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Sentenza

Si aggiudica due immobile in una esecuzione immobiliare: il giudice dell'esecuzione e' suo inquilino. Non vi e' alcun obbligo di astenzione.
Si aggiudica due immobile in una esecuzione immobiliare: il giudice dell'esecuzione e' suo inquilino. Non vi e' alcun obbligo di astenzione.
Corte di Cassazione Sez. Unite Civ. - Sent. del 11.04.2012, n. 5701

Presidente Canevari - Relatore Vivaldi

Svolgimento del processo

1. Il dr. F..P. , all'epoca dei fatti Presidente del tribunale di (…), e attualmente giudice dello stesso tribunale, è stato sottoposto al giudizio della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, a seguito di azione disciplinare promossa dal Ministro della Giustizia, con nota del 22 luglio 2010.
2. Al dr. P. è stata contestata l'infrazione disciplinare prevista dall'art. 18 r.d. lgs. 31 maggio 1946, n. 511, tipizzata dall'art. 2, comma 1, lett. e) d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, in quanto, benché legato al sig. G.A. da un rapporto di debito/credito, relativo al contratto di locazione quadriennale stipulato con lo stesso in data 31 marzo 2003, non si asteneva dallo svolgere la funzione di giudice dell'esecuzione in occasione delle vendite all'asta di due immobili avvenute in data 18 febbraio e 12 maggio 2004, in esito alle quali erano aggiudicati all'A.
3. Il magistrato, prosciolto in sede penale dal G.I.P. del tribunale di Salerno per insussistenza del reato contestato, è stato tuttavia assoggettato a giudizio disciplinare da parte della Procura Generale presso la Corte di Cassazione per violazione dell'obbligo di astensione.
4. La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza del 3 ottobre 2011 ha assolto il magistrato “per essere rimasti esclusi gli addebiti”. Nella motivazione della sentenza si afferma innanzi tutto che la violazione disciplinare non sussiste nel caso in cui per il giudice non vi sia obbligo d'astensione, per l'esistenza di rapporti di credito o debito con una delle parti ex art. 51 comma primo n. 3 c.p.c., ma solo facoltà, in presenza di gravi ragioni di convenienza. Si sostiene poi che l'esistenza di un rapporto di locazione non integra un rapporto di credito debito nel senso previsto dall'art. 51 c.p.c., perché la fattispecie da questa norma descritta non sussiste, ove il rapporto contrattuale si svolga nella fisiologica normalità, e dunque, in un rapporto di locazione, solo laddove nel termine previsto dal contratto il conduttore non provveda al pagamento del canone. Si afferma, infine, che il soggetto che partecipa all'asta per l'acquisto di beni immobili non è parte del processo e non può diventarlo, salvo che nel successivo e distinto processo ordinario di cognizione introdotto con l'opposizione agli atti esecutivi.
5. Ricorre per tre motivi il Ministero della Giustizia.
L'incolpato ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

6. Con il primo motivo il Ministero ricorrente censura per violazione di norme di diritto la sentenza impugnata, nella parte in cui fa riferimento all'assenza di gravi ragioni di convenienza, in una fattispecie in cui era stato contestato e doveva trovare applicazione l'art. 2, comma 1 lett. c d.lgs n. 109 del 2006, sussistendo l'obbligo del magistrato, e non la mera facoltà, di astenersi. Il ricorrente chiarisce di non voler contestare la possibilità, per il giudice disciplinare, di assumere una diversa qualificazione del fatto, e di escludere, anche in relazione ad una diversa qualificazione, la sussistenza dell'illecito; ma suppone che il giudice disciplinare abbia erroneamente ipotizzato che il fatto contestato costituisca un'omessa astensione in presenza di ragioni di convenienza, invece che di un obbligo legale di astensione.
Con il secondo motivo si censura per violazione di norme di diritto la decisione nella parte in cui esclude che un rapporto di locazione dia luogo a un rapporto di debito o credito, che a norma dell'art. 51 primo co. n. 3 c.p.c. rende l'astensione del magistrato obbligatoria.
Con il terzo motivo si censura per violazione di norme di diritto la decisione nella parte in cui esclude che il partecipante a una vendita senza incanto possa considerarsi parte, ai fini dell'applicabilità dell'obbligo di astensione di cui all'art. 51, primo co. n. 3 c.p.c..
7. Le censure così sintetizzate investono i tre punti decisivi che nella motivazione dell'impugnata sentenza sorreggono la conclusione, di assoluzione dell'incolpato, e possono essere esaminate congiuntamente. Esse sollevano questioni di diritto sulle quali non v'è una giurisprudenza consolidata. Le soluzioni accolte dal giudice disciplinare includono alcune affermazioni non condivisibili, o altrimenti problematiche. Ad avviso del Collegio, ciò non basta a giustificare la richiesta cassazione della sentenza; sui tre punti della motivazione investiti dal ricorso si rendono necessarie, tuttavia, delle correzioni o puntualizzazioni in punto di diritto, a norma dell'art. 384 cpv. c.p.c.
8. Occorre muovere dall'identificazione della norma sostanziale che disciplina la fattispecie di omessa astensione nel procedimento di vendita senza incanto, in cui era offerente il locatore dell'incolpato. Sebbene il fatto contestato risalga al 2004, il giudice disciplinare ha applicato l'art. 2 comma 1, lett. c), d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, sull'implicito presupposto che nella specie detta norma fosse per l'incolpato più favorevole (ex art. 32 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 cit.) dell'art. 18 r.d. lgs. n. 511 del 1946, perché essa sanziona sul piano disciplinare il comportamento omissivo del magistrato nel solo caso in cui l'astensione sia obbligatoria ex art. 51 comma primo n. 3, e non anche nel caso di astensione facoltativa per gravi ragioni di convenienza (art. 51 comma secondo c.p.c.). L'assunto può essere condiviso solo nei limiti appresso indicati.
9. Nella vigenza dell'art. 18 r.d. Igs. n. 511 del 1946, la giurisprudenza si era consolidata nel senso che, mentre nell'esercizio delle funzioni penali l'omessa astensione, d'obbligo anche ove ricorrano mere ragioni di convenienza (art. 36 lett. H del C.P.P.), integrava ex se una violazione dei doveri d'ufficio ed era pertanto sanzionabile sul piano disciplinare, salvo che le circostanze del caso facessero escludere la concreta sussistenza dell'illecito, diversamente, nell'esercizio delle funzioni soggette al rito civile, ove la ricorrenza di mere ragioni di convenienza rende l'astensione facoltativa (art. 51 c. 2 c.p.c.), l'illecito disciplinare era configurabile solo ove l'omissione dell'atto avesse inciso in una situazione tale da rendere l'astensione indiscutibilmente opportuna, al fine di scongiurare sospetti di compiacenza o parzialità nei confronti della parte (cfr. Cass. Sez. un. 16 luglio 2009 n. 16559, in motivazione). A seguito dell'emanazione del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, che ha introdotto il principio di tipicità dell'illecito disciplinare, e che all'art. 2 comma 1, lett. c) configura come illecito la consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, s'è posto il quesito se l'illecito disciplinare sia ravvisabile anche nei casi in cui l'astensione sia giustificata per ragioni di grave convenienza, posto che l'art. 51 comma 2 c.p.c. la prevede come facoltativa, sicché non potrebbe essere qualificata come un obbligo di legge.
Sebbene questo problema sia stato sfiorato ripetutamente dalla giurisprudenza, soprattutto con riferimento al connesso ma diverso caso dell'astensione del pubblico ministero, non vi sono dei precedenti puntualmente in termini di questa corte. Al riguardo il collegio osserva che l'obbligo legale di astensione del magistrato non può essere circoscritto alle ipotesi contemplate dall'art. 51, comma 1 c.p.c., giacché esiste nell'ordinamento almeno una norma penale di portata generale, che punisce il comportamento del pubblico ufficiale il quale “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto” ometta di astenersi procurando a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arrecando ad altri un danno ingiusto (art. 323 c.p.). L'illecito disciplinare di cui all'art. 2, lett. c) d.lgs n. 109 del 2006 è dunque certamente configurabile per inosservanza dell'obbligo di astensione, oltre che nei casi contemplati dall'art. 51 comma 1 c.p.c., anche nei casi in cui l'astensione è obbligatoria per qualsiasi pubblico ufficiale, senza che in ciò possa ravvisarsi un'attenuazione del principio di tipicità dell'illecito disciplinare del magistrato.
10. Il principio applicabile nella fattispecie di causa è pertanto che, ai fini dell'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1 lett. c) d.lgs. n. 109 del 2006, l'obbligo di astensione del magistrato, pur non essendo configurabile per la mera esistenza di gravi ragioni di convenienza ex art. 51 comma 2 c.p.c., sussiste non soltanto nei casi indicati specificamente dall'art. 51 comma 1 c.p.c., bensì in tutti i casi nei quali sia ravvisabile un interesse proprio del magistrato, o di un suo prossimo congiunto, a conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale o a farlo conseguire ad altri, o a cagionare un danno ingiusto ad altri.
11. Al fine di stabilire ora se, nella fattispecie in esame, vi fosse un obbligo o una facoltà di astensione deve essere scrutinata innanzi tutto l'affermazione del giudice disciplinare, che il contratto di locazione, nel suo svolgimento fisiologico - vale a dire: sempre che non vi sia inadempienza - non sarebbe fonte di un rapporto di credito o debito che, nella previsione dell'art. 51 comma 1 lett. c, c.p.c., impone al magistrato di astenersi.
L'affermazione, nella sua assolutezza, non è giustificata né dalla lettera né dalla ratio legis. Questa presidia non soltanto l'effettiva indipendenza del magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, ma, non meno, la sua credibilità agli occhi del pubblico, che di regola non è in grado di conoscere lo stato dei pagamenti nel contratto in corso. Né la formulazione letterale della norma autorizza l'indicata limitazione: altro, infatti, è un rapporto di debito o credito, di cui è menzione nell'art. 51 c.p.c., altro l'esigibilità immediata della prestazione, per non parlare della responsabilità da inadempimento.
Si può del resto pur convenire con l'opinione tradizionale più accreditata, per cui la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore. Si tratta, tuttavia, di ipotesi estremamente particolari, del tutto estranee alla fattispecie giudicata, nella quale si tratta di un comune rapporto di locazione.
12. Concludendo sul punto può affermarsi il principio che nella fattispecie delineata dall'art. 51, comma 1 lett. c) c.p.c., fuori dei casi di rapporti obbligatori del magistrato con lo Stato o altro ente pubblico cui sia collegato per ragioni di residenza, o di utenza con azienda erogatrice di servizi pubblici, il contratto, anche di durata, con una delle parti del processo vale a costituire rapporti di debito o di credito, che rendono l'astensione del magistrato obbligatoria.
13. Resta da esaminare ('ultima affermazione del giudice disciplinare, che per le premesse già fatte diventa decisiva, secondo cui l'offerente nella vendita forzata non è parte processuale, con la conseguenza che un rapporto di debito o credito del magistrato con il partecipante alla gara non costituisce per il primo causa di astensione obbligatoria a norma dell'art. 51 comma 1 lett. c) c.p.c. La questione presenta un profilo duplice: essa investe la nozione di parte nella formulazione dell'art. 51, comma 1 c.p.c., se, cioè, riferita alla parte di un procedimento contenzioso o anche giurisdizionale in senso lato; e sollecita l'identificazione e l'esatta qualificazione delle parti nel processo esecutivo.
14. In ordine al primo dei quesiti indicati, si ritiene che, sebbene il processo esecutivo non costituisca, secondo l'opinione tradizionale più accreditata, esercizio di giurisdizione in senso stretto - sul punto si dovrà tuttavia tornare - la collocazione dell'art. 51 nella parte generale del codice di rito induce a un'interpretazione estensiva, peraltro giustificata dalla genericità della formulazione letterale. L'applicabilità del principio non può ritenersi preclusa per il solo fatto che nel processo esecutivo, avente una struttura unilaterale (Cass. 17 luglio 2009 n. 16731), non vi è un contraddittorio in senso tecnico (Cass. 28 giugno 2005 n. 13914). La norma sull'astensione è espressione del giusto processo (art. 111 Cost.), e deve trovare applicazione anche nel processo esecutivo, tenuto conto del collegamento di questo con la giurisdizione contenziosa in senso stretto, di cui esso deve garantire l'effettività. Tuttavia, poiché le garanzie costituzionali non sono identiche per ogni tipo di processo, dovendo adattarsi all'oggetto, alla struttura e alla finalità di ciascuno di essi, si tratta di stabilire in qual modo il principio della imparzialità - terzietà del giudice trovi applicazione nel processo esecutivo.
15. Si viene così al secondo dei quesiti indicati al n. 13. È indubbio che nel processo esecutivo, di fronte al creditore procedente, unico soggetto munito di azione, v'è necessariamente un debitore assoggettato all'attività esecutiva. Tra questi soggetti v'è un conflitto che ha natura strutturale, essendo immanente all'espropriazione forzata in quanto tale: all'azione esecutiva del primo, intesa all'integrale e sollecita soddisfazione del credito si contrappone l'interesse del secondo a massimizzare il prezzo di vendita. La dottrina più sensibile a questo tema ha osservato che l'esigenza d'imparzialità del giudice dell'esecuzione si avverte proprio nel regolamento di questo conflitto, che ha luogo nell'esercizio del potere di decidere sui tempi e sui modi della vendita, momento indefettibile del processo. Vi è qui, a comporre il contrasto fisiologico tra il diritto dei creditori all'espropriazione e il diritto di proprietà del debitore, un potere regolatore del giudice. Ai limitati fini dell'applicabilità dell'art. 51, comma 1 c.p.c., dunque, il debitore e i creditori procedente e intervenuti devono ritenersi parti del processo esecutivo.
Poiché, tuttavia, il processo esecutivo si articola in una serie di procedimenti, in ciascuno dei quali possono essere presenti altri soggetti, titolari di propri interessi, si tratta di vedere se, accanto ai soggetti già indicati, ve ne siano altri, per i quali si delinei l'esigenza di applicare la disciplina dell'astensione obbligatoria. Al riguardo deve tenersi conto della diversa natura e incidenza del ruolo del giudice in ciascuno di questi procedimenti, inerendo al ruolo medesimo, quale dato comune, soltanto la direzione (art. 484 c.p.c.: è richiamato l'art. 175 c.p.c.), e l'immutabilità del giudice (art. 174).
16. Un conflitto con le medesime caratteristiche sopra delineate non è ravvisabile nei rapporti con coloro che presentano offerte di acquisto nella vendita forzata. Essi sono bensì titolari di interessi propri, meritevoli di tutela, che però, salvo il caso d'incapienza, non si contrappongono a quello dei creditori partecipanti all'espropriazione, a una sollecita e proficua liquidazione dei beni del patrimonio del debitore; e non si contrappongono necessariamente neppure all'interesse del debitore, a che il bene sia venduto al prezzo più alto possibile, più di quanto ciò non avvenga nella contrattazione che precede una qualsiasi vendita, fuori del processo esecutivo. Neppure sarebbero configurabili degli interessi sostanziali conflittuali, che si esprimerebbero nel processo, tra i diversi partecipanti alla gara, i quali sono interessati solo al regolare svolgimento di essa, come lo sono in una qualsiasi gara che si svolga davanti ad organi della pubblica amministrazione. Si tratta di interessi che si pongono su un piano giuridico sostanziale, ma non conferiscono a detti soggetti la qualità di parte processuale, neppure in senso lato, se non dal momento in cui si manifesti un conflitto con altri soggetti della vendita forzata: momento, peraltro, che può anche precedere l'instaurazione di una formale opposizione agli atti esecutivi.
17. Ai fini che qui interessano, indicazioni significative si traggono dagli artt. 532 (vendita mobiliare tramite commissionario), 534 bis (delega delle operazioni di vendita mobiliare) e 591 bis c.p.c. (delega delle operazioni di vendita immobiliare). Sebbene di tali norme solo la prima fosse vigente nel testo attuale al momento del fatto per il quale si procede, non par dubbio che gli sviluppi della legislazione - e, in particolare, le innovazioni introdotte con gli artt. 2 d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv. con mod. dalla l. 14 maggio 2005 n. 80, e 1 l. 28 dicembre 2005 n. 263 - esprimano una chiara presa di posizione del legislatore in ordine al carattere non giu-risdizionale in senso proprio di operazioni che, almeno nell'espropriazione mobiliare, potevano essere già svolte da soggetti diversi dal giudice.
Le novelle sopra citate erano state precedute da un ampio dibattito. Per apprezzarne appieno il significato va ricordato che, secondo un'autorevole dottrina, la facoltà di delegare le operazioni di vendita al notaio poteva essere esercitata già prima, in forza dell'art. 68 c.p.c. e dell'art. 1, n. 4, lett. c della legge notarile, e che la norma si spiegava considerando che le operazioni concernenti gli incanti non costituiscono attività di ius dicere. Esse non attengono, cioè, a quel nucleo ristretto in cui da sempre è stata individuata l'attività giurisdizionale che è riservata necessariamente ai giudici; ma costituiscono attività di mera “amministrazione giudiziaria” e, specie dopo l'emanazione del c.p.c. del 1942, che ha liberato il processo di espropriazione forzata dalle forme proprie della cognizione, come tali ben possono essere delegate dal giudice a propri ausiliari (senza pregiudizio, peraltro, per la loro natura giurisdizionale in senso lato, in quanto inserite in un contesto procedimentale diretto a fare conseguire all'avente diritto il bene della vita assicuratogli dalla legge sostanziale). Nel dibattito dottrinale tra sostenitori e avversari delle proposte di modifiche della disciplina dell'espropriazione forzata, era comune la consapevolezza che la delega al notaio dell'incanto implicava la “degiurisdizionalizzazione della fase liquidativa del processo”; e, per i sostenitori della riforma, non esisteva alcuna contraddizione o incompatibilità nel devolvere al notaio-ausiliare del giudice il compimento di attività che, pur avendo natura lato sensu giurisdizionale nel senso già ricordato, non attengono allo ius dicere, cioè alla concretizzazione della norma generale e astratta riguardo al concreto diritto azionato.
La riforma del 2005 è poi andata ben oltre i termini di quel dibattito valorizzando, per il compimento delle operazioni di vendita, professionalità per sé prive di connotazioni pubbliche, come quelle degli avvocati e dei revisori dei conti. In questo contesto normativo, sembra estremamente difficile la riproposizione di tesi, in passato pure sostenute, che qualifichino l'offerente nella vendita forzata quale parte del processo, configurando l'offerta medesima alla stregua di una domanda giudiziale, sulla quale sarebbe richiesto un provvedimento del giudice; e la difficoltà si manifesta in modo emblematico quando, come nella fattispecie di causa, le domande di partecipazione alla vendita siano segrete.
A tanto non si giungerebbe neppure se volesse qualificarsi l'interesse dell'offerente in termini di diritto soggettivo, se si considera che, nella giurisprudenza di questa corte, non è parte del processo esecutivo neppure l'acquirente per contratto di un immobile che sia stato già oggetto di pignoramento (Cass. 29 marzo 2006 n. 7141). Si vuoi dire che la titolarità di posizioni soggettive tutelate dall'ordinamento non basta a conferire la qualità di parte a chi ne sta titolare, sin quando quella posizione non sia messa in discussione; sin quando, cioè, non sorgano difficoltà dovute a contrasti tra i partecipanti alle operazioni, su cui oggi il giudice è chiamato a decidere ex artt. 534 ter e 591 ter c.p.c.: ciò che però, diversamente dall'ordinanza di vendita, è soltanto eventuale. A questo riguardo è necessario aggiungere che, in coerenza con le osservazioni che precedono, il potere discrezionale del giudice dell'esecuzione di negare l'aggiudicazione all'unico offerente per un prezzo pur superiore a quello di stima, nei casi già contemplati dall'art. 572, commi secondo e terzo c.p.c. nel testo vigente ratione temporis, e di disporre il pubblico incanto, in tanto avrebbe assunto rilievo nella presente fattispecie, in quanto fosse stato sollecitato dalla parte interessata, che nella previsione esplicita della disposizione era solo il creditore partecipante all'espropriazione, o anche dal debitore, creando in ogni caso un contrasto con le aspettative dell'offerente, sul quale il giudice dell'esecuzione si sarebbe dovuto pronunciare.
Pare in definitiva al Collegio che la qualificazione della posizione degli offerenti, nella vendita forzata, non potrebbe essere diversa per il fatto che le relative operazioni si svolgano davanti allo stesso giudice dell'esecuzione, o davanti a un commissionario o a un delegato, al quale, nella vendita forzata immobiliare, può essere riservata fa deliberazione sull'offerta a norma dell'art. 572 o l'aggiudicazione dell'immobile a norma dell'art. 581 c.p.c..
18. Con ciò non si vuoi negare che, anche prima che emerga un contrasto, sussista l'esigenza di garantire l'estraneità personale del giudice dell'esecuzione all'esito del procedimento di vendita forzata; tal esigenza è all'origine della norma che vieta a tutti i pubblici ufficiali, a pena di nullità dell'atto, di essere compratori, sia pure all'asta pubblica, direttamente o per interposta persona, dei beni venduti per loro ministero (art. 1471, comma 1 n. 2 c.c.). Ma è proprio il carattere generale della norma - la quale tra i pubblici ufficiali include certamente, oltre al giudice, anche il cancelliere e l'ufficiale giudiziario e, nel caso di ufficio unico di esecuzione, tutti gli ufficiali giudiziari dell'ufficio medesimo (Cass. 2 aprile 1963 n. 806) - che mostra come il problema dell'imparzialità non si ponga qui propriamente nei confronti delle parti di un processo, ma di soggetti, anche terzi, i cui interessi sono coinvolti e potenzialmente incisi dal processo, e che trovano tutela in una regola non processuale, si che l'art. 51 comma primo c.p.c. rimane fuori campo.
Un obbligo di astensione sarebbe invece ravvisabile, per il giudice come per qualsiasi altro pubblico ufficiale - e segnatamente, per quel che qui interessa, per il commissionario, o per il notaio, l'avvocato o il revisore dei conti delegati alle operazioni di vendita - laddove ricorrano gli elementi materiali della fattispecie di cui all'art. 323 c.p., che nella fattispecie in esame il giudice disciplinare ha espressamente escluso, dopo che vi era già stato un proscioglimento in sede penale.
Resta invece affidata al prudente apprezzamento del capo dell'ufficio, e ancor prima del magistrato che chieda di avvalersi della facoltà di cui all'art. 51 comma secondo c.p.c., la valutazione delle gravi ragioni di convenienza per astenersi, derivanti dal rapporto esistente tra il giudice dell'esecuzione e i singoli offerenti nella vendita forzata. Ma il mancato esercizio di quella facoltà, come si è detto al principio, non configura l'illecito disciplinare in esame.
19. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, non essendosi l'impugnata sentenza di fatto discostata dal principio, che deve trovare applicazione nella fattispecie, per il quale, ai fini della responsabilità disciplinare del giudice per inosservanza dell'obbligo di astensione, ex art. 2 comma 1, lett. c), d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, non sono parti del processo esecutivo, nel senso postulato dall'art. 51 comma primo n. 3 c.p.c., coloro che presentano offerte nella vendita forzata, se non dal momento in cui si manifesti un contrasto - ancorché non formalizzato in opposizione agli atti esecutivi - in cui siano coinvolti e per il quale sia richiesto l'intervento regolatore del giudice dell'esecuzione.
20. La novità delle questioni sollevate dal ricorso giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Depositata in Cancelleria il 11.04.2012
Avv. Antonino Sugamele

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