa ha ritenuto che il risultato della intercettazione in questione non raggiungesse i necessari requisiti di certezza; ad analoga conclusione è giunta anche con riferimento alle ulteriori citazioni relative all' I.. E dunque da chiedersi come abbia fatto la corte a soprassedere all'ascolto di tutte le intercettazioni, considerandole, nel resto, attendibili, vale a dire considerando fedele il complesso delle trascrizioni, senza averle in alcun modo verificate. Al proposito, la difesa aveva articolato alcuni esempi ed aveva anche chiesto che fosse chiarito come mai la conversazione tra B. e L., che si sarebbe svolta in località (OMISSIS), con inizio alle 15,40 sia indicata in trascrizione come iniziata molte decine di minuti prima. In merito a ciò, la Corte non ha saputo argomentare se non che evidentemente si tratta di un errore materiale.
23) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 185 c.p., art. 74 c.p.p. con conseguente mancanza o illogicità di motivazione.
La Corte d'assise d'appello ha ritenuto che il delitto di cui all'art. 270 bis abbia natura plurioffensiva, con la conseguenza che esso mette in pericolo, sia la vita e l'incolumità delle vittime, sia la personalità dello Stato. Tuttavia non è dato sapere quale specifico riferimento sarebbe stato fatto al prof. I. e alla sua qualità di eventuale obiettivo di atti di violenza dell'associazione. Al massimo, emergerebbe l'intenzione offensiva da parte di un unico soggetto, ma tale intenzione non si è concretizzata neanche in un effettivo atto preparatorio (anche in considerazione di quanto precedentemente detto circa la non intelligibilità della intercettazione nella quale si fa parola dell'eventuale attentato in danno dell' I.). Dunque, da un lato, viene coinvolto in tale pretesa manifestazione di volontà anche chi non si è minimamente espresso in merito (venendo individuato come responsabile, solo in base alla sua partecipazione al reato associativo), dall'altro, non si vede come I. possa essere stato considerato persona offesa, con tutte le conseguenze del caso.
24) errata applicazione dell'art. 270 bis c.p. e conseguente mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità di motivazione.
Secondo la Corte di appello, vi sarebbe esatta corrispondenza tra le fattispecie contestate e i fatti accertati. Così argomentando, il giudice di secondo grado ignora e trascura l'elaborazione giurisprudenziale, in base alla quale, per la sussistenza del reato di cui all'art. 270 bis c.p., occorre l'esistenza di un programma attuale, concreto, estrinsecantesi di atti di violenza per fini terroristici o di eversione e occorre una struttura organizzata, stabile, permanente, che presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l'attuazione del programma eversivo-rivoluzionario.
In altre parole, bisogna che l'aggregazione abbia caratteristiche tali da rappresentare un'insidia per il bene protetto. In ordine a tale problematica, la motivazione della sentenza che si impugna è gravemente carente, nè può essere indicato, nello scritto del giudice di appello, un "luogo fisico" in cui si manifesti tale carenza, atteso che il vizio denunciato non può che emerge dalla complessiva lettura della sentenza. Secondo la sentenza impugnata, il gruppo avrebbe avuto una cassa unica e un'organizzazione che prevedeva che ogni cellula potesse fornire alle altre supporto logistico, di armi e di uomini; sarebbe stato individuato il vertice ideologico-operativo e sarebbero state individuate anche precise modalità esecutive per gestire gli incontri tra gli associati e per assicurare la segretezza del gruppo.
Orbene, per quanto riguarda le tre cellule (Torino, Milano, Padova), è da notare che a Torino risulta presente il solo imputato S.;
quanto al coordinamento delle azioni materiali, non ne risulta alcuna che sia consona ad un programma eversivo. Invero, il tentativo di furto al bancomat e la pretesa esercitazione con armi in località (OMISSIS) non possono costituire prova di procedure precise, mirate ad assicurare la segretezza del gruppo. Nè valore sintomatico può avere il contatto con un gruppo politico in Svizzera, trattandosi di un'associazione comunista del tutto legale, fornita anche di sito web. Quanto al foglio clandestino, che avrebbe dovuto propagandare l'ideologia in stretta sinergia con la propaganda armata, la Corte non è in grado di indicare il compimento di alcuna azione di propaganda armata. Peraltro, è lo stesso giudice di secondo grado che premette che la semplice adesione ad un'ideologia, anche se eversiva, non può integrare un'ipotesi di reato, qualora non si traduca nella realizzazione di una struttura organizzativa o in concreti atti di violenza. Ebbene, gli atti concretamente posti a carico degli imputati consistono nella partecipazione a corsi di informatica in Svizzera e nelle pretese, "inchieste", che poi, a ben vedere, altro non sono che l'annotazione di indirizzi, quasi sempre desunti dall'elenco del telefono. E' evidente, quindi, che la Corte d'assise d'appello si pone in contrasto con le sue stesse premesse.
D'altra parte, la denominazione Partito Comunista Politico Militare, come chiarito agli stessi imputati, più che un nome, rappresenta un obiettivo sostanziale da raggiungere. Nelle intercettazioni si afferma che occorre creare una sinergia tra "(OMISSIS)" e la propaganda armata. Dunque, se occorre creare tale sinergia, essa, evidentemente, ancora non sussiste. E, d'altra parte, in altre intercettazioni, i colloquianti si lamentano del fatto di essere fermi e di non avere avuto possibilità di far proseliti e così, in altre intercettazioni, emerge chiaramente che essi sono in fase di individuazione e definizione di obiettivi, mentre devono essere ancora risolti i problemi economici e logistici; emerge che, in sostanza, nessun atto concretamente esecutivo era stato ancora posto in essere. E' di tutta evidenza che, per dimostrare la esistenza della ipotesi associativa contestata, è necessario ancorarsi a precisi dati di realtà, atteso che la sussistenza di una organizzazione - effettiva ed efficiente - non può che risultare dai fatti e non deve essere presunta in base alla mera ideologia dei soggetti che si aggregano. Peraltro, più che di progetti, sembra potersi parlare di mere ipotesi, atteso che nessun atto concretamente preparatorio è stato posto in essere. E' appena il caso di ricordare, ad esempio, che la cosiddetta "inchiesta" sul dirigente della Breda, S.V., non si è minimamente sviluppata, atteso che, sulla base di una ricerca eseguita semplicemente sulla guida del telefono, lo stesso fu erroneamente individuato in un omonimo benzinaio con esercizio in (OMISSIS). Anche altre iniziative sono rimaste allo stato embrionale: così quella sul cosiddetto "sportello Biagi" o quella relativa al magazzino Alcor.
25) inosservanza dell'art. 270 sexies c.p. e della decisione quadro del consiglio dell'Unione Europea 13.6.2002, della convenzione di New York per la repressione dei finanziamenti al terrorismo, resa esecutiva con L. n. 7 del 2003 e conseguente carenza dell'apparato motivazionale. La finalità di terrorismo è normativamente individuata nelle condotte che, per loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad una Organizzazione internazionale. E quindi necessaria la idoneità offensiva della condotta in questione perchè la finalità di terrorismo si deve comunque concretizzare in un'oggettiva possibilità delle condotte a raggiungere lo scopo cui sono dirette, essendo in ogni caso necessario, per la sussistenza del delitto de quot che sia messo in pericolo il bene protetto; nè può ritenersi che detto requisito attenga solo alla finalità di terrorismo e non anche a quella di eversione dell'ordine democratico, poichè la figura criminosa in questione prevede quelle condotte destinate precipuamente allo scopo di destabilizzare e/o distruggere le strutture politiche fondamentali di un Paese. La Corte milanese, citando giurisprudenza della Corte di cassazione, si rifà alla convenzione di New York sopraindicata, per la quale - tuttavia - atto di terrorismo, come premesso, è quello diretto a causare la morte o gravi lesioni fisiche a civili o a qualsiasi altra persona, che non ha parte attiva in situazioni di conflitto armato, ovvero quello destinato a intimidire una popolazione e/o ad obbligare un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere qualcosa. Ne consegue che qualsiasi partecipe, per essere ritenuto tale, deve dare un effettivo contributo all'azione della struttura criminale cui è accusato di appartenere. Di tutto ciò non è traccia nelle astratte argomentazioni del giudice di secondo grado.
26) inosservanza della L. n. 85 del 2006, art. 2, che ha novellato l'art. 270 c.p., e mancanza di motivazione. Invero, l'art. 270 sexies c.p. ha riunificato finalità di terrorismo e finalità di eversione, inserendo nella finalità di terrorismo quella di distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economi che e sociali di un Paese. Ebbene, questa dizione è equivalente a quella che si legge nell'art. 270, come novellato, vale a dire che essa descrive il sovvertimento violento degli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato; si tratta di una operazione diretta a sopprimere - sempre con violenza - l'ordinamento politico-giuridico dello Stato. Ne consegue che, per quanto riguarda le condotte associative realizzate nel territorio dello Stato, non può che farsi riferimento all'art. 270 c.p., mentre l'art. 270 bis c.p., trova applicazione solo per le condotte associative mosse da finalità rivolte contro uno Stato estero o un'organizzazione internazionale.
Ciò evidentemente anche in ragione dell'art. 2 c.p..
27) errata applicazione dell'art. 306 c.p. e mancanza di motivazione.
Sulla sussistenza dei requisiti per l'applicabilità dell'art. 306 c.p., la Corte di appello non spende una sola parola, ma si limita a richiamare la giurisprudenza di legittimità, che pone in evidenza come, per la sua sussistenza, non sia necessaria la prova della esistenza di una gerarchia interna di tipo militare, burocraticamente concepita; il che sta comunque a significare, sia pure implicitamente, che si ravvisa la necessità di un qualche tipo di gerarchia. Viceversa, proprio sulla sussistenza dei rapporti gerarchici tra i pretesi membri del sodalizio, la Corte di merito nulla dice; in proposito, per altro, la giurisprudenza di legittimità pretende che i singoli appartenenti alla struttura criminosa abbiano concreta possibilità di utilizzazione delle armi.
Le risultanze offerte nel corso del processo, viceversa, lasciano ipotizzare la possibilità di utilizzazione di armi, circoscritta solo ad alcuni, laddove anche la dottrina si è orientata nel senso che la distribuzione delle armi ai singoli componenti deve essere effettiva e non meramente potenziale. Per quanto poi riguarda l'indispensabile reato-fine del delitto di cui all'art. 306 c.p., il capo d'imputazione prevede esclusivamente quello di cui all'art. 270 bis c.p.. In realtà, perchè possa ritenersi sussistente il delitto di banda armata, deve sussistere in concreto la finalità di commissione del delitto di cui all'art. 270 bis; e ciò al momento della formazione della banda. Deve quindi essere provato che l'associazione non è stata formata antecedentemente alla costituzione della banda e che, pertanto, essa può rappresentare il reato-fine, da realizzarsi con l'attività della banda stessa.
Viceversa, nella sentenza impugnata, il reato di cui all'art. 270 bis rappresenta il presupposto logico e cronologico di quello di cui all'art. 306. 28) inosservanza della L. n. 152 del 1975, art. 18 e mancanza di motivazione. E' noto che perchè sussista la fattispecie associativa, deve realizzarsi un quid pluris rispetto al concorso di persone nel reato. Orbene, l'art. 18 sopraindicato, con riferimento agli atti preparatori, prevede l'applicazione di misure di prevenzione per le persone che operano in gruppi o isolatamente e che pongono in essere detti atti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato. Ne consegue che, se gli atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato con la commissione dei reati specificamente indicati, ovvero diretti alla commissione di reati con finalità di terrorismo, costituiscono elementi giustificativi dell'applicazione della misura di prevenzione, essi non possono costituire, al contempo, "Il nocciolo" del delitto previsto dall'art. 270 bis c.p..
29) erronea applicazione della L. n. 15 del 1980, art. 1 e dell'art. 306 c.p. e mancanza di motivazione. Elemento costitutivo del delitto di banda armata è il fine di commettere il delitto di cui all'art. 270 bis c.p.. Invero, in mancanza della finalità di commettere uno dei delitti indicati nell'art. 302 c.p., non può in alcun modo essere integrata la fattispecie dell'art. 306. Pertanto, se il delitto in questione, così come contestato gli imputati, esiste solo in quanto si realizza il fine di commettere il delitto di cui all'art. 270 bis, non può essere contestata anche l'aggravante di cui all'art. 1 della predetta legge.
30) inosservanza dell'art. 2 della convenzione di New York sopraindicata e inosservanza della decisione quadro 13/6/2002 con conseguente mancanza di motivazione. Anche per quel che riguarda le imputazioni specifiche, per le ragioni sopraddette, non poteva essere applicata l'aggravante prima indicata. Si è già detto come sia stato operata l'unificazione tra finalità di terrorismo e di eversione; orbene la decisione quadro procede alla elencazione dei reati terroristici, indicandone la finalizzazione, atteso che essi, per la loro natura o per il contesto, devono essere in grado di arrecare grave danno a un Paese o a un'organizzazione internazionale.
Già questo esclude l'applicabilità dell'aggravante sopraindicata.
La convenzione di New York fornisce una definizione di terrorismo nella sua globalità, anche mediante il rinvio a precedenti convenzioni. Essa contiene una clausola finale di chiusura che stabilisce, come anticipato, che costituisce atto terroristico qualsiasi altro atto destinato a cagionare morte o lesioni personali gravi ad un civile o a qualsiasi altra persona, che non partecipi attivamente alle ostilità. Ora, è evidente che nessuna delle condotte specifiche contestate agli imputati può rientrare nella previsione della citata convenzione. Sul punto, in ogni caso, la corte d'assise d'appello nulla scrive.
31) inosservanza dell'art. 311 c.p. e mancanza di motivazione. La mancanza di idoneità offensiva e la inesistenza di un programma attuale e concreto avrebbero dovuto rendere applicabile l'attenuante sopraindicata. Viceversa, la Corte apoditticamente esclude che i fatti accertati siano di modesta entità. Così argomentando, peraltro, essa tiene conto solo dei fatti ma non, come richiede la norma, anche del danno e del pericolo, danno e pericolo che, di fatto, non si sono concretizzati.
32) inosservanza dell'art. 62 bis c.p. e mancanza di motivazione. La Corte motiva in ordine alla inapplicabilità dell'attenuante di cui al numero 1 dell'art. 62 c.p., nulla aggiungendo circa il riconoscimento di eventuali attenuanti generiche; sul punto, quindi, vi è carenza di motivazione. Vanno viceversa considerate a favore degli imputati la evidente assenza di interesse personale, la volontà di modificare in senso più giusto gli equilibri politico- economici, l'intenzione di istituire una società nella quale non vi sia più sfruttamento, il proposito di giungere ad una diversa organizzazione del lavoro, all'insegna, non della ricerca del profitto, ma della sicurezza di chi lavora. Erano tutti motivi da considerare in vista dell'eventuale riconoscimento delle attenuanti invocate, che avrebbero consentito al giudice un adeguato intervento correttivo, per mitigare l'asprezza della pena astrattamente prevista dalla legge.
33) violazione dell'art. 133 c.p. e motivazione mancante, atteso che la Corte d'appello si è limitata ad una generica affermazione di adeguatezza della pena come determinata in primo grado senza nulla aggiungere e senza dare risposta alle censure formulate con l'atto d'appello.
34) mancanza di motivazione in ordine alla affermata attendibilità di R.V.. Invero, gli stessi giudici del merito affermano che non possono negarsi alcune contraddizioni e una certa natura altalenante nelle dichiarazioni di questo collaboratore di giustizia. Tuttavia, fondano la credibilità del R. essenzialmente sul fatto che egli avrebbe consentito il ritrovamento delle armi nascoste in località (OMISSIS). Secondo la Corte, le sue dichiarazioni troverebbero riscontro nelle emergenze processuali.
Così argomentando, tuttavia, la Corte d'appello mostra di ignorare l'esito del controesame condotto nei confronti di questo soggetto. E il caso di ricordare come il "pentito" abbia mantenuto nella sua casa una pistola Taurus e alcuni bossoli 9 x 21 e come abbia negato che essi fossero stati forniti da tale p., circostanza - viceversa - emersa in corso di causa. In realtà, i predetti bossoli sono compatibili anche col mitragliatore Uzi e ciò avrebbe potuto portare sostegno alla tesi della "gestione diretta" del nascondiglio delle armi da parte del R.. In realtà, R. non è credibile quando afferma di essere stato scelto come custode delle armi, perchè ormai non più attivo nel centro sociale Gramigna, atteso che, viceversa, l'arrivo delle prime armi viene retrodatato almeno al 1997, epoca in cui il collaboratore era ancora attivo all'interno del predetto centro sociale. Ancor meno credibile è il R. quando afferma che i proiettili 7,65 trovati in suo possesso egli li avrebbe custoditi per ricordo. Invero, è risultato che lo stesso deteneva centinaia di proiettili calibro 38; ciò costituisce ulteriore prova del suo diretto utilizzo delle armi. Peraltro, è emerso incontrovertibilmente che R. ha appreso solo dall'ordinanza di custodia cautelare il fatto che i Kalashnikov, gli Uzi e la Skorpion furono trasferiti da (OMISSIS). Altre imprecisioni e contraddizioni si rinvengono nelle sue dichiarazioni, sia con riferimento alla ricerca di un luogo alternativo nel quale effettuare esercitazioni con le armi, sia circa l'orario nel quale avrebbe nuovamente nascosto le armi, dopo il loro utilizzo. Emerge allora con chiarezza l'interesse di R. a coprire sue responsabilità. Nè può essere trascurata la doppiezza della sua natura: egli si è dichiarato obiettore di coscienza, ma poi custodisce armi di ogni tipo, nonchè pubblicazioni sulle armi e abbigliamento militare; egli era dotato di metal- detector, evidentemente utilizzato per la ricerca di armi nascoste, in tempo di guerra, dai partigiani. R. si è contraddetto anche per quel che riguarda le modalità di apertura dei pannelli della sua auto Kangoo, operazione che sarebbe stata posta in essere per recuperare l'arma asseritamente nascosta nella vettura in vista del trasferimento. Ebbene, di tutto ciò non vi è traccia in motivazione; anche per quel che riguarda il ritrovamento delle armi, in realtà, la versione non è univoca, atteso che sono stati acquisite agli atti due annotazioni della Digos, dal contenuto contrastante. Nella seconda il collaboratore di giustizia non riveste alcun ruolo, nè da alcun contributo al ritrovamento delle stesse.
Nè la corte ha sciolto il "mistero" circa il ritrovamento della pistola Sigsauer, arma che figura nella banca dati delle armi sequestrate, sin dagli anni 80.1 dirigenti della Digos non hanno saputo spiegare tale inquietante circostanza e la Corte d'assise d'appello altro non ha saputo fare che parlare genericamente di un errore, atteso che agli atti dell'epoca sarebbe mancato uno specifico verbale di sequestro dell'arma predetta. Sta di fatto, tuttavia, che essa comunque risulta inserita nella banca dati e dunque non si comprende come possa essere stata poi ritrovata tra le armi del nascondiglio del R. nel 2007.
Motivi specifici relativi a B., L., S., G.:
35) illogicità di motivazione e sua contraddittorietà con particolare riferimento alla responsabilità degli altri punti del capo E), correlato al capo F), violazione dei principi in tema di prova. Emerge dalla stessa sentenza che nel cosiddetto Parco dei Fontanili in Rho non fu trovata alcuna arma; nè in quella località alcuno tra gli imputati è stato visto gestire depositi di armi. Ciò ad onta dei pedinamenti e della telecamera installata nel parco. Non si capisce dunque quale sia la logica dell'affermazione della responsabilità dei predetti imputati. Per quanto specificamente riguarda il G., e in particolare il suo ruolo di custode delle armi, non vi è alcuna prova del preteso trasporto di tale "materiale" a (OMISSIS) e del coinvolgimento del G.. Si è già detto come R. abbia appreso quale fosse la località di provenienza delle armi solo in base alla lettura dell'ordinanza cautelare. Lo stesso deve dirsi per quel che riguarda l'esplosivo C4 e il fucile mitragliatore M 16, nonchè la mitraglietta M 12. Il contenuto delle intercettazioni, per altro, dovrebbe costituire tema di prova e non una prova in sè del possesso delle armi.
Quanto al S., non si comprendere perchè debba rispondere delle armi trovate in provincia di (OMISSIS), così come non si capisce perchè gli altri debbano rispondere delle armi trovate in provincia di Torino. Circa il preteso rapporto di S. con il Kalashnikov trovato nell'orto da lui coltivato, la Corte milanese propone una motivazione, in realtà, paradossale per quei che riguarda la presenza di un capello della moglie di questo imputato su uno degli involucri contenenti le armi. Invero, il giudice di appello sostiene che non vi è motivo di dubitare del fatto che gli operanti abbiano adoperato le normali precauzioni per evitare una involontaria contaminazione, ma tali precauzioni risultano essere state assunte con riferimento alle armi recuperate a (OMISSIS), non per le armi addebitate direttamente al S.. La Corte neanche ha chiarito per qual motivo queste armi siano giunte al laboratorio di (OMISSIS), non direttamente da Torino, ma "passando" per gli uffici della Digos di (OMISSIS). Infine, con riferimento alla considerazione, formulata dalla difesa, che, nel predetto fondo anche altri avrebbero potuto accedere, la Corte sostiene che non vi è alcun motivo perchè qualcuno andasse a nascondere un'arma nell'orto dell'imputato. Ma questa evidentemente non è una motivazione degna di tal nome.
Inoltre, questo imputato è stato visto sotterrare e dissotterrare documenti, ma mai nascondere armi e ciò nonostante il fatto che fosse stata installata una telecamera per controllare l'orto. Va infine notato che l'arma, secondo la tesi d'accusa, sarebbe stata consegnata a S. da Sc., ma, per tale fatto, quest'ultimo è stato assolto.
Motivi specifici relativi al M. e C.:
36) violazione dei principi in tema di prova, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati associativi, inosservanza dell'art. 42 c.p., erronea applicazione dell'art. 306 c.p.. E' noto che la prova della partecipazione ad associazioni terroristiche non può essere desunta solo con riferimento all'adesione psicologica o ideologica al programma della predetta associazione; occorre, viceversa, la dimostrazione dell'effettivo inserimento nella struttura organizzata, attraverso condotte inequivocamente sintomatiche. Orbene, per quel che riguarda questi due imputati, la Corte non è in grado di indicare alcuna circostanza che comprovi l'effettivo inserimento non è in grado di indicare alcuna condotta concreta, relativa alle cosiddette attività preparatorie, rispetto all'esecuzione del programma o all'assunzione di un ruolo concreto nella struttura. Dal contesto delle intercettazioni, al più, si può evincere che i due imputati sarebbero stati collocati nell'ambito giovanile, con l'eventuale compito di fare proselitismo in ambito universitario. Ma, appunto, si tratta di attività meramente progettate, meglio ancora: immaginate, e non certamente poste in essere anche perchè, dopo qualche mese dalla conversazione intercettata, gli imputati furono tratti in arresto. La sentenza si basa essenzialmente sul fatto della pretesa integrazione di questi due imputati nel gruppo milanese ma, a parte il fatto, che ciò che altri dichiarano nel corso del loro dialoghi non può essere posto a base di un'affermazione di condanna della persona che nominano in detti dialoghi, resta il fatto che, a carico di questi due imputati, non emergono neanche labili indizi, perchè l'indizio deve avere quale presupposto un fatto e non un giudizio.
Neanche sono emerse circostanze che facciano ritenere che i due abbiano posto in essere particolari accorgimenti per non essere pedinati o identificati dalle forze di polizia. Al proposito sono significative le dichiarazioni del teste D.C., C. e M., dunque, non operavano in clandestinità. Quanto alla partecipazione del M. al corso di informatica che si svolse in (OMISSIS), la sua posizione appare analoga a quella dell'imputato s., assolto in primo grado. Vi è traccia di un primo viaggio in Svizzera, ma non vi è prova del fatto che questo imputato sia poi "sceso" alla stazione di (OMISSIS), nè è chiarito perchè M. (vale a dire, sulla base di quelle conoscenze pregresse) avrebbe
17-06-2012 00:00
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