Nella bancarotta fraudolenta l'amministratore di fatto risponde solo solo se ha posto in essere atti tipici di gestione
Cassazione, sez. I, 9 febbraio 2012, n. 5063
(Pres. Giordano – Rel. Caprioglio)
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza della Corte d'appello di Milano in data 17.12.2009 veniva concluso il processo di rinvio a seguito di annullamento della Corte di cassazione (disposto con sentenza 23.10.2008), nei confronti di G.M...L. , C.M. , già amministratori della snc M. G. dichiarata fallita il (omissis), nonché di S.S. , B.A. e D.R. , amministratori in tempi diversi della società IMI, anch'essa dichiarata fallita il (omissis) sempre dal Tribunale di Busto Arsizio.
L'ipotesi d'accusa muoveva dalla ritenuta costituzione della società IMI per cagionare il fallimento del M., con coinvolgimento a titolo diretto, o di concorso, di tutti i prevenuti; in sostanza veniva ritenuto che fosse stato posto in atto un piano finalizzato alla fraudolenta spoliazione del M., con un'illecita utilizzazione dei beni e dei contratti ad esso facenti capo, a vantaggio di IMI, che costituiva il perno dell'operazione di svuotamento del M., gestita in comune con C. , D. e S. , essendo stato travasato il patrimonio aziendale del M. G. in IMI. A comprova, erano stati indicati i prelievi di somme per un ammontare complessivo superiore al miliardo di lire, dalle casse del M., operati dalla G. quale amministratore unico; la locazione di un capannone ove si svolgeva l'attività del M. ad IMI per l'importo semestrale di 25 milioni di lire e l'affitto di azienda sempre ad Imi per l'importo di 60 milioni di lire semestrali, valori giudicati assolutamente incongrui, ma soprattutto non sostenibili da IMI; la distrazione sempre tramite Imi di 179 milioni di lire, quali importi di fatture pagate a M. e la dissipazione di oltre 80 milioni di lire per affitti non pagati da IMI; la prosecuzione dell'attività, nonostante lo stato di decozione, con conseguente mancato pagamento dei contributi previdenziali dei dipendenti e senza provvedere all'accantonamento delle somme a titolo di TFR.
La corte di Cassazione, avanti a cui era stata impugnata la sentenza di condanna della Corte di appello di Milano che aveva riformato la sentenza in parte assolutoria del Tribunale di Busto Arsizio, rilevava la nullità del decreto di citazione a giudizio in secondo grado della G. e per gli altri imputati sottolineava che nessuno fu amministratore di diritto della snc M., visto che B. aveva amministrato IMI dopo la sua cessione ed era estranea al M., C. era semplicemente il marito di G. , sola amministratrice della società in discorso, D. era stato procuratore, mentre S. risultava estraneo a qualsivoglia incarico in detta compagine sociale. Con il che, per ritenerli amministratori di fatto occorreva la dimostrazione di un atto tipico di gestione, non solo ma era necessario provare che gli inadempimenti di IMI fossero voluti in una con i gestori del M., in accordo implicante il vantaggio Imi, in danno del M., circostanza che non era stata adeguatamente provata, ma solo presunta.
In sede di rinvio, veniva ritenuta certa la responsabilità distruttiva della G. che aveva operato i prelievi di cassa ed aveva indebitamente utilizzato un finanziamento di mezzo miliardo di lire, nonché per l'attività progressiva di svuotamento della società a favore di IMI. Quanto alle altre posizioni, C. e D. venivano ritenuti non portatori di interessi personali ed intervenuti solo occasionalmente nell'accettata attività fraudolenta, con il che venivano assolti, mentre S. e B. , succedutisi nella carica di amministratore unico di IMI, venivano ritenuti concorrenti nell'attività distrattiva a danno di M. che travasò i cespiti in IMI, sul presupposto che, quando una società si libera del suo patrimonio in favore di altra e distinta impresa, si è di fronte ad un'operazione di dissolvimento della prima, ancorché venisse escluso un comune e generalizzato piano finalizzato alla fraudolenta sottrazione. Poiché alla B. venivano concesse le circostanze attenuanti generiche, così da portare a ritenere prescritto il reato, veniva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti, mentre il S. veniva condannato alla pena di anni tre di reclusione, oltre pene accessorie.
Tra le righe la Corte territoriale milanese opinava nel senso che non fossero applicabili i nuovi termini di prescrizione (più favorevoli agli imputati), avendosi riguardo a procedimento che già si trovava in fase di appello al momento della sua entrata in vigore ed essendo a tal fine irrilevante il successivo annullamento operato dalla Corte di Cassazione.
2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione la difesa dell'imputato, sviluppando quattro motivi di ricorso, con cui viene dedotto:
2.1 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla ritenuta bancarotta per distrazione ed inosservanza dell'art. 627 c. 3 cod.proc.pen. S. fu coinvolto nell'amministrazione della IMI per soli quattro mesi che andarono dal 26.5.1992 al 14.9.1992 e fu estraneo alla gestione M.. Secondo la difesa la Corte di cassazione aveva stimolato a maggiormente individualizzare il ruolo di gestore di fatto attribuito al S. , ma il giudice del rinvio ha lasciato indimostrata, sia sotto l'aspetto probatorio che sotto quello motivazionale, la natura di amministratore di fatto ricondotta all'imputato, rimuovendo la questione posta dal giudice di legittimità, anziché risolverla. In sostanza la Corte aveva sollecitato a riscontrare nella condotta tenuta dall'imputato un'influenza causale sul verificarsi dell'evento per constatare se il compartecipe avesse agito con consapevolezza della qualifica del soggetto principale e con coscienza e volontà di aderire al fatto di bancarotta. Ma dagli atti risulterebbe che S. non fu mai amministratore di fatto, rivestì una carica svuotata di poteri, non operò mai con atti tipici di gestione. Ed infatti nulla collegherebbe S. alla costituzione di IMI quale contenitore delle attività di M.; le operazioni contabili di svuotamento di M. a vantaggio di IMI furono successive all'uscita di S. , mentre le fatture dell'anno 1992, pari a circa otto milioni di lire, si riferiscono ad acquisti di materiale di consumo; l'importo dissipato per il mancato pagamento dei canoni di locazione attiene ad operazioni successive alla sua uscita; i capitali prelevati da G. sono estranei alla posizione del ricorrente; la stipula dei contratti di affitto e locazione tra IMI e M. rientravano nella logica della compensazione per il maggior prezzo di acquisto dell'immobile e comunque l'autore dell'operazione fu il M. . La condanna suona quindi, ad opinione della difesa, del tutto priva di motivazione adeguata.
2.2 mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, con riguardo alla condanna per il reato di bancarotta impropria per inosservanza art. 627 c. 3, cod.proc.pen. Anche sul punto la difesa rileva che il dictum della Corte non è stato seguito, posto che l'estraneo alla gestione - è stato detto - deve risultare consapevole della possibilità di risultato delle operazioni incriminate a questo diverso titolo e soprattutto in riferimento al mancato pagamento dei contributi ed al mancato accantonamento a titolo di TFR per i dipendenti, per cui deve dimostrarsi quanto meno l'accettazione del rischio del fallimento.
2.3. Erronea applicazione della legge penale, in relazione alla mancata dichiarazione di prescrizione del reato. La difesa fa rilevare che per il S. la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, intervenuta il 4.4.2000 fu di assoluzione e che il decreto di citazione in giudizio per l'appello interposto dal Pm intervenne il giorno 8.3.2007, quindi un anno dopo l'entrata in vigore della L. 251/2005: il concetto di pendenza riferibile alla sentenza di condanna non può essere esteso alla sentenza di assoluzione di primo grado, poiché questa sentenza non rientra tra gli atti interruttivi ex art. 160 cod. pen. della prescrizione, con la conseguenza che va ritenuto atto interruttivo il decreto di citazione ex art. 601 cod.proc.pen.. In proposito viene richiamato anche l'arresto delle Sez. Unite 29.10.2009, n. 47008, con cui è stato statuito che il divieto di applicazione dei termini di prescrizione in favore del giudicato scatta solo a partire dall'emissione del decreto di citazione in appello e questo in perfetta coerenza con quanto già affermato dalla Corte Costituzionale 393/2006. Pertanto nel caso di specie andava applicata la disciplina della prescrizione più recente e più favorevole ed andava dichiarata l'estinzione dei reati ascritti al S. .
2.4. Omessa e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche: sarebbero state negate le attenuanti sulla base del solo dato che il S. era gravato da precedenti penali specifici, quindi non sulla base di argomentazione articolata che tenga conto dei fatti accertati e della personalità del reo, nonché del lungo tempo trascorso dalla vicenda in esame.
Considerato in diritto
Deve essere detto preliminarmente osservato che nelle more della celebrazione del presente processo questa Corte, a Sezioni Unite, con sentenza del 24.11.2011, in corso di pubblicazione, ha affermato il principio che, ai fini dell'operatività delle disposizioni transitorie della legge di modifica dei termini di prescrizione dei reati, la pronuncia della sentenza determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli, anche quando è di assoluzione. A fronte di tale precisazione intervenuta su un punto oggetto di contrasto, deve esser rigettato il motivo di ricorso sub 2.3, dovendosi nel caso di specie calcolare il termine di prescrizione del reato di bancarotta contestato, alla luce della precedente normativa, meno favorevole all'imputato, che prevede un termine di quindici anni, estensibile ex art. 160 cod.pen., fino ad anni ventidue e mesi sei.
Ciò detto, va subito rilevato che sono invece fondati gli altri motivi del ricorso indicato sub 2.1 e 2.2, assorbenti l'ultimo motivo dedotto.
Sulla posizione del S. va ricordato che nel primo giudizio avanti al tribunale di Busto Arsizio era stato escluso che avesse operato in termini significativi a livello di gestione, atteso che era stato amministratore di diritto soltanto dal 26.5.1992 al 14.9.1992 e che nel corso di tale intervallo non risultava avesse compiuto atti di gestione in senso stretto, il che portava a ritenere che non avesse operato come gestore di fatto della società nel periodo successivo, visto che gli unici effettivi titolari degli interessi economici facenti capo alla società, erano M.A. e B.A. , a cui andava ricondotta l'amministrazione della società poi fallita. A seguito del ribaltamento della decisione in secondo grado, la Corte di cassazione annullava la sentenza premettendo come il S. risultasse estraneo a qualsiasi incarico diretto per conto del M. ed imponeva un più rigoroso esame della posizione, sollecitando la indicazione degli atti tipici di gestione condotti e tali da configurare un'amministrazione di fatto, nonché l'esplicitazione del contributo obiettivo offerto a decisioni altrui, nella consapevolezza delle implicazioni della condotta tipica del soggetto qualificato, mettendo in guardia dalla doppia presunzione, che porta ad eludere il dovere di rispondere secondo le regole del concorso di persone nel reato proprio altrui.
I giudici del rinvio, nel richiamare nel dettaglio le precedenti vicende processuali, hanno apoditticamente concluso che il S. fu l'ispiratore dell'operazione di svuotamento della snc, laddove la Corte aveva espressamente ammonito che "se si vuole ritenere l'esistenza di un accordo criminoso a monte di più fatti delittuosi, che si rapporti al dissolvimento, inteso insolvenza, bisogna dimostrarlo per sé con precisi indici, salvo rendere l'ipotesi assiomatica e come tale irriconoscibile": è quindi evidente la violazione dell'art. 627 cod.proc.pen. lamentata, poiché la sollecitazione alla dimostrazione dell'assunto con l'indicazione di indici precisi è caduta nel vuoto. Non solo, ma la Corte di Cassazione aveva sollecitato, quanto ai concorrenti esterni, la dimostrazione per ciascuno del "contributo al fatto tipico di gestione dei soggetti qualificati come amministratori, nella consapevolezza della insolvibilità del M., a fronte di un danno implicato dalle singole operazioni, e ancor più delle inadempienze verso il fisco o i dipendenti". In sede di giudizio di rinvio la corte territoriale si è limitata a sostenere che poco importa che S. sia stato amministratore dal 26.5.1992 al 14.9.1992, visto che verosimilmente abbandonò detta carica, poiché impegnato in altra società dichiarata fallita nel 2002, dal Tribunale di Asti, con ciò eludendo in modo evidente gli oneri motivazionali che la corte di legittimità aveva imposto anche in ordine al capo 26 dell'imputazione, introducendo un dato del tutto disancorato alla logica motivazionale. La sentenza impugnata va quindi annullata e rinviata per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Milano.
13-02-2012 00:00
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