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Sentenza

Riconoscimento dello status di rifugiato: si al clandestino che fugge dal suo paese perché perseguitato per motivi religiosi
Riconoscimento dello status di rifugiato: si al clandestino che fugge dal suo paese perché perseguitato per motivi religiosi
Corte di Cassazione Sez. Sesta Civ. - Sent. del 16.02.2012, n. 2294
Presidente Salmé Relatore Ragonesi

 

Svolgimento del processo
Con sentenza dei giorni 16.7/15.11.2010, il Tribunale di Palermo rigettava l'opposizione, proposta dal cittadino ghanese M.I. avverso il provvedimento, emesso il 21 luglio 2009 (notificato il 26 agosto 2009) dalla Commissione Territoriale di Trapani, col quale era stata rigettata la sua istanza diretta al riconoscimento della protezione internazionale da lui avanzata allegando di esser stato costretto ad espatriare per il timore di essere ucciso dagli appartenenti alla sua comunità per motivi di carattere tribale o religioso.
Il primo giudice rilevava, per quanto in questa sede interessa, che il riconoscimento dello “status” di rifugiato era accordato soltanto nei casi di persecuzioni, dirette e personali, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un dato gruppo sociale e per le opinioni politiche, evenienze che non ricorrevano nella specie, non essendo stata dimostrata, peraltro, neppure in via indiziaria, la temuta minaccia di morte riferita dal ricorrente, laddove poi in ogni caso, quand'anche fosse stato ritenuto sussistente un reale pericolo, il richiedente avrebbe avuto pur sempre la possibilità di spostarsi in altra regione del Paese distante dal luogo di origine. La risalenza al 2007 dei fatti narrati dall'interessato, infine, costituiva giusto motivo per presumere che gli abitanti del luogo avessero rinunciato a perseguitare il richiedente.
Il Tribunale escludeva, pure, che sussistessero i presupposti per la protezione sussidiaria non potendo l'allegata minaccia ritenersi derivare da “violenza indiscriminata In situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Anche il diritto di asilo costituzionale veniva escluso per mancanza dei relativi presupposti e comunque, per l'avvenuto riconoscimento di forme di protezione minori quali il rilascio del permesso di soggiorno provvisorio in attesa dell'accertamento dei requisiti per il riconoscimento del relativo status ed il divieto di espulsione nelle more.
Il Tribunale, per finire rigettava anche la richiesta di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari osservando che i fatti narrati avevano natura privatistica e tribale, mentre il tipo di protezione in questione riguardava un pericolo attuale di carattere oggettivo nel paese d'origine.
Avverso detta sentenza il M. proponeva reclamo, con atto del 13 dicembre 2010, e, con separata istanza del 7 gennaio 2011, chiedeva la sospensione degli effetti della sentenza impugnata.
Con ordinanza dei giorni 1/11.4.2011 la Corte d'appello di Palermo sospendeva l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, e con separato provvedimento di pari data - emesso nel procedimento principale - disponeva l'acquisizione di chiarimenti (costituiti da una traduzione in lingua italiana di una dichiarazione del 10 maggio 2010 a firma di tale K.A. prodotta in lingua inglese, e da informazioni sull'identità di tale persona).
La Corte d'appello di Palermo, con sentenza 73/11, rigettava il gravame.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il M. sulla base di quattro motivi cui resiste con controricorso il Ministero dell'Interno.

Motivi della decisione

Col primo motivo l'appellante lamenta l'erroneità del rigetto della doglianza secondo cui il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale non era stato redatto e comunicato nella lingua chiesta dall'interessato.
Con il secondo motivo deduce che la Corte di appello di Palermo (al pari del Tribunale di Palermo) ha errato nell' aver rigettato sia la domanda di protezione internazionale diretta al riconoscimento della status di rifugiato di cui all'art. 11 del decreto legislativo n. 251 del 19.11.07, sia quella di protezione sussidiaria di cui al successivo art. 17 del decreto in esame e sia, in via ancor più subordinata, la domanda, pure formulata in ricorso, diretta al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari al sensi dell'art. 5, comma 6, del decreto legislativo n. 286 del 25.07.98 .
Con il terzo motivo ribadisce che la Corte di appello di Palermo ha errato nell'aver rigettato (oltre a quelle di protezione internazionale e sussidiaria) la domanda di protezione umanitaria pure avanzata dal ricorrente in via ancor più subordinata.
Con il quarto motivo lamenta la contraddizione in cui è incorsa la Corte di appello di Palermo che, da una parte, ha ritenuto complessivamente verosimile quanto denunciato da esso ricorrente, dall'altra, ha però rigettato il reclamo per la non sussistenza di situazioni di pericolo personale e diretto comunque non ricollegabili alla situazione generale del Paese di origine in violazione dell'art. 115 c.p.c.
Il primo motivo è infondato.
L'obbligo di traduzione del provvedimento assunto dall'amministrazione nei confronti dello straniero nella lingua di quest'ultimo o in una delle tre lingue veicolari è previsto dall'art 13 comma 7 TUI solo per i provvedimenti di espulsione ovvero per quelli che concernono l'ingresso o il soggiorno sul territorio nazionale ma non anche per i provvedimenti relativi al riconoscimento dello status di rifugiato che è disciplinato da una differente normativa e che di per sé non implica direttamente provvedimenti concernenti l'espulsione od il soggiorno.
La disposizione dell'art 13 comma 7 TUI, costituendo una norma di carattere eccezionale che deroga al principio generale secondo cui gli atti della pubblica amministrazione Sono redatti in lingua , non è suscettibile di interpretazione estensiva.
Il fatto che il provvedimento amministrativo emesso per il riconoscimento o il diniego dello status di rifugiato non necessiti di traduzione lo si deduce con tutta certezza dall'art 32 del dlgs n. 15 del 2008 che prevede che” la Commissione territoriale adotta una delle seguenti decisioni: a) riconosce lo status di rifugiato o lo protezione sussidiaria, secondo quanto previsto dagli
articoli 11 e 17 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, b) rigetta la domanda qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale fissati dal decreto legislativo 19 novembre 2007. n 251, o ricorra una delle cause di cessazione o esclusione dalla protezione internazionale previste dal medesimo decreto legislativo, ovvero il richiedente provenga da un Paese di origine sicuro e non abbia addotto i gravi motivi di cui al comma 2 “.
A tale proposito basta osservare che l'art 9 del d.lgs n. 15 del 2008 che disciplina il procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato prevede soltanto che le decisioni sulle domande di protezione internazionale sono comunicate per iscritto e che la decisione con cui viene respinta una domanda è corredata da motivazione di fatto e di diritto e deve recare le indicazioni sui mezzi di impugnazione ammissibili, senza che venga fatto alcun accenno alla eventualità di una traduzione del provvedimento nella lingua conosciuta dal richiedente.
Ulteriore conferma la si ricava dagli articoli da 12 a 15 del citato decreto legislativo che disciplinano le modalità del colloquio personale che la Commissione territoriale deve tenere con il richiedente nel corso del quale e prevista la presenza di un interprete ( v. art 15) e che si conclude, ai sensi dell'art 14 del decreto legislativo in esame, con la redazione di un verbale che è sottoscritto dall'interessato al quale ne viene rilasciata copia e che contiene le informazioni di cui all' articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251.
Anche in questo caso la norma non prevede che il verbale debba essere tradotto nella lingua nota al richiedente.
Deve quindi conclusivamente escludersi che il provvedimento di rigetto del riconoscimento dello status di rifugiato debba essere tradotto nella lingua nota al ricorrente.
Da ultimo va osservato, come correttamente affermato dalla Corte d'appello, che il decreto della Commissione territoriale è stato notificato alla presenza di un interprete e comunque lo stesso è stato tempestivamente impugnato dal ricorrente onde lo stesso ha pienamente esercitato il proprio diritto di accesso all'autorità giudiziaria e non ha quindi subito alcun pregiudizio sotto tale profilo onde non ha neppure interesse a sollevare siffatta censura.
Il secondo ed il quarto motivo presentano aspetti di connessione per cui possono essere trattati congiuntamente.
Gli stessi si rivelano fondati nei termini qui di seguito esposti.
La Corte d'appello, per accertare la veridicità e l'attendibilità delle circostante esposte dal ricorrente a fondamento delle proprie istanze di protezione internazionale, ha fatto applicazione del regime delI'onere della prova previsto nell' art 3 del D.Lgs. n. 251 del 2007, che stabilisce che, se il
richiedente non ha fornito la prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova vengono ritenuti comunque veritieri se: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) è stata fornita un'idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi, le dichiarazioni rese sono coerenti e plausibili e correlate alle informazioni generali e specifiche riguardanti il suo caso; c) il richiedente ha presentato la domanda il prima possibile o comunque ha avuto un valido motivo per tardarla; d) dai riscontri effettuati il richiedente è attendibile.( v Cass. 6879/11)
Sulla base di tali principi in tema di prova la Corte d'appello ha riscontrato attendibili gli assunti del ricorrente secondo cui questi era stato scelto, da tale N.A. (capo del villaggio di Dormaa Ahenkro, nel distretto di Donnaa, nella regione del Brong Ahafo. sul lato ovest del Ghana, a 15 km. dalla Costa d'Avorio ), subentrato al precedente capo deceduto N.A., insieme ad una delegazione della popolazione locale, quale parente (particolarmente legato al defunto) destinato ad essere sacrificato durante i funerali per purificare al precedente capo defunto la strada per l'al di là”, e per
mantenere con lo stesso un rapporto ultraterreno . Un componente della delegazione di Dormaa, tale K.A a questo punto lo avrebbe allertato sull'imminente pericolo, e la polizia locale, a sua volta informata dal M. di quanto stava per essere perpetrato, si sarebbe limitata a consigliargli di fuggire
perché i sacrifici umani rientrano nella tradizione di ogni singola regione e non determinano violazione deIle norme dello stato ghanese. Con la fuga il M. sarebbe divenuto un nemico della sua famiglia e dell'intera sua etnia e rischierebbe perciò di essere ucciso anche se ormai, probabilmente, qualcun altro dovrebbe esser stato sacrificato in sua vece durante la cerimonia funebre del capo villaggio deceduto.
Sulla base di tali fatti così accertati la Corte d'appello ha poi escluso la ricorrenza delle condizioni per l'applicazione dello status di rifugiato ed anche quelle per il riconoscimento della protezione sussidiaria su Ila base di due valutazioni .
La prima è che il sacrificio funerario sarebbe dovuto avvenire nel 2007 e che ormai, dato il tempo trascorso, doveva presumersi che altra persona avesse preso il posto del M. e che per questo residuava, quindi, il pericolo di essere ucciso per una vendetta nei suoi confronti del gruppo tribale e della sua famiglia e che pertanto, non trattandosi più di un rito tribale, la polizia non dovrebbe rifiutare la propria protezione.
La seconda è che, essendo il rischio di essere ucciso per motivi religiosi legato alla appartenenza della famiglia del M. alla etnia B. che rappresenta circa l'8% della popolazione complessiva del Ghana localizzata in un territorio specifico, il ricorrente avrebbe potuto recarsi a vivere in un'altra regione del paese senza incorrere in rischi.
Quest ‘ultima motivazione non appare conforme al dettato normativo. Occorre rammentare che l'articolo 8 della direttiva 2004/83/CE recante norme sulla qualifica di rifugiato e sulla protezione minima riconosciuta prevede che “Nell ‘ambito dell'esame della domanda di protezione internazionale, gli Stati membri possono stabilire che il richiedente non necessita di protezione internazionale se in una parte del territorio del paese d'origine egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi e se è ragionevole attendere dal richiedente che si stabilisca in quella parte del paese.
Nel valutare se una parte del territorio del paese d'origine è conforme al paragrafo 1, gli Stati membri tengono conto delle condizioni generali vigenti in tale parte del paese nonché delle circostanze personali del richiedente all'epoca della decisione sulla domanda”.
La norma in esame della direttiva lascia dunque agli stati membri la facoltà se trasporla o meno nel proprio ordinamento (gli Stati membri possono stabilire), nel caso dell'Italia, la attuazione della direttiva è avvenuta tramite il decreto legislativo n. 251 del 2007 che non ha ripreso la disposizione dell' art 8 della direttiva.
Ciò significa che quella disposizione non è entrata nel nostro ordinamento e non costituisce dunque un criterio applicabile al caso di specie, conseguentemente la Corte d'appello non poteva avvalersi di tale criterio, che prende in considerazione la possibilità del richiedente lo status di rifugiato di trasferirsi in altra regione del proprio paese, per escludere la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato ovvero la protezione sussidiaria o altre fanne di protezione ave fossero esistenti i requisiti per qualcuno dei detti riconoscimenti.
Quanto alla prima motivazione, l'argomento usato dalla Corte d'appello non appare logicamente coerente. Se è vero, infatti, che il pericolo in cui si trovava il ricorrente non è più quello di essere sacrificato nel corso del rito funerario, è tuttavia pur vero che il rischio di venire ucciso permane in ragione di una vendetta familiare e tribale conseguente al proprio rifiuto di sacrificarsi nel rito funebre. ln tale contesto non può coerentemente affermarsi che la polizia del Ghana dovrebbe ritenersi in grado di assicurare la dovuta protezione potendo invece ritenersi che anche la vendetta familiare rientri nel contesto della ritualità tribale. L'assunto della Corte d'appello appare quindi puramente ipotetico e come tale non sorretto da un adeguato supporto logico oltre a non essere basato su alcun elemento di fatto idoneo a supportarlo.
I motivi in questione vanno pertanto accolti nei limiti di cui in motivazione con assorbimento del terzo motivo.
La sentenza impugnata va quindi cassata in parte qua con rinvio anche per le spese alla Corte d'appello di Palermo in diversa composizione.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il quarto nei limiti di cui in motivazione, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata nei limiti delle doglianze accolte e rinvia anche per le spese alla corte d'appello di Palermo in diversa composizione.

Depositata in cancellerai il 16.02.2012
Avv. Antonino Sugamele

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