Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Cassazionista Trapani

Sentenza

La vicenda della Banca Credito Commerciale Tirreno S.p.a. approda in Cassazione. Bancarotta fraudolenta impropria e bancarotta fraudolenta societaria.
La vicenda della Banca Credito Commerciale Tirreno S.p.a. approda in Cassazione. Bancarotta fraudolenta impropria e bancarotta fraudolenta societaria.
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 08-06-2012) 02-11-2012, n. 42519

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. OLDI Paolo - Presidente -

Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere -

Dott. SABEONE Gerardo - Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere -

Dott. MICHELI Paolo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi proposti da:

1. Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Salerno;

2. Credito Commerciale Tirreno S.p.a., in liquidazione coatta amministrativa (parte civile);

3. B.A., nato a (OMISSIS);

4. D.L.E., nato a (OMISSIS);

5. D.F.O., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di appello di Salerno del 21/06/2010;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. VOLPE Giuseppe, che ha concluso chiedendo:

- dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi del P.g. territoriale e della parte civile;

- il rigetto dei ricorsi proposti nell'interesse del D.L. e del D.F.;

- l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti del ricorrente B.A., limitatamente alla pena inflitta, con rideterminazione della stessa;

- il rigetto, nel resto, del ricorso proposto dal B.;

udito per la parte civile ricorrente l'Avv. Franco Coppi, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento dei motivi di ricorso, nonchè riportandosi al ricorso del P.g., sollecitandone l'accoglimento;

udito per la Banca d'Italia (parte civile non ricorrente) l'Avv. Stefania Rita Maria Ceci, che ha concluso sollecitando l'accoglimento del ricorso del P.g.;

udito per B.A. l'Avv. Leonardo Iannone, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento dei motivi di ricorso (anche con riguardo ai motivi nuovi), in subordine formulando istanza di rimessione del processo alle Sezioni Unite stante il contrasto di interpretazioni giurisprudenziali sull'applicabilità dell'aggravante prevista dalla L. Fall., art. 219, comma 1, alle ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria e di bancarotta fraudolenta societaria, di cui alla L. Fall., art. 223, commi 1 e 2, nonchè - in ulteriore subordine - istanza di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per la decisione della questione di legittimità costituzionale della citata L. Fall., artt. 219 e 223, ove letti nel senso dell'applicabilità della suddetta aggravante alle ipotesi ricordate;

udito per D.L.E. l'Avv. Gaetano Pastore, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento dei motivi di ricorso, nonchè per la declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dal P.g.;

udito per D.F.O. l'Avv. Andrea Ruggiero, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, in accoglimento dei motivi di ricorso;

udito per R.G. e F.A. l'Avv. Michele Tedesco, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso presentato dal P.g.;

uditi:

- per B.U. e B.V., l'Avv. Andrea Ruggiero;

- per C.D., l'Avv. Carlo Mario D'Acunti;

- per D.M.G. e S.M., l'Avv. Andrea Castaldo;

- per P.M., l'Avv. Gianfranco Mobilio;

- per M.M. l'Avv. Maurizio Bellacosa;

- per A.L., l'Avv. Giampaolo Filiani;

- per P.G., l'Avv. Giovanna Corrias Lucente;

i quali tutti hanno concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso presentato dal P.g..
Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Salerno, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava parzialmente la pronuncia del Tribunale della stessa città emessa il 31/01/2008 all'esito di un processo celebrato a carico di quattordici imputati, per fatti correlati a vicende della banca Credito Commerciale Tirreno S.p.a., posta in amministrazione straordinaria ed in liquidazione coatta amministrativa con decreti del Ministro del Tesoro rispettivamente datati 04/06/1996 e 06/03/1997, quindi dichiarata insolvente dallo stesso Tribunale di Salerno il 26/05/1997.

In primo grado, oltre ad alcune assoluzioni e declaratorie di intervenuta prescrizione, era intervenuta condanna nei confronti di:

- B.A., nella qualità di vice-presidente (tra il (OMISSIS)) e presidente (tra il (OMISSIS)) del consiglio di amministrazione del C.C.T., nonchè di amministratore delegato (dal (OMISSIS)), membro del comitato esecutivo (dal (OMISSIS)) e direttore generale (dal (OMISSIS)); il B. risultava al contempo essere stato legale rappresentante della Parfin S.p.a., della Saif S.p.a., della Praim S.r.l. e della Lightower S.p.a., società protagoniste di alcune operazioni concluse con la suddetta banca, essendo in specie la Parfin azionista di riferimento del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. dal (OMISSIS), con una partecipazione al capitale sociale superiore al 70%. Il B. era stato condannato alla pena di anni 12 di reclusione per più fatti di bancarotta patrimoniale per distrazione (rubricati ai capi A) - contestazione suddivisa in numerosi punti, da Al) ad A16) - H) ed S)) e di c.d. bancarotta societaria ex art. 223, comma secondo, legge fall., (di cui ai capi E), F), FI) e G));

- Bu.Vi., presidente del consiglio di amministrazione del C.C.T., Pa.Gi. ed D.L.E. (componenti del suddetto cda), ciascuno alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione in ordine all'addebito sub A12), descrittivo di una specifica condotta distrattiva, consistita nella delibera di autorizzazione all'acquisto da parte della banca di obbligazioni emesse dalla Holding Europea di Investimenti S.p.a. (che deteneva partecipazioni sia nel capitale della Parfin che dello stesso C.C.T.) per un controvalore di 19.461 milioni di lire, realizzando di fatto una operazione di prestito privo di garanzie;

- B.U. (membro del comitato esecutivo del Credito Commerciale Tirreno S.p.a.) e P.M. (quale imprenditore favorito), alla pena di anni 4 di reclusione ciascuno in ordine al delitto di cui sub S), relativo ad una operazione di riduzione di ipoteca concernente la Immobiliare Salerno S.r.l., di cui il P. era appunto il legale rappresentante;

- D.F.O., componente del collegio sindacale del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., alla pena di anni 3 di reclusione con riguardo al reato L. Fall., ex art. 223, comma 2, n. 2, contestato al capo E);

- D.M.G. e C.D., dipendenti della Banca d'Italia incaricati di svolgere verifica ispettiva sul Credito Commerciale Tirreno S.p.a., alla pena di anni 3 di reclusione ciascuno quanto al delitto sub L), relativo ad una ipotesi di falso ideologico realizzato in sede di rapporto ispettivo all'esito della suddetta verifica, con particolare riguardo alla indicazione dell'ammontare dei crediti in sofferenza, segnalato in 31 miliardi di lire circa al 30/06/1990, quando invece il dato sarebbe stato già superiore ai 50 miliardi;

- F.A., componente del consiglio di amministrazione e membro del comitato esecutivo del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione in ordine ai capi A1) e H): il primo si riferiva ad una operazione distrattiva consistita nella delibera di concessione di un prestito alla IBS Italia S.r.l.

per 5 miliardi di lire, garantito dalla costituzione in pegno di obbligazioni della già ricordata Discounting Finance, quando in realtà - secondo l'assunto accusatorio - i titoli su cui fondare la garanzia sarebbero stati acquistati dalla IBS con la stessa somma oggetto del prestito, somma successivamente trasferita prima alla Saif S.p.a. e poi alla Parfin S.p.a., tanto da venire utilizzata per sottoscrivere una parte dell'aumento del capitale sociale del C.C.T.;

il secondo riguardava invece un'ipotesi di bancarotta societaria relativamente all'acquisto di obbligazioni della Cofip S.p.a., riferibile ai fratelli Am.;

- A.L. e S.M., rispettivamente presidente e componente del consiglio di amministrazione del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., alla pena di anni 4 di reclusione ciascuno, con riguardo al già ricordato addebito sub H);

- M.M., a sua volta componente del cda del C.C.T., alla pena di anni 5 di reclusione, in ordine al suddetto capo H) nonchè per l'ulteriore contestazione di bancarotta di cui al capo S), parimenti sopra ricordata;

- R.G., direttore generale del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., alla pena di anni 5 di reclusione per avere concorso nei reati di bancarotta per distrazione sub Al) e A12).

Gli Imputati condannati per violazioni del R.D. n. 267 del 1942, si erano visti irrogare anche le pene accessorie di legge, ed il Tribunale di Salerno aveva altresì dichiarato gli imputati - a seconda dell'entità della pena principale inflitta - interdetti dai pubblici uffici in perpetuo od in via temporanea.

Le statuizioni civili avevano riguardato:

- la condanna del D.M. e del C. al risarcimento dei danni in favore della parte civile Banca d'Italia;

- la condanna del F., del D.M. e del P. al risarcimento dei danni in favore della parte civile Credito Commerciale Tirreno S.p.a., in liquidazione coatta amministrativa (disponendo una provvisionale immediatamente esecutiva solamente a carico del P.);

- la condanna di B.A., nonchè del Bu., del F., del R., del D.L. e del Pa. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite nella veste di eredi di Am.Ma..

2. All'esito del giudizio di secondo grado, la Corte di appello di Salerno confermava invece la dichiarazione di penale responsabilità nei confronti del solo B.A., che peraltro assolveva dagli addebiti di cui ai capi H) ed S), per insussistenza dei fatti contestati. Conseguentemente, riduceva la pena inflitta al B. ad anni 10 e mesi 6 di reclusione, escludendo l'aggravante ex art. 112 c.p., n. 1.

La Corte territoriale assolveva altresì:

- B.U., nonchè il P. ed il M., quanto al reato sub S), per insussistenza del fatto;

- il F., l' A., il S. e lo stesso M., quanto al reato sub H), per insussistenza del fatto;

- ancora il F., quanto al reato sub A1), nonchè il R. - con riguardo agli addebiti di cui ai capi A1) e A12), per difetto di dolo;

- il Bu., il Pa. e il D.L. quanto al reato sub A12), parimenti per difetto dell'elemento soggettivo;

- il D.F., quanto al reato sub E), per difetto di dolo;

- il D.M. ed il C., in ordine al falso ideologico sub L), perchè il fatto non costituisce reato.

Delle argomentazioni adottate dalla Corte di appello per giungere alle conclusioni ora sintetizzate verrà data contezza nel prosieguo, evidenziando per converso i motivi di ricorso presentati dalle parti.

3. Avverso la sentenza del 21/06/2010 propone ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la stessa Corte di appello di Salerno.

L'atto di impugnazione si apre con un richiamo espresso ad elementi in fatto e in diritto sviluppati dalla parte civile (la Liquidatela del Credito Commerciale Tirreno S.p.a.) nell'autonomo ricorso già presentato e che verrà analizzato di seguito: il P.g. conviene infatti sulla censura mossa al percorso argomentativo seguito dalla Cotte d'appello ed alla stessa impostazione della pronuncia, fondata sul riconoscimento della centralità della posizione di B. A. e sul ridimensionamento del ruolo dei coimputati, sino a definire sindaci e componenti del consiglio di amministrazione del Credito Commerciale Tirreno s.p.a. quali semplici "figuranti", ingannati dal B. e dunque indotti a non ritenere vi fossero i presupposti per l'esercizio dei doveri di legge. Al contrario, secondo il P.g. territoriale (e la parte civile ricorrente) essi avrebbero dovuto percepire nettamente i chiari "segnali di allarme" emersi nella gestione della società, soprattutto considerando che le condotte contestate agli imputati, nel loro complesso, risultavano da una serie di operazioni (ascrivibili sì al B., ma sulle quali era stata sistematicamente omessa ogni forma di controllo da parte degli organi preposti) in stretta concatenazione.

Fra queste, di indubbia evidenza era il dato storico della derivazione del dissesto della banca da operazioni di obbligazioni su titoli che erano falsi o addirittura inesistenti, operazioni ripetute senza che chi di dovere sollevasse eccezioni o rilievi di sorta.

Ad avviso del P.g., la Corte d'appello avrebbe invece "parcellizzato" gli episodi in rubrica, senza riconoscere valore alcuno alle reiterate censure mosse dai periti, e prima ancora dagli ispettori della Banca d'Italia o dai commissari liquidatori del Credito Commerciale Tirreno S.p.a.; censure ancor più significative considerando che chi avrebbe dovuto esercitare i poteri-doveri connessi a funzioni apicali, ovvero a posizioni di vigilanza e controllo, operava comunque nel settore bancario, rivolto alla raccolta ed alla gestione del risparmio, con la conseguente imposizione di comportamenti assai più rigorosi di quanto normalmente si chiede per una ordinaria attività di impresa.

A dispetto dei rilievi dei periti, degli ispettori e dei commissari liquidatori, come pure delle puntuali osservazioni contenute in proposito nella sentenza di primo grado, il P.g. ricorrente si duole che la Corte assegna invece valenza decisiva (in favore dei coimputati del B.):

- alla circostanza che B.A. falsificò un fax, in data 26 aprile 1996, per attestare il controvalore dei titoli asseritamente depositati presso la Coleman International Ltd di (OMISSIS), per 37 miliardi di lire (ciò per aderire ad una richiesta della società di revisione, la Deloitte & Touche, sulla necessità di una certificazione relativa a chi fosse il sub-depositario dei titoli medesimi);

- alla dichiarazione resa da F.P. il 27 settembre 2005, in cui egli esprimeva la convinzione che il B. avesse sempre agito in modo da tenere all'oscuro della verità i componenti del collegio sindacale e del consiglio di amministrazione.

Avrebbe invece dovuto ritenersi, ad avviso del ricorrente, che il mancato esercizio del dovere di informarsi fosse piuttosto il frutto della scelta di mantenersi volontariamente inerti, scelta ben più vicina ad una condotta di concorso pieno che non ad uno scusabile affidamento sulla liceità della condotta altrui. Seguendo il ragionamento della Corte territoriale, assumere un atteggiamento da "figurante" non costituirebbe gravissima e consapevole omissione del dovere qualificato di informarsi, e quindi non produrrebbe la consapevole accettazione del rischio di contribuire alla concausazione dello stato di dissesto (in termini almeno di dolo eventuale), ma finirebbe al contrario per rappresentare il salvacondotto da ogni responsabilità penale: assumendo quale massima di diritto un principio di tale portata si giungerebbe ad abrogare di fatto le norme dello statuto penale societario.

3.1 Quanto agli specifici motivi di ricorso, il Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno invoca innanzi tutto l'erronea applicazione della L. Fall., artt. 216 e 223, ed altresì contraddittorietà e mancanza della motivazione, in ordine al ritenuto difetto dell'elemento psicologico in capo al F. per il reato sub A1), al R. per i reati sub A1) e A12), al Bu., al Pa. e al D.L. per il reato sub A12).

Il ricorrente censura le argomentazioni esposte in sentenza a proposito della significatività della riforma introdotta con D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in ordine agli obblighi degli amministratori di società di capitali, qualora siano privi di delega. Dalla corretta premessa che un amministratore privo di delega ha visto modificare il quadro dei propri doveri di controllo sulla gestione della società da un generale obbligo di vigilanza ad un più limitato onere di "agire informato" (e dunque di richiedere notizie relativamente alle modalità di un'operazione gestoria, da cui si intendano successivamente far discendere responsabilità di ordine penale), la pronuncia farebbe derivare conseguenze non corrette, giacchè nel caso di specie non è in discussione una responsabilità di tipo omissivo, ma - al contrario - commissiva. Ad avviso del P.g., non basta rilevare la necessarietà della rappresentazione di un evento come fatto illecito e la consapevole omissione di attivarsi per impedirlo, per poi distinguere la conoscenza reale ed effettiva di quell'evento (idonea a fondare un addebito a titolo di reato doloso) da una mera conoscibilità sulla base di indizi o dati sintomatici (che sconfinerebbe in una non prevista, nella materia in esame, responsabilità per colpa): ciò perchè gli imputati di cui si discute non si limitarono ad omettere quel che avrebbero dovuto invece realizzare in positivo, ma concorsero con condotte attive ad adottare, almeno quali componenti del comitato esecutivo, le delibere che diedero causa alle distrazioni contestate.

Nè può assumere rilievo la circostanza, enfatizzata invece nella sentenza assolutoria, che gli stessi imputati avevano investito nella banca somme ingenti, destinate ad andare perdute con il dissesto, dunque non avrebbero avuto alcun interesse a realizzare operazioni pregiudiziali per l'istituto: secondo il P.g. ricorrente, quelle erogazioni dovrebbero invece spiegarsi come estremi tentativi di evitare il dissesto od almeno di evitarne la dichiarazione, dissesto nel quale anche i coimputati di B.A. sapevano che sarebbero stati coinvolti.

3.1.1 Nello specifico degli addebiti mossi ai vari imputati, il P.g.

riprende ancora - quanto ad F.A. - le considerazioni esposte nel ricorso della parte civile, sottolineando come l'operazione di cui al capo A1), consistita in un finanziamento della banca in favore della società IBS Italia S.r.l., si risolse in una distrazione di immediata verificabilità, per l'inconsistenza della società finanziata e la conseguente impossibilità di ipotizzare una concreta restituzione, tanto più che il denaro così erogato confluì in realtà non alla IBS Italia bensì alla Parfin S.p.a. di proprietà del B., quindi venne utilizzato per sottoscrivere un aumento di capitale sociale del Credito Commerciale Tirreno. Ergo, si sarebbe verificata una "ripatrimonializzazione virtuale in quanto compiuta con mezzi finanziari della stessa banca".

Secondo il ricorrente la Corte di appello, sul punto, si limita alle già evidenziate considerazioni di ordine generale sul ruolo centrale del B. e sulle sue capacità di ingannare i coimputati, esemplificate nella vicenda del fax falsificato e creato con una sorta di fotomontaggio, che tuttavia risale al 1996, quando invece il finanziamento alla IBS Italia S.r.l. era già stato deliberato da ben quattro anni, con gli atti del comitato esecutivo del 7 ottobre e 11 dicembre 1992 cui prese parte anche il Fasano. A prescindere dalla circostanza che B.A. potè svolgere una falsa istruttoria al fine di ingannare i membri del suddetto comitato circa la linearità dell'operazione, ad avviso del P.g. vi erano in quella fattispecie plurimi "segnali di allarme" che un preposto alla vigilanza avrebbe dovuto necessariamente cogliere, ed in particolare le seguenti circostanze:

- il finanziamento era di importo pari al limite massimo della delega di poteri spettante all'epoca al comitato esecutivo;

- il destinatario del finanziamento era in concreto la Parfin S.p.a., facente capo al B., con ciò determinandosi una situazione di conflitto di interessi tale da richiedere una delibera del consiglio di amministrazione e non già del comitato esecutivo;

- l'erogazione fu concessa come credito promiscuo a sei mesi, il che comportava piena libertà del beneficiario di imputarlo a fideiussione, scoperto di conto corrente o finanziamento in senso proprio;

- i titoli che la società finanziata offriva in garanzia non erano nel portafoglio della stessa, ma furono acquisiti in un secondo momento, tanto che vennero pagati con le stesse risorse ottenute in virtù del credito oggetto della garanzia;

- i titoli medesimi consistevano in obbligazioni emesse da una società estera sconosciuta - la Discounting Finance BV, olandese - e non quotata in borsa, mentre la prassi prevedeva che si trattasse di obbligazioni pubbliche o di società quotate;

- il relativo pegno era stato documentato con modalità irregolari, risultando da un fax privo di firma (nè del legale rappresentante della società nè di un funzionario di banca) e di data certa;

- il Credito Commerciale Tirreno non aveva fino a quel momento accordato finanziamenti con quelle caratteristiche e su tali presunte garanzie;

- la IBS Italia avrebbe dovuto utilizzare le somme erogate per una operazione immobiliare, consistente nell'acquisto di un bene su cui risultava però già iscritta ipoteca per 1.800.000.000 di lire e nella programmata rivendita dello stesso alla Mazzini Immobiliare S.r.l., recentemente costituita, facente capo anche al B. e di cui non era stata indicata neppure la consistenza del capitale sociale (come emergeva dalla istruttoria della pratica allegata alla delibera 09/06/1992 del consiglio di amministrazione, cui avevano partecipato fra gli altri B.A., vice-presidente, F.A., consigliere, e R.G., direttore generale).

Le circostanze appena evidenziate, in quanto percepibili dalla semplice lettura della pratica di finanziamento senza la necessità che il F. attivasse specifici poteri di intervento, avrebbero dovuto portare alla conclusione della penale responsabilità dell'imputato, almeno nei termini di dolo eventuale correttamente affermati dalla sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale. A tale riguardo, la sentenza di primo grado aveva delineato "la fattispecie della bancarotta nell'ambito dell'esercizio dell'attività bancaria, segnalando come la distrazione penalmente rilevante potesse configurarsi non solo quando la funzione distrattiva del negozio emerge nello stesso contenuto dell'atto, ma anche quando si prospetta una apparente acquisizione del corrispettivo che per esempio provenga alle risorse finanziarie della medesima società che si è privata del bene, ovvero anche tramite la realizzazione di strumenti negoziali tipici della attività creditizia come prestiti, finanziamenti, quando ad esempio il denaro viene stornato per fini riguardanti il gruppo societario di appartenenza o senza garanzie patrimoniali o su garanzie elusive".

Invece, la sentenza d'appello - pur richiamando un precedente giurisprudenziale che aveva opportunamente sottolineato la necessità di non ancorare il rilievo penale di una condotta omissiva sulla rappresentazione della mera possibilità dell'evento, schema questo che sarebbe pertinente ai reati colposi (Cass., Sez. 5^, n. 43101 del 03/10/2007, Mazzotta) - trascura di considerare la chiara evidenza "del pericolo dell'evento", che per l'imputato avrebbe dovuto risultare vuoi per massime di comune esperienza, vuoi in base a criteri di più approfondita valutazione professionale.

Sulla base dei ricordati "segnali di allarme", appare dunque erronea secondo il P.g. la valutazione della Corte territoriale quando afferma che non vi fossero "sintomi certi, visibili e conoscibili dell'illiceità delle operazioni" e che anzi si trattava di "transazioni apparentemente e formalmente corrette, oggettivamente utili o potenzialmente strutturate al fine di evitare una perdita".

La pronuncia sarebbe altresì contraddittoria, secondo il primo motivo di ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno, nel momento in cui ammette che il F. avrebbe percepito quei segnali, ma li avrebbe poi ignorati o sottovalutati per colpa, ed al contempo che egli sarebbe stato ingannato dal B..

Il ricorrente censura altresì la rilevanza che la sentenza impugnata riconosce al giudizio controfattuale sulle singole operazioni contestate in rubrica, laddove sarebbe stato accertato un rientro di cassa: ciò perchè detto giudizio non può ragionevolmente compiersi secondo criteri meramente contabili e riguardare la singola operazione, ma investire l'intera fattispecie distrattiva di bancarotta fraudolenta, soprattutto ove si consideri che il dato di cassa nulla dice sul permanere di esposizioni che comunque concorrono al dissesto.

Infine, sempre con riguardo ai capo Al), secondo il P.g. la pronuncia sminuisce il ruolo di R.G., già direttore generale del Credito Commerciale Tirreno, dimenticando che egli aveva per due volte dato parere favorevole al finanziamento chiesto dalla IBS Italia S.r.l., senza che fosse stata fatta alcuna Istruttoria sulla società istante e su quella che risultava avere emesso i titoli offerti in garanzia; l'avere sottoscritto quei pareri, proprio perchè standardizzati e dunque di routine ma con riguardo ad una pratica che presentava assolute anomalie e che perciò avrebbe dovuto richiedere ben altre determinazioni, deve prevalere ad avviso del ricorrente sulle circostanze dedotte dalla Corte di appello, che ha ritenuto di escludere il dolo del R. in quanto egli avrebbe investito i suoi risparmi proprio presso la banca (dimostrando così di non essersene prefigurato il dissesto) ed avrebbe avuto rapporti conflittuali con il B..

3.1.2 Con riguardo al capo A12), in cui la distrazione si sarebbe sostanziata nell'avere fra l'altro il consiglio di amministrazione del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. autorizzato l'acquisto di obbligazioni della Holding Europea di Investimenti S.p.a. per un controvalore di 19.461 milioni di lire (con delibera del 16/11/1995), il P.g. ricorrente sottolinea parimenti che esistevano vistosi segnali della pericolosità dell'operazione, emergenti - come ben delineato nella sentenza di primo grado - già dalle scritture contabili della società emittente i titoli.

Questa presentava infatti, nel conto economico consolidato, una perdita di 729.000.000 di lire, a fronte di un attivo iscritto nello stato patrimoniale formato non già da liquidità, titoli di Stato o titoli azionari di società quotate, bensì da crediti intergruppo e titoli di incerto realizzo: dati, questi, indicativi della concretezza del rischio che l'operazione avrebbe potuto cagionare, e che (risultando dagli allegati alla pratica sottoposta ai consiglieri di amministrazione) avrebbero dovuto essere facilmente colti da imputati di qualificata professionalità, cui non poteva certamente essere riconosciuto un ruolo da "figuranti", in particolare da Bu.Vi., docente universitario di diritto commerciale, Pa.Gi., commercialista, ed D.L.E., avvocato.

Quanto al R., di cui la sentenza della Corte di appello evidenzia le dimissioni dalla carica, intervenute proprio lo stesso giorno dell'operazione, il P.g. ricorda che era stato proprio lui il relatore della pratica.

3.2 Con il secondo motivo il Procuratore generale presso la Cotte di appello di Salerno lamenta ancora erronea applicazione della L. Fall., artt. 216 e 223, nonchè contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine all'insussistenza del delitto di bancarotta di cui al capo H), da riferire all' A., ad B.A., al M., al F. ed al S..

Il P.g. censura l'assoluzione per insussistenza del fatto, pronunciata dalla Corte di appello di Salerno, con riferimento alla delibera del consiglio di amministrazione che autorizzò il comitato esecutivo del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. ad acquistare obbligazioni emesse dalla Cofip S.p.a., e che secondo l'accusa si risolse in un ulteriore episodio di distrazione, riconosciuto dalla sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, con argomenti che il ricorrente fa propri, quelle obbligazioni erano prive di valore, e di ciò i componenti del consiglio erano ben consapevoli, atteso che lo stesso presidente L.V. aveva esposto nella motivazione della delibera del 19/06/1992 che la proposta di acquistare le azioni Cofip proveniva da alcuni clienti del Credito Commerciale Tirreno, e l'operazione si giustificava per la necessità di salvaguardare la considerazione di cui la banca godeva sulla piazza di (OMISSIS); perciò, si trattava non già di un investimento, ma piuttosto di un accollo da parte della banca della perdita patrimoniale di quei clienti.

La pronuncia di secondo grado ritiene invece che non si potesse definire "una operazione avventata, poichè era fatta salva la successiva rivalsa che comunque il Credito Commerciale avrebbe azionato nei confronti della società Cofip"; inoltre vi erano prospettive di rientro della somma versata escutendo la fideiussione dei fratelli Am.. Argomenti che il P.g. non condivide, giacchè pur sempre di accollo si trattava, mentre la fideiussione richiamata - come sostenuto anche dai consulenti esaminati nel giudizio di appello all'atto della parziale rinnovazione dell'istruttoria - doveva riferirsi allo scoperto di conto corrente degli Am. nei confronti della banca, di importo già sensibilmente superiore.

3.3 Con il terzo motivo, il P.g. territoriale deduce erronea applicazione della L. Fall., artt. 216 e 223, nonchè contraddittorietà e mancanza della motivazione in ordine all'insussistenza del delitto di bancarotta di cui al capo S), da riferire ad B.A. e U., al M. ed al P..

Con riguardo alla delibera del comitato esecutivo del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. del 13/04/1994, con la quale era stata autorizzata la riduzione della garanzia ipotecaria su beni di proprietà della Immobiliare Salerno S.r.l., da 5 a 3,8 miliardi di lire, il P.g. ricorrente reputa erronea la ritenuta insussistenza del fatto, che secondo la Corte di appello di Salerno risulterebbe:

- dalla congruità del valore degli immobili mantenuti sotto la garanzia ipotecaria (quattro lotti, che secondo la consulenza del P.M. avevano valore pari a 650.000.000 di lire ciascuno, per un totale di 2 miliardi e 600 milioni);

- dal successivo rientro della somma, per quanto avvenuto a seguito di cessione del credito e soltanto nel 2002;

- dal rilievo che non risultava provato l'inserimento agli atti dell'istruttoria di una nota dell'Ufficio Crediti Speciali del 25 giugno 1993, secondo cui il valore stimato di rapido realizzo dei soli tre lotti edificati era invece pari a 4.200.000.000 di lire;

- dalla circostanza che residuavano le azioni esecutive in atto, con precetto già formalizzato.

Ad avviso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno, invece, sarebbe stato necessario dare compiuto rilievo al fatto che erano stati liberati da ipoteca proprio i lotti su cui già esistevano delle costruzioni, dunque di valore sensibilmente superiore rispetto a quelli su cui la banca aveva ritenuto di mantenere la garanzia reale e che - appunto perchè inedificati - non risultavano idonei a garantire il credito. Inoltre, il reato avrebbe dovuto considerarsi consumato alla data della dichiarazione dello stato di insolvenza del Credito Commerciale Tirreno, vale a dire il 26/05/1997, a nulla rilevando la abbondantemente successiva cessione del credito pro soluto, intervenuta al prezzo di 723.000,00 Euro, somma neppure rivalutata ai valori dell'epoca (avendo la Corte operato un'erronea equiparazione fra quella cifra e l'importo di 1 miliardo e 400 milioni di lire, per solo calcolo aritmetico).

Da ultimo, la sentenza sarebbe erronea in quanto esclude la rilevanza penale del fatto ritenendo che non vi siano prove della consapevolezza, da parte dei membri del comitato esecutivo, di provocare un ingiusto profitto a taluno - in ipotesi, il P., legale rappresentante della Immobiliare Salerno s.r.l. - e un danno alla banca: ma, a fronte di tale ricostruzione fondata sul difetto di dolo, giunge ad assolvere gli imputati perchè il fatto non sussiste.

In relazione ai due motivi di ricorso da ultimo riportati, il P.g.

chiede altresì e conseguentemente che la sentenza impugnata venga annullata anche in relazione alla pena inflitta ad B.A., da aumentare a causa della affermazione della sua responsabilità pure in ordine ai reati sub H) ed S) della rubrica.

3.4 Il quarto motivo di ricorso presentato dal P.g. riguarda invece la presunta erronea applicazione dell'art. 479 c.p., oltre a contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, in ordine alla ritenuta insussistenza dell'elemento psicologico quanto al falso ideologico ascritto al C. e al D.M..

Nella ricostruzione operata dal ricorrente, C.D. e D. M.G., ispettori della Banca d'Italia, erano stati condannati in primo grado per il delitto di cui all'art. 479 c.p., per avere essi attestato che i crediti in sofferenza del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. ammontavano a 31 miliardi di lire, e non già ad oltre 50, avuto riguardo alla data del 30/06/1990.

Attestazione che avrebbe dovuto considerarsi falsa perchè compiuta in violazione di regole vincolanti di discrezionalità tecnica, senza invece risultare da vantazioni soggettive tali da prescindere da una doverosa verifica.

In sede di appello, i due imputati erano stati invece assolti perchè secondo la Corte di appello essi si erano comunque attenuti alle linee guida della Banca d'Italia vigenti all'epoca, tenendo peraltro conto della genericità con cui dette linee guida risultavano formulate; inoltre, il C. e il D.M. avevano ritenuto di dover limitare il loro esame ai fatti risultanti all'inizio dell'attività ispettiva (appunto, il 30/06/1990) senza estenderlo a quelli intervenuti sino alla conclusione della stessa (il 18/01/1991).

Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno considera erronee le conclusioni appena richiamate, in quanto - come si evince da plurimi riferimenti giurisprudenziali - deve ritenersi ideologicamente falsa una valutazione espressa contraddicendo criteri di discrezionalità tecnica oramai consolidati e indiscutibili. In particolare, fermo restando che gli ispettori avrebbero dovuto comunque rappresentare nella loro relazione anche i fatti occorsi durante l'espletamento del mandato, vista la natura dell'accertamento che era stato loro richiesto, finalizzato a verificare i presupposti per un eventuale pericolo di dissesto del Credito Commerciale Tirreno s.p.a., appare irragionevole che ad un tecnico della Banca d'Italia si chieda soltanto di attenersi a linee guida che - per espressa definizione - debbono considerarsi meramente esemplificative.

Infatti, le fattispecie indicative di uno stato di insolvenza ivi rappresentate, come pure le ipotesi di anomalia dei crediti o l'elencazione di atti amministrativi negativi, non sarebbero in alcun modo tassative, "in quanto gli ispettori, nell'accertare lo stato di insolvenza, non devono limitarsi agli atti ufficiali, ma accertare con qualsiasi mezzo disponibile l'incapacità del soggetto di fronteggiare gli impegni assunti".

Analogamente è a dirsi per la cosiddetta procedura informatica "ARS", su cui si sofferma la Corte di appello per sottolineare che gli imputati vi fecero ricorso, trattandosi di procedura di ausilio dell'attività ispettiva, per sua natura flessibile e niente affatto vincolante.

Secondo il P.g. costituisce peraltro frutto di erronea lettura delle linee guida la conclusione dei giudici di appello, ricavata facendo proprie alcune deduzioni difensive, secondo la quale per aversi "sofferenza" in senso tecnico dovrebbe essere riscontrata la compresenza di anomalie andamentali del rapporto ed atti amministrativi negativi, e non rileva neppure se tali ultimi atti costituiscano il risultato di una iniziativa della banca od abbiano invece origine esterna. A pag. 9 del Volume II, Capitolo V, della Guida del 1990 sono ad esempio elencati - senza che possano considerarsi numerus clausus - gli atti ufficiali da cui desumere l'insolvenza di una posizione senza la necessità di acclarare se vi siano anche anomalie nell'andamento del rapporto: fra questi si segnalano procedure concorsuali, frequenti protesti, decreti ingiuntivi, transazioni o rinunce al credito.

Situazioni che, in tredici delle posizioni esaminate e valutate come "incaglio" dagli ispettori, piuttosto che come "sofferenza" (giudizio invece espresso dai consulenti del P.M.), risultano effettivamente presenti.

In altri numerosi casi valutati come "incaglio" dagli imputati vi erano poi sia le anomalie andamentali che le situazioni di carattere amministrativo la cui compresenza avrebbe dovuto portare - secondo la interpretazione difensiva fatta propria dalla Corte - a considerare quei crediti in "sofferenza", tenendo comunque presente che la differente classificazione di una posizione nell'una o nell'altra categoria avrebbe dovuto comportare conseguenze di rilievo, stante la ben diversa possibilità di recupero del credito.

Ad avviso del P.g. ricorrente, la Corte territoriale si sarebbe peraltro inoltrata nell'analisi delle varie posizioni al fine di smontare analiticamente le conclusioni della consulenza (continuando comunque a recepire senza alcun vaglio critico le tesi difensive, nè mostrando per quali ragioni ritenesse di aderirvi), dimenticando che il capo d'imputazione si fonda sul dato macroscopico della divergenza - nell'ordine di circa 19 miliardi di lire - fra l'ammontare dei crediti in sofferenza attestato dagli ispettori e quello successivamente ricostruito.

In ogni modo, le considerazioni espresse su talune delle posizioni singole non potrebbero essere in alcun modo condivise, come ad esempio (limitando in questa sede l'esame solo ai primi tre casi evidenziati nei motivi di ricorso):

- riguardo alla società Velia, in cui si reputa che la stessa vantazione di incaglio sia addirittura prudenziale, risultavano al contrario documentati inequivoci indicatori di anomalia andamentale del rapporto (sconfinamenti, gran numero di titoli insoluti o protestati, richieste reiterate di rientro dell'esposizione, istanze di fallimento avanzate da terzi);

- per il gruppo Baldi, vi erano parimenti effetti insoluti, sconfinamenti, rate di mutuo scadute e non onorate, mentre la consistenza complessiva del debito - pari a circa 1.800.000.000 di lire - risultava ampiamente superiore sia al fatturato della Ferra menta Baldi S.r.l., sia al valore di tutti gli immobili di proprietà della famiglia cui la società faceva capo (quando invece nella sentenza impugnata si considera fatto amministrativo positivo l'intervenuta procura a vendere di alcuni di quei beni);

- quanto alla cooperativa Senna, a fronte di segnalazioni alla centrale rischi e di azioni esecutive in corso, la Corte di appello valuta positivamente che la società avesse ceduto al comune di Napoli per 11 miliardi di lire due palazzi edificati dalla stessa, onde acquisire risorse finanziarie per onorare il debito verso il Credito Commerciale Tirreno, dimenticando però che nello stesso contratto era previsto il pagamento diretto da parte del comune acquirente in favore di numerosi creditori della venditrice, fino ad assorbire tutto l'ammontare del prezzo.

4. Propone autonomo ricorso per cassazione, come già ricordato, anche la Liquidatela del Credito Commerciale Tirreno S.p.a..

La parte civile sviluppa a sua volta una premessa - in parte richiamata e ripresa nel ricorso del P.g. presso la Corte di appello di Salerno, presentato in data successiva - sull'impianto generale della sentenza impugnata. Si tratta di argomenti che risultano pertanto sovrapponi bili a quelli già esaminati; in punto di profili civilistici, ritiene la ricorrente che "la Corte di appello sembra sottovalutare il significato giuridico delle reiterate omissioni dei doveri che incombevano per legge o secondo statuto a carico di coloro i quali rivestivano il ruolo di sindaco, amministratore o componente del comitato esecutivo. Infatti, la Corte di appello si limita a parlare di colpa ovvero di mera rappresentazione della possibilità di cagionare il dissesto, senza rilevare che sui soggetti imputati ricadevano degli obblighi giuridici precisi, la cui reiterata omissione non può essere confusa con colpevole inerzia. La Corte di appello è caduta in un duplice errore di diritto: il primo riguarda la mancata individuazione dei precetti civilistici sulle singole fattispecie descritte nei capi di imputazione, consentendosi così, semplicisticamente, di ricondurre la mancata attivazione della condotta doverosa nell'ampio e generico campo della colpa; il secondo, conseguente al primo, riguarda la configurabilità dei reati contestati la cui condotta materiale si estrinsecava proprio con la reiterata inosservanza dei precetti civilistici, inosservanza che, inserita nel contesto generale della vicenda in uno alla eclatante presenza dei segnali di allarme relativi ad ogni singola decisione adottata, denotava la coscienza e volontà della omissione, e la rappresentazione, come evento prevedibile, della causazione del dissesto".

4.1 Con il primo motivo di ricorso, la parte civile rappresenta che nella motivazione della sentenza impugnata vi sarebbe stata erronea applicazione degli artt. 530 e 605 c.p.p., artt. 40 e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, artt. 82 e 136, L. Fall., artt. 203 e 216, art. 219, commi 1 e 2, n. 1, art. 223, commi 1 e 2, artt. 2043, 2392, 2476, 2485 e 2486 c.c.; la motivazione sarebbe altresì contraddittoria e carente nella parte in cui viene escluso l'elemento psicologico del reato sub A1), quanto alla posizione del F..

La parte civile ricostruisce il fatto nei termini già esposti esaminando il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno, ed enumera gli stessi "segnali di allarme" parimenti ivi ripresi, al fine di evidenziare che - per rendersi conto dell'immanente rischio di un notevole pregiudizio economico per il Credito Commerciale Tirreno S.p.a. in conseguenza dell'operazione di finanziamento della IBS Italia S.r.l. - ad un qualunque membro del comitato esecutivo sarebbe stato sufficiente leggere quel che emergeva dall'istruttoria, trovandosi egli dinanzi a segnali che sarebbe stato impossibile sfuggissero anche a meri figuranti.

La Corte territoriale, inoltre, omette secondo la parte civile ricorrente di affrontare il problema dei precetti civilistici che il Fasano si trovò a violare, senza considerare invece che il Tribunale aveva fondato la responsabilità dell'imputato in base all'art. 2392 c.c., norma di riferimento della fattispecie penale a lui contestata, muovendo dal dato innegabile dell'esistenza di momenti rivelatori del pericolo del dissesto che avrebbero imposto al membro del comitato esecutivo della banca l'applicazione di elementari regole di diligenza e prudenza nell'esercizio del credito, giungendo se necessario a formalizzare un atto formale di dissociazione e dissenso ex art. 2476 c.c..

Ad avviso della parte civile va poi considerato che la sentenza impugnata, nel trasfondere la fattispecie ascrivibile al F. in una ipotesi di responsabilità per colpa, non prevista dall'ordinamento quanto ai reati per cui si procede, dilata il tema della conoscibilità degli elementi su cui il componente del comitato esecutivo avrebbe dovuto fondare le proprie determinazioni, in quanto dimentica trattarsi del titolare di una specifica posizione di garanzia, sul quale grava proprio il dovere di impedire l'evento conoscibile.

Ribadisce infine l'irrilevanza sia del ricorso al giudizio controfattuale operato nella motivazione della pronuncia, per le stesse ragioni già richiamate dal P.g., sia del dato di cassa del successivo rientro, trattandosi di posta finanziata con fondi dello stesso Credito Commerciale Tirreno, e permanendo dunque una perdita di 5 miliardi di lire concorrente nella causazione dello stato di dissesto.

4.2 La parte civile, con il secondo motivo, censura la pronuncia assolutoria del F. anche con riguardo al capo H), lamentando erronea applicazione delle stesse norme di legge già evidenziate al punto precedente, nonchè contraddittorietà e mancanza della motivazione.

Come già rilevato esaminando il ricorso del P.g. presso la Corte di appello di Salerno, anche la parte civile segnala che la società emittente le obbligazioni il cui acquisto venne autorizzato dal consiglio di amministrazione del Credito Commerciale Tirreno S.p.a.

(la ricordata Cofip S.p.a.) si trovava in totale stato di decozione;

conferma pertanto la natura di vero e proprio accollo, da parte della banca, della perdita patrimoniale dei clienti, i quali avevano non già il rischio ma la conclamata certezza - così trasferita sul Credito Commerciale Tirreno - dell'inadempimento della Cofip. Contesta a sua volta la praticabilità in concreto della escussione della fideiussione dei fratelli Am., considerando la complessiva, superiore esposizione di questi ultimi nei confronti della banca.

Reputa infine che, "anche in questo caso, la motivazione della sentenza sembra non dare rilievo, oltre che al più volte richiamato contesto generale, al reale svolgimento dei fatti; è indubitabile che si trattò di un accollo di un debito di terzi mascherato da finanziamento, che i titoli furono oggetto di una vantazione consapevolmente fasulla e che pertanto l'esborso della somma risultò totalmente immotivato, inserendosi nella catena concausale dello stato di dissesto. Chi (...) partecipò alla delibera del consiglio di amministrazione del 19/06/1992 agì con dolo diretto intenzionale, non dovendosi nemmeno affrontare il tema dell'accettazione del rischio in considerazione della totale e nota irregolarità della operazione, immediatamente percepibile".

4.3 Il terzo motivo di ricorso della parte civile punta a far valere identici vizi, sia in punto di presunta erroneità nell'applicazione di norme sostanziali e processuali, sia in ordine alla lamentata contraddittorietà e carenza della motivazione della sentenza oggetto di gravame, in ordine alla ritenuta insussistenza del fatto contestato al capo S) della rubrica (con riferimento alla posizione del P., condannato al risarcimento del danno).

La Liquidatela del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. considera la pronuncia assolutoria in ordine al capo S) il "frutto di un palese travisamento del fatto e della conseguente erronea applicazione della legge penale". Con gli stessi argomenti già richiamati dal P.g., la ricorrente evidenzia l'assoluta incapienza dei lotti della Immobiliare Salerno S.r.l., su cui veniva a residuare la garanzia ipotecaria dopo la riduzione deliberata dal comitato esecutivo, rispetto alla esposizione della società facente capo al P. nei confronti della banca: si trattava infatti di lotti ancora accatastati presso il catasto terreni di Salerno, come ancora sarebbe poi risultato nel 2002, al momento della cessione del credito, il cui valore era da intendersi subordinato all'eventuale rilascio di concessioni edilizie ed alla effettiva realizzazione di fabbricati per finalità abitative. Ciò a differenza dei lotti liberati dall'ipoteca, su cui esistevano immobili ed appartamenti già venduti.

La parte civile espone le stesse censure proposte dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno in punto di epoca di consumazione del reato e di mancata rivalutazione dell'importo, al fine di escludere la rilevanza della cessione del credito, avvenuta nel 2002 per 723.000,00 Euro, sulla configurabilità del reato. In punto di responsabilità del P., quale istigatore e beneficiario dell'indebito arricchimento, la ricorrente sottolinea come si fosse raggiunta piena prova in primo grado della circostanza che vide la delibera del comitato esecutivo conseguire non già ad una libera determinazione dei suoi componenti, bensì ad una intesa illecita raggiunta fra il P. e B.A., grazie alla indebita influenza esercitata da un ispettore della Banca d'Italia.

4.4 Con il quarto motivo, la parte civile deduce l'erronea applicazione degli artt. 530 e 605 c.p.p., art. 110 e 479 c.p., art. 2043 c.c., nonchè la contraddittorietà e la carenza della motivazione della sentenza impugnata nella parte relativa all'assoluzione del C. e del D.M. dal delitto di falso ideologico.

La ricorrente lamenta che le argomentazioni adottate dalla Corte di appello di Salerno per giungere ad una pronuncia liberatoria dei due imputati per difetto di dolo esprimono l'erroneo convincimento che "il falso in atto pubblico non può ravvisarsi allorquando il pubblico ufficiale sia titolare di un potere discrezionale".

Inoltre, censura la radicale sottovalutazione, compiuta in sentenza, del dato finanziario pacifico, costituito dall'ammontare ad oltre 50 miliardi di lire dello stato di sofferenza del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., come accertato dai consulenti del Pubblico Ministero ed invece valutato in termini più modesti dai due imputati, le cui conclusioni erano state ritenute non corrispondenti alla reale situazione economica della banca anche da parte dei periti del Tribunale; ciò a fronte di una minuziosa ma inconferente attività di verifica di ogni singola posizione creditoria, con sottili ed inutili distinguo fra posizioni di "incaglio" e quelle di "sofferenza" vera e propria.

L'assoluzione, fondata sul rilievo che gli ispettori della Banca d'Italia avrebbero dovuto ritenersi titolari di una ampia discrezionalità, sarebbe inoltre stata adottata non considerando:

- i risultati della stessa rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, con l'esame dei consulenti del P.M., da cui si era ricavata la conferma del dato probatorio sostenuto dall'accusa, e cioè che "la guida della Banca d'Italia non era l'unico parametro in base al quale gli ispettori dovevano esprimere il loro giudizio, potendo esserci diversi elementi documentali che, da soli e indipendentemente dai parametri indicati dalla ARS, potevano consentire una definizione a sofferenza piuttosto che a incaglio di una singola posizione";

- che la relazione del C. e del D.M. era destinata a produrre specifiche implicazioni di carattere economico e giuridico, la cui importanza veniva invece del tutto pretermessa da una sostanziale decontestualizzazione del loro operato e da una elusione della doverosa analisi del profilo funzionale dell'atto pubblico.

5. Nell'interesse di D.L.E. viene proposto ricorso per cassazione per violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Con unico motivo, la difesa sostiene che alla sottoscrizione di obbligazioni della Holding Europea di Investimenti S.p.a. si pervenne dopo il parere favorevole dell'area affari e dell'ufficio crediti del Credito Commerciale Tirreno, rispettivamente nelle persone del Dott. Ci. e della Dott.ssa De.Lu., i quali godevano all'epoca di assoluta fiducia e considerazione. Il documento portato all'attenzione del consiglio, sottoscritto anche dall'amministratore delegato B.A., riportava peraltro vari dati e indici, ma non gli elementi che avrebbero potuto indurre il D.L. ad una più congrua vantazione dell'operazione, segnatamente in punto di solvibilità della società emittente le obbligazioni. Ergo, l'imputato si trovò nell'impossibilità di formulare rilievi di sorta, e di avere consapevolezza del carattere rischioso o addirittura illecito dell'operazione: tanto ciò è vero che le anomalie poi riscontrate nel corso delle indagini non furono neppure oggetto di segnalazione da parte della società incaricata della revisione dei conti, nè di rilievo ad opera degli ispettori della Banca d'Italia.

Ne deriva, ad avviso del ricorrente, che la corretta formula assolutoria del D.L. non avrebbe dovuto essere in punto di elemento psicologico, giacchè egli non versò neppure in colpa (come se, per superficialità, non avesse dato peso ad elementi da lui conosciuti o conoscibili): l'imputato avrebbe invece dovuto essere assolto per non aver commesso il fatto, non essendo egli - al pari degli altri consiglieri di amministrazione - stato posto nella condizione di aver contezza della solvibilità della Holding Europea di Investimenti S.p.a., e ciò a causa dell'altrui comportamento ingannevole.

6. Il difensore / procuratore speciale di D.F.O. propone a sua volta ricorso, deducendo violazione della legge processuale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione (nonchè contrasto fra motivazione e dispositivo) in relazione alla corretta applicazione della formula assolutoria adottata.

Nell'interesse dell'imputato, condannato in primo grado ma assolto in appello in ordine al reato di cui al capo E) della rubrica, con la formula "perchè il fatto non costituisce reato", si evidenzia che la Corte territoriale, esaminando su un piano generale le posizioni dei soggetti diversi da B.A. e componenti il consiglio di amministrazione, il comitato esecutivo o il collegio sindacale (di quest'ultimo organo, in particolare, era stato membro il D. F.), aveva osservato che presupposto comune alle varie condotte omissive loro contestate doveva intendersi quello di acclarare l'esistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso o pericoloso in realtà verificatosi, nonchè della correlata certezza che, adottato invece il comportamento doveroso omesso, l'evento non si sarebbe realizzato. A quest'ultimo proposito, però, la Corte di appello di Salerno aveva affermato che "le risultanze processuali non consentono in alcun modo di ritenere sussistente in termini di certezza tale requisito, poichè non è stato possibile verificare se, ipotizzando come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell'evento, questo non si sarebbe verificato, oppure si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva".

Argomenti, evidentemente, afferenti la tematica del nesso causale, che dunque avrebbe dovuto considerarsi già non provato da parte del giudice di appello senza neppure soffermarsi sull'analisi dell'elemento soggettivo, e portare all'assoluzione (anche) del D. F. o per insussistenza del fatto o per non averlo egli commesso, formule che l'imputato avrebbe ancora attuale interesse ad ottenere, considerandone l'efficacia anche in eventuali giudizi promossi in sede extrapenale.

7. B.A. propone personalmente ricorso per cassazione, articolato in numerosi motivi (che per necessità di ordine espositivo verranno di seguito in parte raggruppati, laddove si riscontri omogeneità di censure, prescindendo dall'elencazione adottata dal ricorrente).

7.1 In ordine al reato sub A1), il B. deduce mancanza di motivazione della sentenza impugnata, nonchè inosservanza di norme processuali.

Il ricorrente rappresenta che la sentenza della Corte territoriale si limita a ricalcare le argomentazioni del Tribunale di Salerno, senza considerare svariati dei motivi di appello a suo tempo presentati, come ad esempio in punto di ritenuta decisività:

- del fatto che la IBS Italia S.r.l. avesse richiesto un finanziamento di 4 miliardi di lire già tre mesi prima della data in cui venne erogata in suo favore la somma che si reputa distratta;

- della circostanza che era stato proprio B.A., pur dopo il parere favorevole espresso dal capo ufficio fidi, dal direttore generale e dall'amministratore generale, a deliberare la sospensione della pratica al fine di acquisire maggiori approfondimenti;

- della dedotta inutilizzabilità del cosiddetto memoriale di F. P., espressamente dichiarata già dal Tribunale, anche se poi il documento in questione era stato a più riprese menzionato dai giudici di primo grado a sostegno dell'impianto accusatorio.

7.2 Ancora con riguardo al capo sub A1), il B. evidenzia la mancanza od illogicità della motivazione, valutando erronea la ricostruzione operata in sentenza circa la ricostruzione della vicenda relativa ai rimborsi delle somme erogate alla IBS Italia; in proposito segnala - il motivo viene riprodotto anche in relazione agli ulteriori reati appresso evocati - che le operazioni di finanziamento indicate al capo Al) debbono considerarsi "la sommatoria tra le operazioni intermedie di cui ai capi A1), A2) ed A4) con quella di cui al capo A5)".

7.3 Con ulteriore motivo di ricorso, B.A. lamenta difetto di motivazione nella sentenza impugnata circa la ravvisabilità dell'elemento soggettivo per i reati a lui contestati ai capi Al), A2), A4) ed A5).

Il ricorrente rappresenta che la Corte territoriale non avrebbe preso in esame la specifica censura, avanzata nel motivi di appello avverso la pronuncia del Tribunale, con cui era stato evidenziato il difetto di consapevolezza in capo al B. circa la inaffidabilità dei titoli della Discounting Finance BV, essendo questi detenuti presso un depositario internazionale ed individuati attraverso codici attribuiti dalla Banca d'Italia.

7.4 Il B. censura quindi la mancanza di motivazione della sentenza della Corte di appello di Salerno nella parte in cui egli è stato ritenuto responsabile del delitto di cui al capo A2).

In particolare, lamenta di essere stato considerato "autore mediato" del reato in questione, visto che l'operazione descritta nel capo d'imputazione fu materialmente disposta dall'amministratore delegato L.. In proposito, era stata sviluppata specifica doglianza nei motivi di appello, di fatto non esaminata dalla Corte, limitatasi a ribadire la vantazione espressa dal Tribunale: valutazione fondata su inaccettabili ragionamenti induttivi secondo cui era da intendersi "conosciuta e voluta da B. qualsiasi operazione a posteriori rivelatasi errata, pur in assenza di qualsiasi elemento idoneo a provare l'esistenza del dolo, e pur in assenza di qualsiasi elemento che consentisse di risalire alla sua volontà".

7.5 Analoghi vizi di mancanza e contraddittorietà della motivazione vengono invocati dal ricorrente in ordine alla ritenuta attendibilità dei "testimoni in procedimento connesso" Lo. e F..

Ad avviso del B., malgrado puntuali motivi di appello avanzati in merito, la Corte di appello avrebbe taciuto sulle censure evidenziate in punto di credibilità del Lo. e del F., vuoi sul piano intrinseco - soprattutto in ragione della provata situazione di conflittualità esistente fra lui e i suddetti - vuoi su quello della assoluta carenza di riscontri alle loro dichiarazioni.

I due dichiaranti, peraltro, sembrerebbero talora sconfessarsi reciprocamente, come ad esempio sulla vicenda del presunto telefax falsificato dall'imputato il 26/04/1996: sul punto la Corte presta fede, in assenza di riscontri, al contenuto del memoriale del F., peraltro qualificato inutilizzabile come già ricordato, quindi alla deposizione dello stesso F. all'udienza del 27/09/2005, secondo cui il fax falsificato sarebbe stato il frutto di un accordo tra il B. e il Lo.; ma non si avvede che il Lo., nel corso del suo esame, aveva riferito che in quel periodo aveva come unico referente proprio F.P., avendo interrotto i rapporti con il B..

Parimenti non credibile è il F., ad avviso dell'imputato, quando sostiene che egli si sarebbe prestato ad una operazione simulata di separazione dei rami di azienda con lo stesso B., sottoscrivendo una lettera di ricognizione di un suo presunto debito in data 27/03/1996, essendo stato accertato che egli aveva iniziato a redigere il memoriale di accusa nei confronti dell'imputato già dalla fine del 1995: sul punto, a sua volta esposto nei motivi di appello, la Corte sfugge al proprio obbligo di motivazione limitandosi a rappresentare che, se il F. non avesse aderito al piano di predisporre una separazione fittizia anche attraverso quel documento, avrebbe insospettito il B..

7.6 Il successivo motivo di ricorso presentato nell'interesse di B.A. riguarda il vizio della sentenza impugnata in punto di omessa valutazione di prove decisive in favore dell'imputato, con riguardo al capo A3).

Il più volte ricordato F.P., secondo la ricostruzione operata dal ricorrente, aveva dichiarato il 22/01/2005 che per quanto a sua conoscenza il B. aveva capitalizzato la società Scarlet con fondi personali che gli erano pervenuti a seguito di una operazione conclusa con tale Ri.Ni., dietro cessione di azioni della Parfin S.p.a.; sul punto, malgrado fosse stato richiamato nei motivi di appello, la sentenza impugnata non si pronuncia affatto. Nè tiene in considerazione un riscontro offerto al F. - che, secondo le doglianze del B., viene ritenuto attendibile solo quando espone dati adesivi alle tesi dell'accusa, ed invece by-passato laddove le sue dichiarazioni siano di tenore contrario - da parte dello stesso consulente del P.M. escusso in sede di parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. Infatti, il Dott. Z., su specifica domanda di uno dei giudici a latere relativa al capo A3) (acquisto di una polizza di credito emessa dalla Saif S.p.a. per 4.964.000.000 di lire, il 30 settembre 1993), riferisce che la polizza venne estinta limitatamente a 400 milioni di lire a seguito di altre operazioni del Credito Commerciale Tirreno con il gruppo Bonvino, ma nulla può dire sul resto della provvista, con tanto di precisazione "il resto che sono 4 miliardi e 600 milioni non è escluso che siano stati pagati con i soldi del B., non lo sappiamo".

7.7 Come già esposto in relazione a precedenti addebiti, il B. deduce inoltre carenza di motivazione della sentenza del 21/06/2010 in punto di prova dell'elemento psicologico quanto ai reati sub A5), A6) ed A8).

Il B. deduce che la sentenza impugnata non prenderebbe in esame i motivi di appello formulati relativamente al primo capo d'imputazione indicato, segnatamente a proposito della dedotta centralità del ruolo rivestito dalla Borsaconsult nell'operazione descritta in rubrica.

Parimenti rileva, con riguardo al capo A6), che non avrebbero trovato risposta i motivi di appello incentrati:

- sulle dichiarazioni (qui, a lui favorevoli) di Lo.Gi., rese nell'interrogatorio del 4 settembre 1998 e secondo le quali l'operazione sulle obbligazioni Main Holding fu da lui eseguita d'intesa con F.P. e senza alcuna partecipazione del B.;

- sulla circostanza che non vi fu alcuna distrazione, atteso che secondo gli stessi consulenti del P.M. furono incassate dal Credito Commerciale Tirreno S.p.a. somme per 10.570.000.000 di lire, pari al prezzo dei due "pronti contro termine" sulle obbligazioni Main Holding. In relazione al delitto di cui al capo A8), il B. analogamente ritiene che la sentenza non abbia tenuto conto dei suoi motivi di gravame avverso la pronuncia del Tribunale, laddove era stato segnalato che egli non ebbe alcun ruolo attivo nell'operazione, studiata e realizzata dalla struttura finanziaria della banca, tenendo peraltro conto che risulta che egli aveva richiesto che i titoli fossero depositati presso la Banca d'Italia o la Fideuram.

7.8 B.A. lamenta inoltre mancanza di motivazione della sentenza della Corte di appello di Salerno in ordine alla sua ritenuta responsabilità quanto al reato sub A7). Deduce in particolare che nei motivi di appello erano state sviluppate difese relativamente alla sua mancata consapevolezza circa la realizzazione dell'operazione contestata, il ruolo svolto dagli uffici interni alla banca in vista dell'operazione medesima (segnatamente dal capo ufficio affari e finanza, Ci.Fu., da cui proveniva la decisione di lasciare i titoli in deposito presso la società R.A. Coleman) ed il fatto che il valore dei Buoni del Tesoro Poliennali con scadenza 01/01/1999 di cui era stato disposto l'acquisto fu comunque completamente rimborsato alla banca: malgrado ciò, e a dispetto financo della ricostruzione offerta dai consulenti del P.M., adesiva alla tesi della mancanza di dolo in capo all'imputato, la sentenza impugnata avrebbe dedicato alla vicenda soltanto "un trafiletto di nove righe a pag. 37", venendo quindi meno all'obbligo di motivazione.

7.9 Ad avviso dell'imputato, la motivazione della sentenza di condanna pronunciata a suo carico sarebbe contraddittoria in punto di calcolo del danno economico subito dal Credito Commerciale Tirreno S.p.a. a seguito delle presunte condotte distrattive di cui ai capi A1), A2), A4), A5), A6) e A7).

Il ricorrente, premesso che tutte le presunte distrazioni si sostanziarono in operazioni poi estinte con il rientro delle somme, salvo poi sfociare nell'operazione sub A8) con il riacquisto presso la Saif S.p.a. del foglio cedole di Buoni Poliennali del Tesoro a scadere nel 2023, censura il computo della ritenuta diminuzione patrimoniale, come effettuato dalla Corte di appello e prima ancora dal Tribunale, in relazione appunto all'addebito di cui al capo A8), per un importo indicato in 57.502.000.000 di lire. Tuttavia, effettuando un calcolo aritmetico delle varie somme in uscita dalla banca per le operazioni precedenti, come pure di quelle in entrata da correlare alle stesse, la differenza non ammonterebbe alla cifra suddetta, bensì a 43.972.000.000 di lire.

7.10 Con ulteriore motivo di ricorso, l'imputato deduce contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di una condotta distrattiva nei fatti di cui al capo A10). A suo dire, non vi sarebbe infatti prova di una effettiva distrazione, atteso che le polizze di credito furono comunque estinte prelevando somme provenienti da una sottoscrizione di obbligazioni della Holding Europea di Investimenti S.p.a., come descritto nei due capi successivi; perciò, se distrazione vi fu, questa non ebbe un'entità risultante dalla somma degli importi indicati in rubrica ai capi A10), A11) e A12), ma - a tutto voler concedere - solo di quelli degli ultimi due.

7.11 Il ricorrente si duole inoltre della conferma della declaratoria di penale responsabilità a suo carico, anche in punto di elemento soggettivo, in ordine ai reati sub Ali) e A12).

Ad avviso del B., sarebbe lo stesso consulente del P.M., Dott. Z., a sostenere che l'operazione di acquisto delle obbligazioni fu "preceduta da un'istruttoria che non aveva evidenziato le criticità della situazione patrimoniale" della Holding Europea di Investimenti S.p.a.; inoltre, secondo il ricorrente non vi sarebbe prova che lo studio del bilancio consolidato H.E.I. - Saif, disponibile presso la banca, fosse stato messo a disposizione dei componenti del consiglio di amministrazione, nè che fosse stato proprio lui a conoscere le condizioni reali della società emittente, volendole tenere ignote sia ai responsabili dei vari uffici che agli altri consiglieri.

L'assunto della sentenza della Corte di appello di Salerno si rivela contraddittorio nel momento in cui, apoditticamente, si individua in B.A. il soggetto che conosceva tutta la situazione sottesa all'operazione, e nel contempo esclude che l'avessero o potessero averla altri, come ad esempio il direttore generale R. (persona dotata di professionalità certamente più elevata di quella dell'imputato, e capace di cogliere elementi di criticità nella pratica che concorse ad istruire).

7.12 Nei successivi motivi di gravame, l'imputato segnala mancanza di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sua ritenuta responsabilità per i reati di cui ai capi A9), A13), A14), A15) e A16).

Il B. lamenta che la sentenza impugnata si limita a riprodurre la ricostruzione operata dal Tribunale, con riguardo ai primi due specifici addebiti, ancora una volta senza tenere conto dei motivi di appello.

Con riferimento al terzo reato fra quelli segnalati, si duole della attendibilità che risulta essere stata riconosciuta al teste l.p., secondo il quale egli ottenne un ampliamento del fido di cui già godeva (da 500 a 750 milioni di lire) senza la prestazione di ulteriori garanzie ma a condizione che versasse la differenza di tale scoperto, in contanti, a mani del B.;

ricostruzione oggettivamente non credibile, tenendo conto che il cliente - non legato da alcun vincolo di amicizia o cointeressenza con l'imputato - si sarebbe in futuro trovato nell'impossibilità di documentare l'impiego da lui fatto della somma, qualora la banca gliene avesse chiesta la restituzione.

La sentenza della Corte di appello si limiterebbe però, sul punto, a considerare valido ai fini dell'affermazione di penale responsabilità di B.A., lo stesso schema logico utilizzato per il capo A13, cui fa espresso richiamo pur trattandosi di una vicenda completamente diversa; così facendo, sarebbe venuta meno all'obbligo di motivare, soprattutto in relazione agli specifici motivi di appello presentati, fra i quali rimarrebbe palesemente senza risposta quello relativo alla - pur dedotta in subordine - derubricazione della fattispecie contestata nel meno grave reato di cui all'art. 217 legge fall..

Quanto al reato sub A15), come già esposto in precedenza, il B. lamenta che l'affermazione della sua responsabilità si fonda, sul punto, esclusivamente sulle dichiarazioni di F. P., in parte inutilizzabili e comunque rimaste senza i necessari riscontri.

A proposito dell'ultimo addebito evidenziato, il ricorrente si duole che la sentenza della Corte di appello, malgrado una serie di precise censure svolte nei motivi di impugnazione, si limita ad aderire alle conclusioni del Tribunale, senza tenere conto della circostanza - segnalata anche dai consulenti del P.M. - della concreta impossibilità per il consiglio di amministrazione del Credito Commerciale Tirreno S.p.a. di svolgere controlli effettivi sulla Metelliana S.p.a.; lamenta altresì difetto di motivazione, anche in questo caso, sulla pur richiesta derubricazione del reato in quello di bancarotta semplice.

7.13 Ulteriore motivo di ricorso presentato nell'interesse del B. riguarda la presunta mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla pur affermata responsabilità dell'imputato quanto ai reati sub E), F), F1) e G).

Anche a proposito degli addebiti in esame, relativi a presunte false appostazioni nei bilanci del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., il ricorrente deduce che la sentenza impugnata non si pronuncia affatto sui motivi di appello a suo tempo presentati, fondati su elementi ulteriori rispetto a quelli che il Tribunale aveva ritenuto di disattendere. La decisione di secondo grado farebbe anzi ampio ricorso alla tecnica della motivazione per relationem, più volte censurata dalla giurisprudenza di legittimità.

L'imputato sostiene altresì che non avrebbe dovuto comunque ritenersi raggiunta la prova della sua responsabilità, atteso che nessuna delle pur ipotizzate falsificazioni dei dati esposti nei bilanci del 1993 o 1994 ebbe valenza di condicio sine qua non dello stato di dissesto, realizzatosi - come la stessa sentenza del Tribunale aveva affermato - solo con le operazioni distratti ve di cui al capo A, produttive dell'effetto di azzeramento del patrimonio netto a partire dall'esercizio 1995. La motivazione deve perciò intendersi, sul punto, contraddittoria; ed è del tutto mancante quanto alla esposizione delle ragioni concrete e della stessa collocazione temporale del dissesto, aspetti sui quali erano stati spiegati numerosi motivi di appello muovendo dalla non condivisibile considerazione del giudice di primo grado secondo cui il dissesto doveva collocarsi durante la gestione del B., quando invece l'istruttoria compiuta aveva dimostrato che già nel 1990 vi erano crediti classificati in sofferenza (molti dei quali da eliminare invece dall'attivo patrimoniale, essendo in realtà da considerare previsioni di perdita) in misura inferiore di circa 19 miliardi di lire rispetto a quella reale, ricostruita a seguito di accertamenti tecnici. Ricostruzione, peraltro, ribadita dai consulenti del P.M. all'atto della deposizione durante il giudizio di appello.

7.14 B.A. censura altresì, sempre con riguardo alle contestazioni di bancarotta c.d. societaria, l'interpretazione della norma di cui alla L. Fall., art. 223, implicitamente desumibile dalla sentenza della Corte di appello di Salerno: ad avviso del ricorrente, la previsione incriminatrice, con riguardo alle ipotesi di falsa appostazione contabile, sanziona le condotte che abbiano spiegato efficacia causale determinante il dissesto, e non si siano invece limitate, al più, ad aggravare le conseguenze di un dissesto già in atto. Ciò, in particolare, a seguito della nuova formulazione della L. Fall., art. 223, comma 2, per effetto della novella del 2002.

7.15 Il ricorrente lamenta quindi erronea applicazione degli artt. 63 e 132 c.p., nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine al computo del trattamento sanzionatorio irrogato. Si duole in particolare della impossibilità di ricostruire, attraverso la lettura della sentenza impugnata, il calcolo della pena a lui inflitta, già nel momento in cui si individua una sanzione da cui muovere il computo che tuttavia risulta comprensiva sia della pena base che dell'aumento (di incerta entità) dovuto all'aggravante L. Fall., ex art. 219, comma 1; in tal modo, ne verrebbe vanificato ogni doveroso controllo in sede di gravame.

Per quanto comprensibile, il computo sarebbe poi erroneo in quanto, dopo l'indicazione di anni 9 di reclusione quale pena base, "compreso l'aumento previsto dall'art. 219, comma 1", viene effettuato un ulteriore aumento di mesi 6 "considerata l'aggravante del danno":

vale a dire la stessa già utilizzata per concorrere alla determinazione della pena base, in sostanza applicandosi due volte una sola aggravante.

Ulteriore profilo di contraddittorietà deriverebbe poi dalla circostanza che la Corte riduce la pena base soltanto di un anno, rispetto al computo operato dal Tribunale di Salerno, malgrado l'assoluzione (anche) del B. in ordine ai reati di cui ai capi H) ed S): per giustificare tale limitata riduzione, i giudici di secondo grado evidenziano la limitata gravità di quegli addebiti, che tuttavia erano stati ritenuti invece di particolare offensività dal Tribunale, con tanto di contestazione dell'aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità.

7.16 Infine, secondo il ricorrente vi sarebbe mancanza di motivazione della sentenza impugnata in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Ad avviso del B., la Corte di appello non avrebbe esposto alcunchè per giustificare la mancata concessione in suo favore delle circostanze ex art. 62 bis c.p., nè potrebbe considerarsi sufficiente un pur implicito richiamo alla gravità del fatto, trattandosi di profilo già incidente sulla scelta di una pena orientata verso i limiti massimi delle previsioni edittali. Lamenta altresì che non vi sarebbe stata risposta ai motivi di appello, nella parte in cui veniva sollecitata un'indagine idonea a verificare in concreto la personalità del ricorrente, con particolare riferimento alla necessità "di considerare l'incensuratezza dell'imputato, la leale collaborazione nella fase delle indagini preliminari e durante il dibattimento, l'assoluta estraneità ormai dall'epoca del fallimento dal mondo bancario-finanziario, le condizioni di difficoltà o di vero e proprio dissesto in cui già versava il Credito Commerciale Tirreno al momento dell'acquisto da parte del B. e l'irrisorietà delle pene irrogate ai soggetti, imputati in procedimento connesso, che negli atti processuali sono descritti come protagonisti della vicenda societaria".

8. Il difensore di fiducia di B.A., Avv. Leonardo Iannone, propone nuovi motivi di ricorso con atto depositato nella cancelleria di questa Corte il 18/05/2012.

8.1 Nell'interesse dell'imputato si deduce erronea applicazione dell'art. 219, comma 1, e art. 223, comma 2, nonchè inosservanza della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, rilevando l'intervenuta prescrizione dei reati di cui ai capi C), D), E), F), F1) e G) della rubrica.

In ordine a tali addebiti, dove al B. si contesta di avere in più occasioni realizzato false comunicazioni sociali sì da determinare il dissesto del C.C.T. in danno della stessa S.p.a., dei soci e dei creditori, sarebbe infatti - secondo l'accusa - configurabile l'aggravante ad effetto speciale prevista dalla L. Fall., art. 219, comma 1: ciò non sarebbe invece ammissibile, atteso che la norma incriminatrice (ovvero la L. Fall., art. 223, comma 2) sanziona gli amministratori di società dichiarate fallite o in stato di insolvenza quando abbiano commesso alcuni dei fatti contemplati, fra l'altro, dall'art. 2622 c.c. (ed è questo il caso), affermando tuttavia espressamente che a tali soggetti debba applicarsi la pena prevista dall'art. 216, comma 1, senza alcun richiamo alle ipotesi aggravate.

Ne consegue, ad avviso del ricorrente, la necessità di dichiarare prescritti i reati contestati ai capi C), D), E), F), F1) e G), per i quali la pena massima è pari ad anni 10: il termine di prescrizione, anche tenendo conto delle intervenute interruzioni, deve perciò intendersi pari ad anni 12 e mesi 6, avuto riguardo alla disciplina introdotta ai sensi della L. n. 251 del 2005 (applicabile alla fattispecie, visto che la sentenza di primo grado fu emessa dopo l'entrata in vigore della novella), e sarebbe venuto a maturare il 26/11/2009, ancor prima della sentenza di appello. Solo l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, essendo ad effetto speciale, determinerebbe un termine di prescrizione più elevato: ma, per le ragioni anzidette, si tratterebbe di circostanza non applicabile al caso de quo, ostandovi il chiaro dettato normativo.

8.2 Il difensore di B.A. lamenta altresì erronea applicazione della stessa L. Fall., art. 219, comma 1, anche con riguardo al disposto della L. Fall., art. 223, comma 1, in relazione agli addebiti di c.d. bancarotta impropria societaria contestati ai capi da A) ad A16); sostiene che, sul punto (essendo stato oggetto a suo tempo di specifico motivo di appello) la motivazione della sentenza di secondo grado sarebbe illogica e contraddittoria, rilevando ancora una volta l'intervenuta prescrizione dei reati appena evidenziati.

L'applicabilità dell'aggravante ad effetto speciale di cui si discute dovrebbe infatti intendersi preclusa non solo a proposito delle condotte sanzionate L. Fall., ex art. 223, comma 2, (per le ragioni esposte al punto precedente), bensì anche per quelle di cui al comma primo, essendo ivi disposto che agli amministratori di società fallite debbono applicarsi le pene stabilite dall'art. 216 qualora essi abbiano commesso alcuno tra i fatti preveduti in quest'ultima norma. A differenza da quanto rilevato per le ipotesi di bancarotta derivanti da false comunicazioni sociali, vi sarebbe qui un richiamo alla previsione dell'art. 216 - peraltro, da estendere anche alle fattispecie di bancarotta preferenziale - con riferimento alle condotte materiali tenute in concreto, e non solo quoad poenam:

secondo il ricorrente, tuttavia, il quadro non muterebbe, dal momento che l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può operare soltanto per i fatti direttamente contemplati dagli artt. 216, 217 e 218 (come impone la lettera dell'art. 219, comma 1), e non per quelli che trovino sanzione in virtù del successivo art. 223.

La pronuncia della Corte di appello di Salerno, avendo aderito all'indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui l'aggravante ricordata sarebbe invece configurabile anche per ipotesi di bancarotta L. Fall., ex art. 223, comma 1, (Sez. 5^, nn. 17690 e 30932 del 2010), merita pertanto di essere censurata per illogicità e contraddittorietà, dovendosi privilegiare il diverso orientamento che aveva ritenuto applicabile la stessa circostanza ad effetto speciale ai soli casi di bancarotta ordinaria e non a quelli di bancarotta fraudolenta impropria, stante il divieto di interpretazioni analogiche in malam partem (Sez. 5^, n. 8829 del 2009). Ne deriva secondo il ricorrente la necessità di prendere atto della prescrizione, maturata anche per i reati sub A), in ragione del decorso del termine massimo di 12 anni e 6 mesi; nè sarebbe decisiva la presunta disparità di trattamento per il soggetto (imprenditore individuale) responsabile di bancarotta fraudolenta ai sensi della L. Fall., art. 216, potenzialmente destinatario di un aumento di pena fino alla metà qualora la sua condotta abbia causato un danno patrimoniale ingente, rispetto all'amministratore di una società che debba rispondere di bancarotta in virtù della previsione della L. Fall., art. 223, comma 1, al quale potrebbe soltanto applicarsi l'aggravante comune - e non ad effetto speciale - di cui all'art. 61 c.p., n. 7: a tale riguardo, potrebbe al più rilevarsi la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale, ex art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza.

8.3 Con il terzo dei motivi nuovi di ricorso, l'Avv. Iannone richiama la doglianza mossa dal proprio assistito a proposito del rilievo riconosciuto nella sentenza della Corte territoriale al cosiddetto memoriale di F.P., a dispetto della esclusione di quell'atto dal novero delle prove utilizzabili, come risulterebbe dalla lettura della motivazione della pronuncia di primo grado, a pag. 69: lamenta pertanto violazione dell'art. 526 c.p.p., comma 1, in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. c), in quanto la decisione di merito sarebbe stata fondata anche su una prova non legittimamente acquisita in dibattimento. Richiama in particolare, a riscontro del proprio assunto, alcuni passi della motivazione della sentenza di appello - pagg. 26, 35 e 53 - dove il suddetto memoriale viene esplicitamente menzionato a sostegno delle tesi accusatorie.

8.4 Gli ultimi due motivi nuovi di ricorso si riferiscono al computo della pena, in ordine al quale il difensore di B.A. invoca vizi di violazione di legge: da un lato, la Corte di appello di Salerno non avrebbe indicato la pena base, procedendo poi a dare analiticamente contezza dei singoli aumenti di pena, dall'altro sarebbe stato applicato due volte l'aumento in virtù della già ricordata aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1.

Il ricorrente sostiene che, a pena di nullità, la sentenza di merito deve precisare quale sia la pena posta a base del computo, onde consentire (anche in sede di legittimità) il doveroso controllo sull'uso del potere discrezionale concernente la determinazione del trattamento sanzionatorio: ciò non sarebbe accaduto nel caso di specie, dal momento che la Corte territoriale risulta essersi limitata a indicare la pena iniziale di anni 9 di reclusione per i fatti sub A), già tenendo conto dell'aggravante ad effetto speciale.

Inoltre, detta circostanza avrebbe poi comportato un illegittimo, ulteriore aumento di mesi 6 di reclusione, operato dai giudici di appello con espresso riferimento alla "aggravante del danno", prima di indicare in anni 1 di reclusione il quantum relativo al cumulo giuridico per effetto della continuazione con i reati di cui ai capi E), F), F1) e G): anche quest'ultimo aumento sarebbe peraltro erroneo, ad avviso del difensore ricorrente, visto che era già stata applicata la circostanza ad effetto speciale dovuta al presunto danno patrimoniale di rilevante gravità.

9. Il 22/05/2012 sono state depositate memorie difensive a firma dell'Avv. Andrea Castaldo e dell'Avv. Carlo Mario D'Acunti, rispettivamente nell'interesse di D.M.G. e C. D..

I difensori sollecitano la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi presentati dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno e dalla parte civile, ovvero il rigetto dei medesimi atti di gravame. I due imputati, già condannati per falso ideologico in primo grado, sarebbero stati infatti assolti dalla Corte di appello in doverosa applicazione dei principi interpretativi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di configurabilità del delitto ex art. 479 c.p., nelle ipotesi di c.d.

discrezionalità tecnica: ciò perchè le norme dettate dalla guida della Banca d'Italia per la vantazione delle posizioni da esaminare in sede ispettiva, nei riguardi di un istituto bancario quale il Credito Commerciale Tirreno S.p.a., non possono intendersi connotate da caratteri di tassatività e vincolatività, esistendo al contrario un'area di forte discrezionalità rimessa agli ispettori, chiamati a compiere tutt'altro che mere verifiche del rispetto di una operazione tecnica (area giustamente sottolineata nella motivazione della pronuncia di secondo grado, in particolare a proposito della difficoltà di tracciare una separazione inequivoca tra posizioni da valutare come "incagli" e quelle da intendere invece quali "sofferenze"). Nella fattispecie non sarebbe pertanto ravvisabile alcun reato contro la fede pubblica, nè potrebbe dirsi in alcun modo sussistente - in capo agli imputati - il dolo necessario per ritenere integrata la violazione della legge penale.

Peraltro, ad avviso dei difensori del D.M. e del C., sia il P.g. che la parte civile giungerebbero a sollecitare, onde sostenere la correttezza delle proprie argomentazioni, una rilettura in fatto delle risultanze processuali, certamente inibita in sede di giudizio di legittimità: ciò accade, ad esempio, laddove si evocano alcune posizioni di correntisti della banca, a suo tempo esaminate dagli imputati, per segnalare che esse avrebbero dovuto essere diversamente qualificate all'esito dell'ispezione.

10. Gli Avv.ti Rosa Maria Landi e Gianfranco Mobilio, difensori di P.M., hanno depositato memoria il 23/05/2012.

Premessa una ricostruzione della vicenda in fatto, con specifico riferimento alla posizione del loro assistito, i difensori concludono per la declaratoria di inammissibilità o comunque per il rigetto dei ricorsi avanzati dal P.g. territoriale e dalla parte civile, rilevando che l'operazione di cui il P. fu protagonista, in quanto legale rappresentante della Immobiliare Salerno S.r.l.:

- non presentò alcuna anomalia, e comunque produsse ed esaurì i suoi effetti nell'aprile 1994, quando venne deliberata la riduzione dell'ipoteca, mentre le difficoltà dell'istituto bancario sorsero soltanto nel 1996, fino a pervenire alla dichiarazione dello stato di insolvenza l'anno ancora successivo;

- quand'anche fosse stata da considerare anomala, per il mancato rispetto di regole interne all'istituto, non vi è alcuna prova che tali norme fossero conosciute o conoscibili da parte dell'imputato;

- non produsse alcun danno sotto l'aspetto economico, sia perchè il valore di 3.500.000.000 di lire indicato nel bilancio del C.C.T. al 31/12/1994 quanto al credito nei confronti della Immobiliare Salerno costituiva il risultato di un calcolo erroneo (visto che la società era titolare di una apertura di credito per 2.500.000.000 di lire solo dal giugno 1991, e già nello stesso 1994 aveva operato versamenti in restituzione per 1.200.000.000), sia perchè nel febbraio 2002 il tutto venne definito con la cessione di quel credito a terzo soggetto, per l'importo di 723.040,00 Euro.

11. Lo stesso 23/05/2012 è stata depositata memoria per R. G., con la quale il difensore dell'imputato - Avv. Michele Tedesco - sollecita la conferma delle sentenza della Corte di appello di Salerno.

Il difensore censura le argomentazioni contenute nel ricorso del Procuratore generale, secondo cui vi sarebbero stati inequivoci "segnali di allarme", tali da non poter sfuggire all'adora direttore generale del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., con riguardo alle operazioni descritte ai capi A1) ed A12) della rubrica: ciò perchè, fra l'altro, l'ufficio crediti e l'ufficio titoli della banca avevano espresso valutazioni positive circa l'utilità delle operazioni medesime, e solo in epoca successiva emersero sia la mancanza di valore dei titoli Discounting Finance offerti in garanzia, sia la concreta destinazione delle somme di cui al finanziamento non già alla società IBS Italia, bensì alla Parfin facente capo al B. (che all'epoca godeva di peculiare affidabilità, essendo ritenuto il massimo esperto di mercato finanziario internazionale, si da rendere ragionevoli le prospettive che il C.C.T. cominciasse ad operare anche nel settore dei titoli esteri, a differenza del passato). Analogamente era accaduto a proposito dell'operazione concernente la Holding Europea di Investimenti S.p.a., laddove la relazione predisposta dagli uffici competenti non aveva segnalato alcun profilo di rischio, nè sarebbe stato possibile per il direttore generale rendersi conto che il B. - diversamente da quanto documentato in apparenza nella pratica in questione - aveva conservato il controllo della suddetta società, pure all'esito di un complesso scambio di pacchetti azionari.

Nella memoria si evidenzia altresì come fosse emersa prova della prolungata assenza dal servizio del R. per motivi di salute, anche in concomitanza dell'istruttoria delle pratiche di cui alle operazioni suddette (ergo, non è possibile sostenere che egli ne fu in concreto il relatore, pur risultando tale sua veste in base a dati puramente formali), nonchè della circostanza che l'imputato ed i suoi familiari ebbero ad investire tutti i loro risparmi in azioni del Credito Commerciale Tirreno, andando incontro ad una perdita economica ingente e con ciò sconfessando in radice l'ipotesi che egli avesse previsto l'eventualità del dissesto dell'istituto (nè essendo quelle somme, rilevanti per un bilancio familiare ma di minima entità rispetto all'entità del default della banca, sufficienti ad impedirne o ritardarne lo stato di insolvenza).

12. Da ultimo, il 28/05/2012 è stata depositata memoria difensiva da parte dell'Avv. Giampaolo Filiani, nell'interesse di A.L..

Con riguardo all'operazione relativa all'acquisto delle obbligazioni Cofip, il difensore lamenta che nel ricorso del P.g. viene sostenuto che la fideiussione rilasciata dai fratelli Am. non avrebbe potuto intendersi garanzia sufficiente a copertura dell'operazione, essendo detta fideiussione da riferire allo scoperto di conto corrente degli stessi Am. piuttosto che all'acquisto dei titoli: ricostruzione, questa, già sconfessata dalla sentenza della Corte territoriale con una puntuale smentita delle indicazioni offerte dai consulenti del P.M., tanto che le doglianze del Procuratore generale mirerebbero soltanto ad una rilettura in fatto di emergenze istruttorie già adeguatamente prese in considerazione dai giudici di merito. Analogamente, la Corte di appello aveva tenuto conto anche di quanto aveva a suo tempo prospettato il presidente del consiglio di amministrazione L.V., peraltro assunto come teste nel corso del processo: pure sotto tale profilo, dunque, le censure del P.g. ricorrente dovrebbero qualificarsi inammissibili in sede di legittimità.

L'Avv. Filiani documenta negli allegati alla memoria che le già ricordate fideiussioni vennero effettivamente riscosse, con il successivo integrale recupero dell'importo delle obbligazioni a suo tempo riacquistate dal C.C.T., così sostenendo che l'operazione non comportò alcun pregiudizio economico per l'istituto. Evidenzia poi che la delibera del consiglio di amministrazione cui prese parte l' A. (l'ultima per quanto lo riguardava, essendo già dimissionario) si limitava, su proposta dell'amministratore delegato, a dare mandato al comitato esecutivo per l'assunzione di eventuali delibere di acquisizione delle obbligazioni Cofip, senza vincolare in alcun modo il comitato stesso che rimaneva al contrario titolare della più ampia discrezionalità in proposito.

Conclude quindi a sua volta per la declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Cotte di appello di Salerno avverso la sentenza indicata in epigrafe, o comunque per il rigetto del ricorso medesimo.
Motivi della decisione

1.1 ricorsi del Procuratore generale e della parte civile.

1.1 L'assoluzione degli imputati condannati in primo grado per i reati sub H) ed S).

Deve convenirsi con il Procuratore generale presso questa Corte, con riguardo ai motivi di ricorso avanzati dal P.g. territoriale (e, nei limiti dei soggetti nei cui confronti era intervenuta costituzione di parte civile, dalla Liquidatela del Credito Commerciale Tirreno S.p.a.) avverso l'assoluzione di B.A., del F., dell' A., del S. e del M. in ordine al delitto contestato al capo H), nonchè avverso l'assoluzione degli stessi B.A. e M., di B.U. e del P. quanto all'addebito sub S): detti motivi si palesano inammissibili, giacchè è evidente che i ricorrenti tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti che riguardano la ricostruzione del fatto e l'apprezzamento del materiale probatorio, da riservare alla esclusiva competenza del giudice di merito e già adeguatamente valutati dalla Corte di appello.

Alla Corte di Cassazione deve ritenersi preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendo il giudice di legittimità soltanto controllare se la motivazione della sentenza di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito. Quindi non possono avere rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la verifica della correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Cotte, infatti, "non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (v., ex plurimis, Cass., Sez. 4^, n. 4842 del 02/12/2003, Elia).

Nè i parametri di valutazione possono dirsi mutati per effetto delle modifiche apportate all'art. 606 c.p.p., con la L. n. 46 del 2006, essendo stato affermato e più volte ribadito che anche all'esito della suddetta riforma "gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e (...), pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio" (Cass., Sez. V, n. 8094 dell'11/01/2007, Ienco, Rv 236540).

L'esame compiuto dai giudici di appello quanto alla vicenda del riacquisto delle obbligazioni Cofip - da pag. 97 a pag. 101 - risulta infatti analitico e congruo, con tanto di valutazioni adeguatamente motivate e perspicuamente esposte anche a proposito della pertinenza a quell'operazione della fideiussione prestata dai fratelli Am.: dinanzi ad argomentazioni che danno contezza sia degli assunti del L., sia del perchè non sarebbe sostenibile l'assunto dei consulenti del P.M. circa la riferibilità di quella garanzia personale a diversi rapporti di conto corrente, il Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno si limita nei motivi di ricorso a ribadire le proprie convinzioni in fatto, senza neppure segnalare che la sentenza impugnata aveva comunque tenuto conto - disattendendoli motivatamente - dei dati istruttori posti a fondamento di tali convinzioni.

Appaiono pertanto fondate e condivisibili le censure prospettate nei confronti del ricorso del P.g. nella memoria difensiva depositata nell'interesse di A.L..

Analogamente è a dirsi per il capo d'imputazione sub S): ricostruite le vicende dell'esposizione della Immobiliare Salerno S.r.l. nei confronti del C.C.T., e segnalato in particolare che era già intervenuto precetto notificato dalla banca alla società debitrice, nella sentenza viene spiegato che la delibera con cui si assentì alla riduzione dell'ipoteca conseguì ad una proposta di transazione proveniente dalla Immobiliare Salerno e da sedici promissari acquirenti degli appartamenti già realizzati su tre lotti.

L'istituto bancario avrebbe ricevuto 1.200.000.000 di lire, dei quali 300 milioni dalla società e 900 dagli acquirenti, acconsentendo alla cancellazione dell'ipoteca su quei tre lotti: la proposta trovò accoglimento da parte del comitato esecutivo con deliberazione del 13 aprile 1994, sicchè l'ipoteca originariamente iscritta per 5 miliardi venne ridotta a 3 miliardi e 800 milioni di lire. Valore che, in ogni caso, risultava superiore a quello del debito vantato dal Credito Commerciale Tirreno, giacchè il precetto sopra ricordato era stato notificato proprio per un importo di 3.800.000.000 di lire, prima che il debito in questione si riducesse di 1 miliardo e 200 milioni per effetto del versamento concordato in sede transattiva.

Restava il problema, che la sentenza impugnata giustamente sottolinea, del valore reale dei quattro lotti residui, non ancora liberati da ipoteca e per i quali non era ancora stata rilasciata concessione edilizia a causa dell'omessa realizzazione di alcune opere di urbanizzazione: da un lato, esisteva documentazione secondo cui il valore dei lotti in argomento era stato stimato (nel giugno 1993) in 1.400.000.000 di lire, a fronte peraltro di una stima per oltre 4.000.000.000 quanto ai tre lotti che sarebbero stati invece poi liberati; dall'altro, secondo diversi elaborati, i quattro lotti su cui permaneva garanzia reale valevano invece 650 milioni di lire ciascuno, e dunque complessivamente 2.600.000.000 (corrispondenti alla differenza tra il credito portato dal precetto già notificato e la somma versata alla banca). Dalle risultanze del processo, peraltro, emerge che non vi è certezza sull'inserimento della prima documentazione richiamata fra gli atti relativi all'istruttoria della pratica, presi in esame dal comitato esecutivo all'atto della delibera del 13 aprile 1994: mentre di certo vi era la seconda, per quanto parzialmente equivoca e non chiara.

A fronte di tali considerazioni, che attengono al fatto, le doglianze dei ricorrenti non sono idonee ad evidenziare vizi della motivazione rilevabili in sede di legittimità: è chiaro che i lotti liberati avevano un valore superiore a quello dei terreni non ancora edificati, ma la pronuncia non afferma certamente il contrario; come pure è ragionevole escludere una peculiare rilevanza al particolare della cessione di quel credito, anni dopo, per poco più di 720.000,00 Euro, ma in effetti la sentenza impugnata - nell'analizzare la contestazione di reato de qua - riconosce valore decisivo a ben altre emergenze istruttorie. E' poi fuorviante l'assunto del P.g. ricorrente secondo cui la pronuncia sarebbe incongrua in punto di correlazione tra motivazione e dispositivo, quanto alla formula assolutoria: nel momento in cui segnalano che il fatto non sussiste con riguardo agli imputati che avrebbero dovuto intendersi gli ispiratori dell'operazione distrattiva ( B. A., quale amministratore delegato e legale rappresentante del C.C.T., oltre che membro del comitato esecutivo, e P.M., in ipotesi l'extraneus favorito dalla delibera), i giudici di appello si limitano a sottolineare che per gli altri imputati non vi sarebbe comunque prova della partecipazione al presunto disegno strumentale a procurare vantaggi al P. e danni alla banca.

1.2 Il problema della responsabilità degli amministratori di società di capitali, ove privi di delega.

Il punto centrale delle doglianze del P.g. e della parte civile riguarda l'intervenuta assoluzione degli imputati diversi da B. A.: secondo i giudici della Corte di appello di Salerno, i vari componenti del consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo o del collegio sindacale, come pure il direttore generale del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., non concorsero con il B. (e con altri soggetti che videro separatamente definita la propria posizione processuale, all'esito di riti alternativi) nei fatti di distrazione o determinanti il dissesto, descritti nelle contestazioni di reato;

in primo grado, con statuizioni che i ricorrenti dimostrano di condividere, le conclusioni furono differenti, sia pure con riguardo alle posizioni e fattispecie peculiari ricordate in precedenza. Per tali posizioni, e relativamente a quegli specifici addebiti, il Tribunale di Salerno aveva ritenuto che gli imputati fossero venuti meno ai propri obblighi di controllo, obblighi il cui adempimento - qualora fossero stati invece opportunamente rispettati, con l'attivarsi di quei soggetti rimasti inerti dinanzi alla spoliazione del Credito Commerciale Tirreno - avrebbe dunque impedito il realizzarsi degli eventi dannosi concretizzanti le ipotizzate violazioni della legge penale.

Il P.g. territoriale e la parte civile propongono pertanto una lettura del quadro normativo vigente tale, nella ricostruzione offerta nei rispettivi (e, sul punto, sovrapponiteli) ricorsi, da doverne desumere l'esistenza di specifiche posizioni di garanzia in capo a chi sia chiamato a presiedere ad attività imprenditoriali nell'ambito di una società di capitali, pur non avendo compiti di amministrazione diretta: essi sostengono che l'interpretazione adottata dalla sentenza impugnata, pur essendo formalmente in linea con quell'assunto sul piano dei principi generali, giungerebbe a svuotare di contenuto le disposizioni incriminatrici in tema di diritto penale societario, laddove rivolte a soggetti che non si identifichino in un amministratore delegato.

Il quesito proposto all'attenzione di questa Corte presenta indubbie implicazioni in punto di fatto: si pensi, in particolare, in vista del potenziale dissesto di una società e della concreta valenza distrattiva di talune operazioni, alla possibilità di valutare o meno come rilevanti "segnali di allarme", per un amministratore privo di delega, alcuni specifici accadimenti di cui egli pervenga a conoscenza, ad esempio in vista dell'adozione di una delibera del consiglio di amministrazione ovvero dinanzi ad iniziative prospettate, come pure già intraprese, dall'organo delegato alla gestione; in ogni caso, rimane pur sempre un quesito di carattere squisitamente giuridico, segnatamente per la necessità di verificare quali concreti mutamenti di disciplina siano intervenuti, nella materia in esame, a seguito della novella legislativa del 2003 (non a caso richiamata sia nella pronuncia impugnata che negli atti di gravame). Non è pertanto possibile, a proposito dei motivi di ricorso che qui vengono in evidenza, aderire alla tesi dell'inammissibilità, quale sostenuta in alcune delle memorie difensive versate in atti, e fatta propria dal Procuratore generale presso questa Corte.

Va peraltro evidenziato che i problemi sottesi ai motivi di impugnazione appena illustrati risultano già affrontati nella recente giurisprudenza di legittimità: il più noto precedente in subiecta materia si rinviene nella pronuncia di questa Sezione n. 23838 del 04/05/2007, Amato, che il collegio ritiene di dover richiamare nelle parti di essenziale inquadramento delle tematiche qui di interesse, prestando espressa adesione ai principi allora affermati. Secondo la sentenza appena ricordata, "la riforma della disciplina delle società, portata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha certamente modificato il quadro normativo dei doveri di chi è preposto alla gestione della società ed ha compiutamente regolamentato la responsabilità dell'amministratore destinatario di delega. E, così, ha delineato, da un lato, il criterio direttivo dell'agire informato, che sostiene il mandato gestorio (art. 2381 c.c.; comma 5) e, correlativamente, l'obbligo di ragguaglio informativo sia a carico del presidente del consiglio di amministrazione (art. 2381 c.c., comma 1: provvede affinchè adeguate informazioni sulle materie iscritte all'ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri) sia in capo agli amministratori delegati, i quali, con prestabilita periodicità, devono fornire adeguata notizia sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonchè sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate (art. 2381 c.c., comma 5). In tal modo la riforma ha indubbiamente - con più puntuale disposizione letterale - alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe (...), responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa. E' stato, dunque, rimosso il generale obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione (già contemplato dall'art. 2392 c.c., comma 2), sostituendolo con l'onere di agire informato, atteso il potere (ma che si qualifica come doveroso nell'ottica dell'indicazione normativa sulla modalità di gestione informata) di richiedere informazioni (senza che ciò assegni anche un'autonoma potestà di indagine).

(...) Per ciò che interessa il versante penale, questa premessa riconfigura (o meglio giunge a conferma di approdi interpretativi già acquisiti dalla dottrina) la posizione di garanzia del consigliere non operativo, posto che l'obbligo di impedire l'evento, disciplinato quale tramite giuridico causale, dall'art. 40 c.p., comma 2, si parametra su una fonte normativa (nei termini assai lati assunti dalla giurisprudenza) che costituisce il dovere di intervento. Non è revocabile in dubbio, conseguentemente, che anche il ruolo penale dell'amministratore privo di delega risulti modificato (...). Occorre decisivamente segnare il limite operativo dell'art. 40 c.p., comma 2, quando sia correlato ad incriminazioni connotate da volontarietà, onde evitare di sovrapporlo o, peggio, sostituirlo con responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle fattispecie incriminatici, che configurando comportamenti modulati su consapevolezza dolosa, non consentono di addebitare all'autore di volontaria omissione, con argomentazione propria della colpa (e cioè con rimprovero di imperizia, o di negligenza, o di imprudenza), l'evento che egli ha l'obbligo giuridico di impedire. La stessa riforma ha operato in questa direzione, poichè la relazione accompagnatrice del testo legislativo accenna alla necessità di evitare ingiustificate letture estensive della responsabilità degli amministratori.

L'analisi del profilo della responsabilità discendente dall'art. 40 c.p., comma 2, per condotte connotate da volontarietà e la configurazione della posizione di garanzia che qualifica il ruolo dell'amministratore evidenzia due momenti, tra loro complementari, ma idealmente distinti ed entrambi essenziali. Il primo postula la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, il secondo - discendente da obbligo giuridico - l'omissione consapevole nell'impedirlo. Entrambe queste due condizioni debbono ricorrere nel meccanismo tratteggiato dal nesso di causalità giuridico di cui si discute. Non è, quindi, responsabile chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (sì che l'omissione dell'azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza).

Ovviamente, l'evento può essere oggetto di rappresentazione anche eventuale, pertanto chi consapevolmente si sia sottratto nell'esercitare i poteri-doveri di controllo attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella sua rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dalla sua inerzia, può rispondere di essi ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2. Ma - pur in questa dilatazione consentita dalla forma eventuale del dolo - non può esservi equiparazione tra conoscenza e conoscibilità dell'evento che si deve impedire, attenendo la prima all'area della fattispecie volontaria e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, all'area della colpa (...). La penale responsabilità, invero, prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo, mentre postula la dimostrazione di un effettivo ed efficace ragguaglio circa l'evento oggetto del doveroso impedimento: non può ragionevolmente assumersi che l'unico canale di conoscenza dell'amministratore, rilevante ex art. 40 cpv. c.p., si riduca all'informazione resa in seno all'ambito del consiglio di amministrazione o al solo ambito societario. Una volta dimostrata la conoscenza del probabile evento pregiudizievole, connesso alla situazione offerta all'attenzione del soggetto garante, si prova l'esistenza del suo dovere di scongiurare lo stesso, non essendo stati ridotti gli obblighi e le responsabilità dell'amministratore (verso la società ed i creditori) volti a prevenire pregiudizi da condotta illecita. Tanto è dato riscontrare nel contesto dell'art. 2392 c.c., comma 2 (che al proposito, sia pure nei limiti della disciplina del nuovo art. 2381 c.c., risulta immutato) che sancisce la responsabilità verso la società per quanti, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non si siano attivati per impedire il compimento dell'evento pregiudizievole, norma che non precisa la modalità dell'acquisizione dell'informazione sul fatto illecito o ingiustamente pregiudizievole.

L'amministratore (ed è indifferente che egli sia o meno dotato di delega) è penalmente responsabile (art. 40 c.p., comma 2) per la commissione dell'evento che ebbe a conoscere (anche se al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non scongiurò. Altro discorso, ancora, attiene alla conoscibilità dell'evento e, quindi, per restare nell'area del fatto volontario, situazione desunta dalla percezione dei segnali di pericolo o di sintomi di patologia insiti nell'operazione coinvolgente la società, evincibili dagli atti sottoposti alla sua attenzione. (...) Occorre per l'accusa la dimostrazione della presenza di segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito, nonchè l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta, ma per l'amministratore non operativo (oltre, per quanto dianzi detto, la prova della percezione degli stessi in capo agli imputati)".

Approfondendo gli stessi elementi già oggetto di disamina nella sentenza Amato, ed ancora nel 2007, questa Sezione rilevava e ribadiva altresì che la disciplina della c.d. causalità normativa prevista dall'art. 40 cpv. c.p., disegna un rapporto eziologico "considerato per la correlazione (non naturalistica, bensì discendente dalla legge) tra la condotta di omissione ed un evento illecito. Rapporto, al contempo, equiparato alla causazione naturalistica alla condizione della esistenza di un obbligo giuridico sul soggetto, proteso ad evitare il fatto pregiudizievole. In altre parole la disposizione non attiene alla disciplina dell'elemento soggettivo, a cui sono dedicati l'art. 42 c.p. e ss.. Sulla base di questa doverosa premessa può affermarsi che la struttura del reato, ancorchè filtrata dal portato dell'art. 40 cpv. c.p., richiede la configurazione propria della disciplina generale e, per i reati a sfondo di volontarietà, la compiuta dimostrazione della rappresentazione e volontà del soggetto agente (...).

Il combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 43 c.p., non deroga alla lettura dell'elemento psicologico del reato: la nozione di dolo, come la giurisprudenza ha ormai insegnato da tempo, è estensibile anche al c.d. dolo eventuale e, cioè, alla commissione di una condotta omissiva, accompagnata dalla rappresentazione del rischio di consentire in tal modo il verificarsi dell'evento che egli ha l'obbligo di impedire. Ma non (..) la rappresentazione della mera possibilità dell'evento che (risultando sempre configurabile nella prospettazione delle cose future) non è idoneo paradigma valutativo.

Necessita, invece, una qualche misura di probabilità dell'evenienza e che questa, sia pur modesta ma più concreta prospettiva, venga rappresentata dall'autore dell'omissione. Diversamente il giudizio che si limiti alla conoscibilità del fatto approda inevitabilmente a schemi propri della colpa, improponibili per le fattispecie (come la bancarotta fraudolenta) contrassegnate dal dolo. La giurisprudenza ha sottolineato, nella valutazione del dolo eventuale, l'importanza del vaglio di segnali di allarme che siano stati percepiti dal soggetto agente, intesi come momenti rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o criteri di valutazione professionale, del pericolo dell'evento. Sul giudice grava l'onere di fornire compiuta dimostrazione dell'elemento oggettivo del reato, senza valersi di alcuna scorciatoia presuntiva: pertanto, il Collegio (pur consapevole di qualche pregresso orientamento contrario) non ritiene che sia sufficiente la dimostrazione della consapevole condotta di omissione, per dedurre, per ciò solo, la necessaria rappresentazione degli eventi pregiudizievoli. Tanto, invero, non attesta ancora la rappresentazione dell'accadimento che si deve impedire (che è l'oggetto del meccanismo normativo in discorso).

(...).

La prova della ricorrenza della rappresentazione dell'evento può aversi, per quanto sopra detto e nell'ottica del c.d. "dolo eventuale", nella dimostrata percezione dei segnali di allarme da parte di chi è tenuto - per la posizione di garanzia assegnatagli dall'ordinamento - ad uno specifico devoir d'alerte (che include in sè anche l'obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l'accadimento dannoso). Ovviamente questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione - in rapporto al sintomo allarmante - deve esplicarsi in concreto, volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da adeguata giustificazione (...)" (Cass., Sez. 5^, n. 43101 del 03/10/2007, Mazzotta, menzionata sia nella pronuncia impugnata che nei motivi di ricorso).

Nell'anno successivo, tornando ad occuparsi delle stesse tematiche, la Sezione Quinta rilevava nuovamente che nei reati omissivi "la responsabilità concorsuale può ascriversi anche nella forma del dolo eventuale, quando chi agisce si rappresenta la probabilità del fatto illecito e, ciononostante, permanga nella colpevole inerzia, così accettando il rischio della perdita patrimoniale per l'organismo che amministra. Da tanto consegue, ai sensi dell'art. 2740 c.c., la responsabilità per la lesione degli interessi dei creditori (...). Lo schema su cui si fonda questo percorso argomentativo è quello descritto dall'art. 2392 c.c. (comma 1), che prevede una serie di obblighi imposti all'amministratore sia dalla legge sia dall'atto costitutivo, adempimenti che debbono essere assolti con diligenza (parametrata, all'epoca del fatto, a quella scritta al mandatario, oggi - a seguito della riforma societaria - alle esigenze imposte dall'incarico nella specifica competenza propria). Più precisamente, la norma accolla (comma 2) agli amministratori il dovere di porre in essere ogni possibile condotta per impedire eventi dannosi per la società, tra cui - espressamente previsto - ogni obbligo inerente alla conservazione del patrimonio a tutela delle pretese creditorie (art. 2394 c.c.). Per questa ragione è configurabile in capo all'amministratore della società una posizione di garanzia, che lo obbliga ad un comportamento che tuteli gli interessi indicati dal codice (e da eventuali leggi speciali), in assenza del quale sorge la responsabilità penale (sostanzialmente per omesso controllo, indipendentemente dal generale dovere di vigilanza che l'art. 2392 c.c., nella sua previgente formulazione, imponeva) per il tramite del nesso causale, descritto dall'art. 40 c.p., comma 2 (accettabile con giudizio prognostico, di natura controfattuale, consueto per la verifica del nesso eziologico proprio dei reati omissivi). La prova della rappresentazione dell'evento non suppone una completa conoscenza dello stesso, nè è richiesto che pervenga al soggetto per tramiti formali o predeterminati, anche se - si ribadisce - la sua dimostrazione discende (...) dalla positiva verifica della rappresentazione di una ragionevole probabilità del suo avveramento. Al riguardo, nell'economia del dolo eventuale, sono di decisivo rilievo gli indici di allarme, sintomi eloquenti del fatto in itinere. Della loro relativa consapevolezza soltanto (e non dell'accadimento nella sua compiuta fisionomia) deve darsi pieno riscontro in capo all'imputato, preposto alla posizione di garanzia, ma la dimostrata percezione di questi sintomi di pericolo, concreta adeguato riscontro alla penale responsabilità, salvo che sia fornita convincente e legittima giustificazione sulle ragioni che hanno indotto il soggetto all'inerzia. E' altrettanto certo che la prova della responsabilità penale deve cadere pure sulla capacità di impedimento del fatto, una volta che il preposto alla posizione di garanzia abbia percepito l'evenienza dannosa. Diversamente si accollerebbe a costui un dovere connotato da inesigibilità" (Cass., Sez. 5^, n. 45513 del 05/11/2008, Ferlatti).

Inoltre, con la sentenza n. 9736 del 10/02/2009, Cacioppo, questa Sezione ha osservato che "l'art. 2392 c.c., comma 2, quale modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003, sancisce che gli amministratori, fermo restando quanto previsto dall'art. 2381 c.c., comma 3, sono solidalmente responsabili se, essendo al corrente di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. Per effetto di questa disposizione è stato dunque rimosso l'obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituendolo con il dovere di agire informato, atteso il potere/dovere di ciascun amministratore di chiedere e di ottenere informazioni. La posizione di garanzia e l'obbligo di intervento del consigliere non operativo postulano dunque, ai fini di un'affermazione di responsabilità a norma del combinato disposto dell'art. 40 c.p., e art. 2392 c.c., la rappresentazione dell'evento nella sua portata illecita e la volontaria omissione nell'impedirlo, per cui è responsabile colui che abbia avuto la rappresentazione del fatto pregiudizievole, quantomeno sotto il profilo eventuale, accettandone il rischio (..).

D'altro canto la rappresentazione eventuale dell'evento e l'accettazione del rischio deve risultare, al di là ed anche in contrasto con le informazioni date dall'amministratore e/o dagli amministratori operanti, da segnali perspicui, peculiari nonchè anomali".

Da ultimo, e sempre nel 2009, si è affermato che, in base alle previsioni di cui agli artt. 2392 e 2403 - 2407 c.c., "gli amministratori hanno l'obbligo di svolgere l'attività di gestione nel pieno rispetto della legge ed hanno l'obbligo di salvaguardare il patrimonio aziendale; i sindaci hanno un dovere di vigilanza e di controllo in ordine alla corretta gestione della società, controllo che non è meramente formale e non è esclusivamente contabile, spettando ai sindaci anche un potere surrogatorio delle funzioni gestorie finalizzato a supplire alla eventuale inerzia degli amministratori. Le riforme di cui al già richiamato D.Lgs. n. 6 del 2003, pur non avendo apportato sostanziali modifiche ai poteri ed agli obblighi degli amministratori non operativi e dei sindaci, hanno certamente ristretto l'ambito della responsabilità penale di tali soggetti con l'introduzione di due rilevanti criteri.

Si tratta del criterio dell'agire informato, che sostiene il mandato gestorio e che è previsto dall'art. 2381 c.c., comma 5.

Correlativamente è stato previsto l'obbligo del ragguaglio informativo in capo al presidente del consiglio di amministrazione ed all'amministratore delegato (...). Naturalmente siffatte modifiche sui poteri degli amministratori e dei sindaci, ai quali non sembra più competere un generale obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, che è stato sostituito dall'obbligo di intervenire nel momento in cui siano stati debitamente informati di quanto sta per essere deciso dagli organi sociali, non possono non incidere sulla responsabilità penale ex art. 40 cpv. c.p., che trova il suo fondamento in una disposizione normativa che impone il dovere di intervenire (...).

In conclusione, quindi, per affermare la responsabilità penale dei soggetti in considerazione è necessario che vi sia la prova che gli stessi siano stati debitamente informati oppure che vi sia stata la presenza di segnali peculiari in relazione all'evento illecito, nonchè l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi (...). La mancata attivazione di tali soggetti in presenza di tali circostanze comporta l'affermazione della penale responsabilità avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento di danno" (Cass., Sez. 5^, n. 36595 del 16/04/2009, Bossio).

I principi affermati nelle varie sentenze appena enumerate rivelano il costante approccio ermeneutico della giurisprudenza di questa Sezione ai temi qui di interesse; tanto da potersi prendere atto che, già nella disamina appena riportata, sono contenuti tutti gli spunti essenziali per verifica re se, nell'ambito del presente processo, vi siano o meno i presupposti per ipotizzare il concorso con B. A. di F.A. e R.G., quanto al reato sub A1), e dello stesso R., di Pa.Gi., D.L.E. e Bu.Vi. - peraltro deceduto medio tempore - quanto all'addebito di cui al capo A12).

Come detto, non è più esistente in capo all'amministratore non operativo uno specifico obbligo di vigilanza sugli atti compiuti dal delegato alla gestione, per quanto da intendere - sotto la vigenza delle norme ante riforma del 2003 - di carattere sintetico e non già analitico, vale a dire non esteso fino a contemplare un dovere di controllo su ogni singolo atto: agli amministratori deleganti non si richiede oggi di vigilare, bensì di "valutare" l'andamento della gestione della società in base alle informazioni ricevute, e sono proprio quelle informazioni - che ciascun amministratore può chiedere ai delegati di fornire in consiglio, sino a dover ritenere che egli debba attivarsi per ottenerle, qualora ricorrano dati sintomatici di potenziali fatti pregiudizievoli per la società - a costituire il parametro su cui fondare in capo al soggetto privo di delega l'obbligo di attivarsi per impedire quegli eventi dannosi, obbligo che può fondare in sede penale una responsabilità ex art. 40 c.p., comma 2.

Non va trascurato, peraltro, che il quadro di riferimento normativo mantiene delle ambiguità, laddove - prima ancora di dover discutere di elemento psicologico del reato - l'obbligo giuridico rilevante in punto di nesso di causalità viene sì previsto dall'art. 2932 c.c. quale dovere di impedire il compimento di fatti pregiudizievoli per la società, ovvero di eliminarne od attenuarne le conseguenze dannose, prescrivendo tuttavia ai titolari di quella posizione di garanzia di attivarsi in termini assolutamente generici. Se sono da intendere solidalmente responsabili, al pari di chi abbia cagionato un evento, coloro che "non hanno fatto quanto potevano" per impedirlo, occorre che quei poteri siano ben determinati, ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l'evento sarebbe stato scongiurato: il che non sembra essere nella legislazione vigente, tanto che discettare di precetti del codice civile che sarebbero stati violati dagli imputati, come si legge nel ricorso della Liquidatela del C.C.T., può apparire ai fini penalistici esercizio poco più che accademico, a meno di trovarsi dinanzi ad inosservanze patenti.

Il problema, in ogni caso, appare ultroneo rispetto alle necessità di approfondimento della presente vicenda processuale, dal momento che i reati sopra ricordati risultano per lo più posti a carico degli imputati - diversi da B.A. - per avere essi preso parte a deliberazioni di organi collegiali quali il consiglio di amministrazione od il comitato esecutivo, nelle quali veniva a sostanziarsi (secondo l'impianto accusatorio) l'operazione distrattiva. Si tratterebbe perciò, nella maggioranza dei casi, di condotte attive realizzate attraverso il voto favorevole alle delibere de quibus, non invece di omissioni per avere essi assistito con colpevole inerzia a condotte materialmente ascrivibili a terzi:

quest'ultima caratteristica potrebbe connotare la posizione del D. F., componente del collegio sindacale (posizione per la quale non vi è tuttavia ricorso da parte del P.g.), e in parte quella del R..

Assume invece rilievo centrale la generale previsione secondo cui, ai sensi dell'art. 2381 c.c., "gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato", che non può peraltro leggersi senza tenere conto che la diligenza imposta agli stessi amministratori è oggi quella "richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze" (ex art. 2392 c.c.): in proposito, deve sottolinearsi che la relazione al D.Lgs. n. 6 del 2003, spiega come tale parametro di diligenza "non significa che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell'amministrazione dell'impresa sociale, ma significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione".

E' allora evidente che, forse già prima del 2003 ma certamente all'esito del D.Lgs. n. 6 (applicabile anche alla vicenda in esame ex art. 2 c.p., avendo quelle norme indubbia valenza integrativa del precetto di cui alla L. Fall., art. 223, quanto agli elementi extrapenali della fattispecie incriminatrice), in tanto si può discutere di dolo, per l'amministratore privo di delega, in quanto egli sia concretamente venuto a conoscenza di dati da cui potesse desumersi un evento pregiudizievole per la società, od almeno il rischio che un siffatto evento si verificasse, ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo. Dunque, occorre la conoscenza del "segnale di allarme" (per ricorrere ad un frasario ormai consolidato), non già la mera conoscibilità.

Non solo: per dare senso e concretezza al dolo eventuale più volte invocato nella giurisprudenza di questa Corte come parametro minimo per la riferibilità psicologica di quell'evento pregiudizievole al soggetto attivo del reato, occorre che il dato indicativo del rischio di verificazione (del "segnale di allarme", per intendersi) dell'evento stesso non sia stato soltanto conosciuto, ma è necessario che l'amministratore se lo sia in effetti rappresentato come dimostrativo di fatti potenzialmente dannosi, e non di meno sia rimasto deliberatamente inerte.

Argomentando diversamente, infatti, non si potrebbe ancora discutere di dolo, neppure nella forma del dolo eventuale, che richiede pur sempre da parte del soggetto attivo - per potersi affermare che un fatto è da lui voluto, per quanto in termini di mera accettazione del rischio che si produca - la determinazione di orientarsi verso la lesione o l'esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice: un conto è, dunque, che l'amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un "segnale di allarme" percepito come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l'interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri.

Solo nel primo caso l'amministratore potrà essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni od omissioni, non già nel secondo, dove - ferma restando la prospettiva di ravvisare una sua responsabilità in sede civile, ricorrendone i meno rigorosi presupposti - sarebbe ipotizzabile soltanto una sua condotta colposa, al massimo nella forma della colpa cosciente per avere egli ritenuto erroneamente che le capacità manageriali di qualcun altro avrebbero di certo impedito il verificarsi di un pur previsto evento: e l'ordinamento non consente la condanna in sede penale per fatti di bancarotta connotati da mera colpa, neppure se in ipotesi aggravati ex art. 61 c.p. n. 3.

Tanto premesso, non sembra potersi condividere l'accezione stessa del dolo eventuale come implicitamente fatta propria dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Salerno: sostenere, ammesso che si possa, che alcuni fattori di anomalia di una pratica erano tali da emergere alla semplice lettura del carteggio, comporta ex se un chiaro addebito di colpa, financo grave, nei confronti di chi non li colse; ma non basta ancora per giungere ad affermare che chi espresse un voto favorevole e concorse così ad autorizzare un'operazione pregiudizievole per la società lo fece volendo perseguire quell'intento, o restando consapevolmente indifferente verso conseguenze della propria condotta che comunque si era prefigurato.

Gli stessi esempi offerti dal P.g. ricorrente per censurare le osservazioni dei giudici di secondo grado, laddove questi ultimi avrebbero enfatizzato circostanze di fatto non decisive (l'episodio del telefax taroccato, e la ricostruzione del F. secondo cui B.A. aveva sempre agito occultando la verità agli amministratori privi di delega ed ai sindaci), appaiono in realtà indicativi dell'impossibilità logica di aderire alla tesi della consapevole accettazione di un rischio di eventi pregiudizievoli da parte degli Imputati. Vero è che la vicenda del fax attiene al solo reato sub A1), cronologicamente successivo rispetto ad altri episodi, ma è chiaro che il B. intese in quella occasione presentare - anche - ai presunti correi una realtà mistificata ed artefatta, al fine di nascondere una situazione concreta che avrebbe altrimenti potuto portare l'organo collegiale a determinazioni diverse: perciò, egli dimostrò non solo di comportarsi come in effetti il F. sostenne fosse un suo abituale modus operandi, ma altresì di non poter confidare sulla certezza che gli altri amministratori ne avrebbero - per consolidata indifferenza verso le sorti della società - condiviso le proposte operative.

B.A., come la sentenza impugnata evidenzia, godeva sicuramente di prestigio ed autorevolezza all'interno del Credito Commerciale Tirreno, venendo considerato un esperto come pochi quanto ad operazioni che si presentavano nuove nella pratica corrente di quella banca: ma fu comunque costretto a creare un documento fasullo, per superare possibili obiezioni formali. Nè il carattere di novità di quelle operazioni di investimento in titoli esteri potrebbe ritenersi sufficiente per fondare tout court un'ipotesi di responsabilità dolosa in capo a chi non si documentò adeguatamente in proposito, onde escludere l'evenienza di transazioni produttive di danni: affermare che il C.C.T. non si era mai occupato di investimenti del genere rimane pur sempre un'asserzione significativa per discutere di colpa a carico di chi contravvenne alla primaria regola cautelare di assumere il maggior numero possibile di informazioni, e sempre colpa sarebbe - come già rilevato - quella di chi avesse paventato il verificarsi di eventi negativi ma, fidandosi della professionalità e dell'esperienza del B., fosse rimasto sicuro che non si sarebbero realizzati.

Con motivazione immune da vizi sul piano della ricostruzione logica, la Corte territoriale ha peraltro segnalato che, con riguardo a tutte le operazioni contemplate dalla rubrica, alcune delle quali oggettivamente assai complesse, gli elementi obiettivi da cui evincerne il carattere rischioso o addirittura illecito erano emersi ben dopo l'adozione delle delibere adottate dal consiglio di amministrazione e/o dal comitato esecutivo, visto che gli stessi organi interni alla banca, nel corso delle varie istruttorie, avevano regolarmente espresso valutazioni di carattere positivo.

Altrettanto logica e convincente è poi la considerazione svolta dalla Corte territoriale sulla decisiva circostanza che alcuni imputati - tra i quali il F. e il R. - ebbero ad investire denaro in azioni del Credito Commerciale Tirreno o nelle stesse operazioni deliberate dalla banca, andando così incontro a perdite economiche rilevanti: in punto di prova del dolo, sia pure come semplice accettazione del rischio di eventi pregiudizievoli, si tratta di dati in assoluta ed incontrovertibile antitesi.

Infine, il collegio non può che prendere atto della puntuale e complessa ricostruzione offerta dai giudici di secondo grado a proposito delle operazioni che il C.C.T. pose in essere "nei confronti di soggetti a monte dell'azienda bancaria ricompresi nel gruppo di controllo o comunque legati a quest'ultimo da rapporti partecipativi", pure a fronte del divieto imposto nel dicembre 1993 in una nota della Banca d'Italia. Con riguardo all'addebito sub A12), che la Holding Europea di Investimenti S.p.a. potesse ancora considerarsi o meno facente capo ad B.A. costituiva elemento di ben difficile verifica, se è vero che un rapporto ispettivo della stessa Banca d'Italia posteriore all'operazione evidenziò come l'attivo della H.E.I. fosse "prevalentemente costituito da rapporti infragruppo di non agevole vantazione", che quel dato non era stato comunque segnalato nel corso dell'istruttoria compiuta dagli organi interni della banca e che, all'esito di quelle informazioni non disponibili per i presunti complici del B., si potevano solo nutrire perplessità su quanto la H.E.I. fosse in concreto solvibile.

All'atto della delibera del 16/11/1995, peraltro, risulta che B.A. assicurò formalmente il consiglio di amministrazione circa l'insussistenza di qualsivoglia conflitto di interessi, comportandosi pertanto ancora una volta come soggetto aduso a trarre in inganno gli altri componenti dell'organo collegiale.

1.3. L'assoluzione del D.M. e del C. dall'addebito di falso ideologico.

La consolidata giurisprudenza di questa Corte afferma che "in tema di falso ideologico in atto pubblico, l'art. 479 c.p., va interpretato nel senso che se il p.u., chiamato ad esprimere un giudizio, è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto. Diversamente se l'atto da compiere fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la valutazione ad una verifica. In tal caso il p.u. esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità, non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è implicitamente vincolato" (Cass., Sez. 5^, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto, Rv 216123). Nella motivazione della pronuncia di cui si è appena riportata la massima viene evidenziato che la giurisprudenza di legittimità "è costante nel ribadire che il falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.) è escluso in relazione alle mere manifestazioni di giudizio. Ma ha anche precisato che il falso può sussistere in relazione all'adozione dei criteri (parametri legali e indici) che consentono di formularlo, quando essi siano difformi da quelli prescritti".

Più di recente, si è affermato che "in tema di falso ideologico in atto pubblico, con riferimento alle diagnosi ed alle valutazioni compiute dal medico, va ritenuto che anche tali giudizi di valore, al pari degli enunciati in fatto, possono essere non veritieri. Sicchè, nell'ambito di contesti che implichino l'accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità ideologica allorchè il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati in modo da rappresentare la realtà al pari di una descrizione o di una constatazione. Ne consegue che - è ideologicamente falsa la valutazione che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondata su premesse contenenti false attestazioni" (Cass., Sez. 5^, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, Rv 236550: la vicenda riguardava un caso di misurazione della vista compiuta da un medico ospedaliere) nell'esercizio delle sue funzioni, con successivo rilascio di certificato attestante, in difformità dal vero, che il paziente aveva un visus di 10 su 10; il certificato era stato poi utilizzato dal richiedente per essere assunto quale vigile urbano).

Premessi tali principi, che la Corte ritiene di richiamare e condividere integralmente, occorre dunque chiedersi quali caratteristiche di vincolatività avessero i criteri cui gli imputati avrebbero dovuto ispirarsi per svolgere l'ispezione che era stata loro affidata, ed in particolare per classificare in termini di incaglio, sofferenza o quant'altro le posizioni esaminate: ove esistano norme chiare e precettive per esprimere il giudizio in argomento, non ci si troverebbe dinanzi ad attività di valutazione (insuscettibili di sfociare in attestazioni ideologicamente false), bensì a mere verifiche, dove sarebbe invece possibile discutere di condotte lesive della pubblica fede.

A dire dei ricorrenti, il C. e il D.M. non avrebbero dovuto assumere a base della propria indagine le sole linee guida della Banca d'Italia che risultavano vigenti alla data dell'ispezione, ammesso che queste potessero considerarsi generiche piuttosto che analiticamente prescrittive: ciò perchè gli ispettori avrebbero dovuto esaminare con piena libertà di mezzi, e non solo in base agli atti ufficiali, se un soggetto debitore nei confronti della banca fosse stato o meno in grado di rispettare gli impegni assunti.

In concreto, sia il P.g. territoriale che la parte civile sostengono che gli indici contenuti nelle linee guida della Banca d'Italia, sui quali ancorare la valutazione di una posizione in termini di sofferenza o di incaglio, non sarebbero tassativi.

Non è chi non veda, a questo punto, la radicale contraddittorietà dell'impianto logico sotteso ai motivi di ricorso: da un lato, si rappresenta che non sarebbe ragionevole demandare delicati compiti di verifica ispettiva, anche al fine di comprendere se un istituto bancario versi in pericolo di dissesto, assegnando a chi vi provvede criteri di riferimento non vincolanti, o meramente esemplificativi;

dall'altro, si evidenzia però che le linee guida della Banca d'Italia sarebbero appunto non vincolanti e non tassative, senza neppure indicare con il dovuto rigore quali sarebbero le altre norme - di legge, regolamento, consuetudine od altra natura - da cui si dovrebbero ricavare le disposizioni idonee ad integrarle.

Sono gli stessi ricorrenti, in definitiva, ad affermare che in tema di ispezioni bancarie non esistono quei "parametri normativamente determinati e tecnicamente indiscussi" che possono fondare addebiti di falso ideologico in capo a chi se ne discosti.

Attengono poi al merito le doglianze espresse in ordine alla determinazione degli ispettori di limitare le proprie osservazioni al periodo sino all'inizio dell'attività, senza tenere invece conto dei fatti registrati durante l'ispezione, ed ancor più inerenti al fatto risultano le considerazioni analiticamente dedicate ai singoli rapporti che, ad avviso dei ricorrenti, avrebbero dovuto essere classificati come sofferenza piuttosto che come incaglio, o viceversa.

Conclusivamente, si impone il rigetto dei ricorsi del P.g. e della parte civile: quest'ultima deve essere pertanto condannata a rifondere le spese del presente grado di legittimità.

2. I ricorsi presentati nell'interesse del D.L. e del D. F..

Secondo la difesa del D.L., l'imputato - consigliere di amministrazione - avrebbe dovuto essere assolto con la formula "per non aver commesso il fatto", ascrivibile invece ad altri: ciò perchè egli non fu concretamente in grado di avvedersi che la Holding Europea di Investimenti S.p.a. era da un lato ancora riferibile al gruppo facente capo al B., e dall'altro non solvibile. Soggetti diversi - in primis, lo stesso B.A. - erano invece ben consapevoli di quelle circostanze, e poterono confidare su relazioni istruttorie limitate all'essenziale, idonee a trarre in inganno i componenti dell'organo collegiale rimasti all'oscuro delle reali implicazioni di quell'operazione.

L'argomento è però fallace, in quanto al fatto-reato (secondo l'ipotesi accusatoria, la distrazione si realizzò proprio con la delibera del consiglio di amministrazione) concorse, sul piano materiale, anche il D.L., risultando in astratto autore della condotta attiva in cui ebbe a sostanziarsi l'illecito penale; ed è indiscutibilmente sul piano del difetto di dolo che egli doveva invece essere mandato esente da responsabilità.

La difesa del D.F., che invece faceva parte del collegio sindacale e dunque risponderebbe non già per una condotta positiva ma a titolo di reato omissivo improprio, argomenta che non vi sarebbe comunque prova del nesso causale fra l'omissione ipotizzata a carico dell'imputato e l'evento non impedito a dispetto dell'obbligo giuridico su di lui gravante: in particolare perchè, a tacer d'altro, non vi sarebbe alcuna certezza sulla possibilità concreta che l'adozione del presunto comportamento doveroso avrebbe in effetti scongiurato l'evento medesimo, consistente nelle false comunicazioni sociali di cui sub E).

In realtà, esaminando la motivazione della sentenza di primo grado (sulla posizione del D.F., in vero, la pronuncia della Corte di appello non si sofferma più di tanto) si rileva che la responsabilità dell'imputato fu affermata in ragione del suo "comportamento inerte tenuto all'assemblea degli azionisti che aveva approvato il bilancio (in data 09/06/1994), per violazione del dovere di segnalare in quella sede ai soci del C.C.T. i rilievi in ordine alla reale natura ed alla rischiosità dei titoli iscritti all'attivo. Rilievi invece espressi in seno al collegio sindacale un quarto d'ora dopo la chiusura dei lavori dell'assemblea dei soci". Ne deriva un duplice ordine di considerazioni:

- innanzi tutto, è proprio il comportamento tenuto in concreto dall'imputato ad offrire la dimostrazione per tabulas che egli aveva sì percepito i più volte ricordati "segnali di allarme", ma senza ritenerli (per erronea, superficiale o comunque colposa valutazione) tali da doverne fare menzione in sede di approvazione del bilancio;

verosimilmente, per mero scrupolo o per una più generica cautela, egli reputò invece di darne contezza in sede di collegio sindacale, ma anche tale condotta appare in antitesi con il supposto dolo, visto che - se fosse stato partecipe dell'ordito criminale, o ne avesse almeno accettato le conseguenze - si sarebbe ben guardato dal lasciare traccia di un pur minimo segnale di allerta;

- è corretto affermare che, se il D.F. avesse invece rappresentato quelle larvate riserve un quarto d'ora prima, non si sarebbe (quanto meno, con apprezzabile grado di probabilità) giunti all'approvazione del bilancio, quanto meno non in quei termini ed in quel momento, perciò risulta corretta la sua assoluzione in punto di elemento soggettivo.

Entrambi i ricorsi debbono pertanto essere rigettati, con le conseguenti statuizioni di legge in punto di spese processuali.

3. Il ricorso presentato da B.A. ed i motivi nuovi sviluppati nell'interesse dell'imputato dal suo difensore di fiducia.

3.1 In moltissimi dei propri motivi di ricorso, il B. lamenta che la Corte di appello di Salerno si sarebbe limitata a riportarsi in concreto alla motivazione della sentenza di primo grado, senza tenere conto di specifici motivi di gravame: il rilievo riguarda le doglianze sopra elencate ai punti 7.1, 7.3, 7.8, 7.11 e 7.12.

Va preliminarmente ricordato che, per consolidata giurisprudenza, "quando non vi è difformità di decisione, le motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado possono integrarsi a vicenda in modo da formare un tutto organico ed inscindibile. Il giudice di appello, pertanto, non ha l'obbligo di procedere ad un riesame degli argomenti del primo giudice che ritenga convincenti ed esatti purchè dimostri, anche succintamente, di aver tenuto presenti le doglianze dell'appellante e di averle ritenute prive di fondamento" (Cass., Sez. 4^, n. 1198 del 24/11/1992, Pelli, Rv 193013; v. anche Sez. 3^, n. 4700 del 14/02/1994, Scauri, Rv 197497, e Sez. 2^, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino); principio ribadito più volte, sino all'affermazione secondo cui "le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata" (Cass., Sez. 3^, n. 13926 del 01/12/2011, Valerio, Rv 252615).

Inoltre, è stato già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che, "in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato" (Cass., Sez. 4^, n. 24973 del 17/04/2009, Ignone, Rv 244227).

Orbene, alla luce dei principi appena ricordati, e tenendo conto del significato economico delle operazioni distratti ve contestate all'imputato (dove, a mero titolo di esempio, si segnalano prestiti della banca a società riconducigli allo stesso B.A., con somme poi utilizzate a fini diversi da quelli rappresentati nella richiesta e addirittura impiegate per consentire a società che detenevano quote azionarie del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., sempre riferibili all'imputato, di versare il dovuto a titolo di aumento del capitale dell'istituto bancario), soffermarsi su precedenti pratiche di finanziamento che avevano avuto esito diverso, sia pure su iniziativa dello stesso amministratore delegato, è a dir poco un fuor d'opera. Come pure non ha granchè senso discutere di presunta buona fede del B. a proposito della serietà dei titoli della Discounting Finance BV, essendo egli arrivato financo a realizzare un fotomontaggio per attestare falsamente quale valore avessero i titoli in questione.

Nè appare in alcun modo sostenibile che anche B.A., soggetto interessato direttamente (attraverso società del gruppo che a lui faceva capo) alle operazioni contestate nei vari capi d'imputazione, sarebbe stato tratto in inganno da istruttorie superficialmente curate dagli organi interni della banca, quando risulta che egli - immutando il vero, e sempre a tacer d'altro - assicurò il consiglio di amministrazione sull'inesistenza di suoi interessi all'interno della Holding Europea di Investimenti S.p.a..

I motivi di ricorso sopra sintetizzati al punto 7.12 appaiono peraltro strumentali - analogamente a quelli sub 7.2, 7.4, 7.5, 7.6, 7.7, 7.9 e 7.10 - ad offrire una ricostruzione in fatto alternativa rispetto a quella cui risultano pervenuti i giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio: operazione, questa, di cui si è già evidenziata l'inammissibilità analizzando alcuni dei motivi di ricorso del Procuratore generale territoriale e della parte civile.

I rapporti fra il B. e il l., come pure con il Lo.

e con il F., l'entità complessiva delle presunte distrazioni di cui ai diversi capi d'imputazione, la prova che l'imputato fosse stato l'ispiratore delle istruttorie predisposte per le varie operazioni, o comunque che fosse consapevole delle carenze di contenuto di quelle pratiche, come si pervenne all'estinzione di una polizza di credito della Saif S.p.a., sono tutti temi che attengono al merito del processo, e non ne è consentita alcuna rivalutazione in questa sede.

Ergo, il collegio non può che richiamare la motivazione della sentenza di appello (in unicum con quella di primo grado) e prendere atto della ivi affermata posizione dominante dell'imputato all'interno dell'istituto bancario di cui tramite le società da lui fondate o che aveva contribuito a costituire - aveva acquistato il pacchetto di maggioranza: le considerazioni in fatto sottese a quella affermazione risultano espresse con dovizia e sovrabbondanza di argomenti, certamente non rivisitabili da questa Corte.

3.2 A proposito del F., merita comunque ulteriore considerazione il motivo di ricorso sopra riportato al punto 7.5, nella parte in cui si ricollega ad altre censure mosse dal B. in punto di utilizzabilità del memoriale a firma dello stesso F.P.; a prescindere dalla credibilità da riconoscere o meno agli assunti di quest'ultimo, il documento in parola sarebbe stato espressamente dichiarato inutilizzabile dal Tribunale di Salerno, ma i giudici di merito (anche la Corte di appello alle pagg.

26, 35 e 53, come afferma l'Avv. Iannone nei motivi nuovi: v. il precedente punto 8.3) avrebbero comunque attinto a piene mani dal contenuto di quello scritto, per fondare l'affermazione di penale responsabilità del B..

In realtà, però, le cose non stanno come il ricorrente afferma.

Innanzi tutto, sia il B. che il suo difensore sono venuti meno ad un onere di allegazione, così violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in base al quale è onere del ricorrente, che lamenti l'omessa o travisata vantazione di specifici atti processuali, provvedere alla trascrizione in ricorso dell'integrale contenuto degli atti medesimi, nei limiti di quanto già dedotto, perchè di essi è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto, a meno che il fumus del vizio non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione dell'atto di impugnazione (v.

in proposito Cass., Sez. 5^, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, nonchè Sez. 6^, n. 29263 dell'08/07/2010, Cavanna). Detto principio si desume dalla previsione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), che (nel testo novellato ad opera della L. n. 46 del 2006) pone a carico del ricorrente un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta (v. Cass., Sez. 4^, n. 3360 del 16/12/2009, Mutti); onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi (integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice et similia).

Tornando al memoriale del F., si è affermato che il Tribunale ne avrebbe dichiarato l'inutilizzabilità, ma a tal fine sia il ricorso iniziale che l'atto contenente i motivi nuovi si limitano a rappresentare la circostanza dando atto che i giudici di primo grado scrissero in motivazione che l'istruzione dibattimentale si era articolata, fra l'altro, attraverso "la produzione dei documenti offerti dal Pubblico Ministero (con l'esclusione dei memoriali dei coimputati in procedimenti connessi) (...)". Si tratta però, all'evidenza, di un'affermazione con cui il Tribunale dava soltanto contezza dello svolgimento del processo in quella fase: ovviamente, essendo il F. ancora da escutere ex art. 210 c.p.p., non sarebbe stato possibile ammettere ab initio la produzione di atti contenenti sue dichiarazioni. Ma ciò non significa affatto che quel documento non abbia avuto più ingresso nel fascicolo degli atti utilizzabili ai fini della decisione, ad esempio su istanza di parte all'esito della deposizione del F. ed avendovi egli fatto riferimento nel corso dell'esame.

Negli atti qui trasmessi non si rinviene la copia del verbale di udienza in cui intervenne il suddetto esame ex art. 210 c.p.p., nè di quello contenente l'ordinanza conclusiva emessa dal Tribunale, recante l'indicazione degli atti dichiarati utilizzabili: il che esclude la possibilità di ritenere fondata la censura mossa in proposito dai ricorrenti, i quali - laddove da quel verbali fosse stata realmente ricavabile la conclusione dell'inutilizzabilità del memoriale - avrebbero avuto l'onere di produrli in copia, o di riprodurne il contenuto in parte qua.

3.3 In ordine alle doglianze prospettate dal B. e riassunte ai punti 7.13 e 7.14 della parte dedicata alla ricostruzione in fatto, queste si palesano infondate quanto alla lamentata tecnica di rinvio della motivazione della sentenza di appello per relationem a quella del Tribunale, per le ragioni già evidenziate in precedenza.

Non è poi corretto affermare, come sostiene invece l'imputato, che nel giudizio di merito non sarebbe stata raggiunta la prova, quanto alle condotte di cui ai capi E), F), F1) e G), dell'avere le false appostazioni contabili ivi descritte concorso a determinare il dissesto del Credito Commerciale Tirreno S.p.a., piuttosto che essersi limitate ad aggravare un dissesto già altrimenti esistente.

Basta in proposito prendere atto della motivazione della sentenza di appello, alle pagine da 42 a 44, per rilevare come ad esempio i giudici di secondo grado hanno considerato, quanto al bilancio relativo all'esercizio 1994, che erano stati esposti dati attivi in relazione allo stato patrimoniale rappresentando la disponibilità di titoli per ben 58 miliardi di lire, risultati invece inesistenti: è in re ipsa, considerato che il patrimonio aziendale (poi azzerato per effetto delle perdite accertate) ammontava a 69 miliardi, che una falsa apposizione contabile di quella entità non potesse che contribuire a determinare il dissesto dell'istituto, di cui si era continuato ad attestare una situazione economico-patrimoniale radicalmente diversa da quella reale.

3.4 Quanto agli stessi addebiti di bancarotta societaria, debbono essere a questo punto esaminati i motivi nuovi di ricorso con cui il difensore di B.A. eccepisce l'intervenuta prescrizione dei reati in argomento: eccezione peraltro che la difesa estende, per mero errore materiale, sino a ricomprendere anche delitti - quelli di cui ai capi C) e D) dell'originaria rubrica - per i quali era in realtà intervenuta sentenza di assoluzione del B. già in primo grado, per difetto di dolo. Come ricordato, si sostiene la tesi secondo cui l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità (che, in quanto ad effetto speciale, comporta termini massimi di prescrizione non ancora maturati) non sarebbe applicabile alle condotte previste dalla L. Fall., art. 223, comma 2, norma che richiama soltanto le pene stabilite dal precedente art. 216;

peraltro, il difensore del B. ritiene che la circostanza prevista dalla L. Fall., art. 219, comma 1, non potrebbe trovare applicazione neppure nei casi di bancarotta impropria contemplati al primo comma dello stesso art. 223, laddove si sanzionano gli stessi fatti materiali previsti dall'art. 216, se commessi dalle categorie di soggetti ivi indicate, ma senza alcun riferimento alle fattispecie aggravate.

Deve però prendersi atto che i motivi di impugnazione appena ricordati non hanno alcuna attinenza con quelli che erano stati oggetto del ricorso originario, presentato direttamente dal B.. Il difensore scrive, evidentemente rendendosi conto del problema, che i propri motivi debbono intendersi "svolti nell'interesse dell'imputato ricorrente B.A., ad integrazione e completamento di quelli già dal medesimo rassegnati", addirittura dando ai primi due motivi nuovi la numerazione R2) ed R3), al terzo quella A.1.1) ed agli ultimi la numerazione S1) ed S2), così intendendo richiamare l'ordine espositivo del primo atto di gravame; ma, mentre le questioni concernenti il memoriale del F. ed il trattamento sanzionatorio erano state in effetti trattate dall'imputato nel proprio ricorso del 16/08/2011, non altrettanto è a dirsi per il problema dell'applicabilità dell'aggravante L. Fall., ex art. 219, comma 1, alle ipotesi criminose previste dal successivo art. 223.

In particolare, il punto R) del ricorso a firma del B. riguarda l'interpretazione del precetto di cui all'art. 223, comma 2, (si tratta delle doglianze esaminate al paragrafo precedente), e nulla ha a che vedere con il profilo in diritto trattato, per la prima volta, dal suo difensore in sede di motivi nuovi. Le Sezioni Unite di questa Corte insegnano però che "i motivi nuovi a sostegno dell'impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell'art. 585 c.p.p., comma 4, quanto nelle norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311 c.p.p., comma 4) ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità (art. 611 c.p.p., comma 1), devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell'originario atto di gravame ai sensi dell'art. 581 c.p.p., lett. a)" (sent n. 4683 del 25/02/1998, Bono, Rv 210259).

In applicazione del principio ora richiamato, pronunce successive vi hanno espresso costante adesione, giungendo recentemente ad affermare che "in tema di ricorso per cassazione, la presentazione di motivi nuovi è consentita entro i limiti in cui essi investano capi o punti della decisione già enunciati nell'atto originario di gravame, poichè la "novità" è riferita ai "motivi", e quindi alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame su singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati con il ricorso" (Cass., Sez. 1^, n. 40932 del 26/05/2011, Califano, Rv 251482). Esemplificando in relazione a questioni di carattere peculiare, si è fra l'altro ritenuto che "costituiscono punti distinti della decisione, come tali suscettibili di autonoma considerazione, la questione relativa all'adeguatezza del giudizio di bilanciamento tra le circostanze, investita dall'appello originario, e quella inerente alla configurabilità dell'aggravante dell'ingente quantità di sostanza stupefacente ex art. 80, comma secondo, del D.P.R. n. 309 del 1990, oggetto del motivo aggiunto proposto in sede di gravame" (Cass., Sez. 6^, n. 73 del 21/09/2011, Aguì, Rv 251780); e che "al ricorrente in cassazione non è consentito, con i motivi nuovi di cui all'art. 611 c.p.p., dedurre una violazione di legge se era stato originariamente censurato solo il vizio di motivazione" (Cass., Sez. 5^, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, Rv 252320).

Sussiste pertanto una causa di inammissibilità dei motivi nuovi di ricorso, limitatamente al tema dell'applicabilità dell'aggravante ad effetto speciale L. Fall., ex art. 219, comma 1, ai reati sanzionati dall'art. 223. In ogni caso, al fine di segnalare che non ricorrerebbero comunque gli estremi per sollevare questioni di legittimità costituzionale o per rimettere gli atti alle Sezioni Unite come invece sollecitato dal difensore del B., è opportuno evidenziare che la più recente giurisprudenza di questa Sezione ha oramai superato l'orientamento espresso con la sentenza Truzzi (n. 8829 del 18/12/2009), menzionata dal ricorrente a sostegno dei propri argomenti.

Si è infatti affermato, ritenendo la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità applicabile alle ipotesi di bancarotta impropria, che per le condotte di cui alla L. Fall., art. 223, comma 1, in ragione del "rinvio formale ai fatti di bancarotta contemplati dalla L. Fall., artt. 216 e 217 (...), è invero del tutto compatibile l'applicazione dell'aggravante (ad effetto speciale) già prevista da queste disposizioni per le pene indicate in detti articoli. E', dunque, riscontrabile un'innegabile continuità prescrittiva del precetto penale, senza indebita estensione dello stesso in pregiudizio del reo. Invece, relativamente alle condotte che soltanto in forza della previsione della L. Fall., art. 223, assumono rilievo penale, quali le previsioni di cui al comma 2, ai nn. 1 e 2 di detta norma, il discorso è più delicato.

Ma (...) un raccordo naturale tra la norma incriminatrice e la statuizione della L. Fall., art. 219, comma 1, è costituito dall'inciso che rinvia alle pene stabilite dall'art. 216, inciso che si coniuga con quella della L. Fall., art. 219, disposizione quest'ultima che richiama la prima. Pertanto, nel caso della violazione della L. Fall., art. 216 (artt. 217 e 218), per la quale - quando il danno ai creditori è di rilevante gravità - è contemplata sanzione aggravata nella misura speciale dettata dalla L. Fall., art. 219, non si ravvisa un incolmabile lato tra la fattispecie incriminatrice e quella che configura le circostanze per la bancarotta propria, considerata la espressa continuità nascente dal raccordo testuale delle previsioni. Assunto che esclude l'inevitabile necessità di ricorrere ad interpretazione analogica, Inammissibile perchè pregiudizievole per l'imputato (diversamente dal caso dell'aggravante dettata dalla L. Fall., art. 219, comma 2 - nel caso di pluralità di fatti di bancarotta - estensivamente applicabile alla L. Fall., art. 223, perchè foriera di un risultato più favorevole per l'autore dei plurimi fatti di reato, rispetto al cumulo materiale dei reati o alla disciplina della continuazione ex art. 81 cpv. c.p.) e che ragionevolmente consente di equiparare il trattamento sanzionatorio per la bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, alla generale disciplina del reato. Per converso, diversamente opinando, si perverrebbe ad un irragionevole esito sperequato a scapito dell'imprenditore individuale, passibile di pena ben più severa (o dell'autore del comportamento riconducale all'art. 223, comma 1, nel suo richiamo alla L. Fall., art. 216), rispetto al trattamento disposto per il soggetto societario, astrattamente responsabile di fatti che appaiono ben più gravi (si pensi al caso della causazione volontaria del fallimento) o parimenti dannosi, il quale risulterebbe destinatario della sola aggravante comune di cui all'art. 61 c.p., n. 7 (che impone aumento di pena pari ad un terzo del massimo edittale), foriera di più lieve trattamento repressivo" (Cass., Sez. 5^, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti).

A identiche conclusioni è pervenuta una successiva pronuncia, secondo cui "la diversa struttura del reato di bancarotta c.d.

impropria di cui alla L. Fall., art. 223, rispetto alla fattispecie propria contemplata dal precedente art. 216, non può condurre ad una indiscriminata preclusione verso l'applicazione dell'aggravante di cui si discute; e ciò in quanto il citato art. 223, comma 1, contenendo un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dagli artt. 216 e 217 della legge, rende compatibile l'applicazione dell'aggravante in virtù del raccordo normativo tra la norma incriminatrice e la statuizione della L. Fall., art. 219, comma 1, costituito dall'inciso che rinvia alle pene stabilite dall'art. 216: inciso che si coniuga con quello della L. Fall., art. 219, disposizione quest'ultima che richiama la prima" (Cass., Sez. 5^, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani; nella pronuncia si ribadisce altresì che "la soluzione adottata ha anche il pregio di evitare la disparità di trattamento che, diversamente opinando, si realizzerebbe a discapito dell'imprenditore individuale rispetto all'amministratore di società, in rapporto ad illeciti di pari gravità se non più gravi nel caso del soggetto societario: il che, sebbene non possa costituire il criterio dominante nella ricostruzione della voluntas legis, vale comunque a confortare l'esito interpretativo raggiunto").

Da ultimo, ancora nel solco del superamento dell'interpretazione suggerita dalla sentenza Truzzi del 2009, questa Sezione ha osservato - con argomentazioni che ad avviso del collegio meritano di essere pienamente condivise e confermate - che "un'analisi limitata al rinvio contenuto nella L. Fall., art. 219, comma 1, indiscutibilmente riferito ai soli artt. 216, 217 e 218 della stessa legge, è riduttiva. La complessità del sistema di rinvii esistente fra le norme operanti nel caso di specie richiede infatti che detta analisi comprenda anche il rinvio che lo stesso art. 223 (...) fa all'art. 216; per effetto del quale le condotte e le pene previste da quest'ultima norma sono richiamate per sancire l'applicabilità delle seconde alle prime anche laddove le condotte siano realizzate nell'ambito di società dichiarate fallite da amministratori o altri soggetti agli stessi equiparati per la loro funzione gestionale. Il raffronto rende evidente la diversità sostanziale delle due disposizioni di rinvio. La prima, infatti, opera configurando per i fatti tipici previsti dalla L. Fall., art. 216, oltre che per quelli incriminati dagli artt. 217 e 218, la circostanza aggravante data dalla rilevante gravità del danno; il rinvio svolge pertanto in questo caso una funzione integrativa, sotto il profilo degli elementi accidentali del reato, delle fattispecie criminose di cui alle norme richiamate. La seconda, invece, ricomprende nella fattispecie incriminatrice di cui all'art. 216 i fatti, corrispondenti alla stessa, posti in essere nella gestione di società fallite da parte di soggetti della stessa incaricati; ed ha in conseguenza una funzione estensiva dell'ambito di operatività della stessa fattispecie-base del reato di bancarotta fraudolenta.

E' partendo dal rinvio presente nell'art. 223 che deve dunque procedersi nella costruzione della complessiva fattispecie della bancarotta impropria del gestore di società. E l'integralità del richiamo contenuto nello stesso alla fattispecie di cui all'art. 216, non può che intendersi come implicitamente riferito anche all'elemento accidentale di quest'ultima, costituito dalla circostanza aggravante della rilevanza del danno, introdotto in detta fattispecie dal rinvio operato dall'art. 219, comma 1; norma che deve pertanto ritenersi anch'essa indirettamente richiamata dall'art. 223, comma 1, come applicabile al reato di bancarotta impropria ivi previsto (...).

Elementi che si oppongano alle predette conclusioni non sono ravvisa bili nella recente pronuncia di questa Corte (Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv 249665) in ordine alla diversa aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, costituita dalla commissione di una pluralità di condotte tipiche del reato di bancarotta nell'ambito della stessa procedura fallimentare, ed all'autonomia di dette condotte in una previsione strutturalmente improntata ad un regime di cumulo giuridico pur se formalmente qualificata in termini circostanziali; ed in particolare nei passaggi motivazionali nei quali detta previsione aggravatrice viene ritenuta operante per i fatti di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, nonostante opposte indicazioni suggerite dal dato letterale, in quanto sostanzialmente favorevole all'imputato rispetto alle deteriori conseguenze sanzionatorie dell'ordinaria disciplina della continuazione, con ciò (...) intendendo a contrariis non applicabile ai fatti di cui sopra raggravante del danno rilevante, meramente pregiudizievole per l'imputato. La lettura integrale della motivazione della citata sentenza sul punto (per la quale è agevole osservare, in aderenza al consolidato orientamento di questa Suprema Corte, che il richiamo contenuto nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull'applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l'aggravante sui generis di cui si discute. D'altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v'è ragione, ricorrendo l'eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria. L'applicazione analogica della L. Fall., art. 219, ai reati di bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione favorevole all'imputato) rende viceversa evidente come le Sezioni Unite abbiano puntualmente recepito i rilievi in precedenza esposti sull'inclusione, nell'oggetto del rinvio posto dalla L. Fall., art. 223, di tutte le componenti del trattamento sanzionatorio della fattispecie della bancarotta fraudolenta, fra le quali non può che comprendersi l'aggravante di cui si discute in questa sede, e sulla sostanziale equiparazione normativa delle fattispecie della bancarotta propria e di quella impropria, che rende irragionevole la limitazione alle prime dell'operatività dell'aggravante in parola; puramente aggiuntivo dovendosi intendere, nel complessivo articolato dell'argomentazione, l'ulteriore accenno al favor rei che contraddistingue in concreto la particolare posizione della disciplina della pluralità di fatti di bancarotta" (Cass., Sez. 5^, n. 10791 del 25/01/2012, Bonomo).

3.5 Inammissibile è parimenti il motivo di ricorso esposto dal B., quanto alla presunta mancanza di motivazione nella sentenza impugnata in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Dalla costante giurisprudenza di questa Corte si ricava il principio che "la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell'art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purchè non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (v. Cass., Sez. 6^, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (ex plurimis, Cass., Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone).

La particolare gravità del fatto-reato e delle conseguenze dannose che ne derivarono, pertanto, ben può assurgere a criterio dirimente per la valutazione del giudice di merito in punto di negazione delle circostanze ex art. 62 bis c.p., non trattandosi di elementi di cui sia consentito tenere conto solo ai fini dell'individuazione della pena base nell'ambito dei limiti edittali previsti dalla norma incriminatrice. In linea con l'assunto appena evidenziato, questa Corte ha affermato che per la concessione o il diniego delle circostanze attenuanti generiche non si richiede "che siano esaminati tutti i parametri di cui all'art. 133 c.p., essendo sufficiente che si specifichi a quale di esso si sia inteso fare riferimento" (Cass., Sez. 1^, n. 33506 del 07/07/2010, Biancofiore, Rv 247959).

3.6 E' invece fondato, nei limiti di cui appresso, il motivo di ricorso segnalato ai punti 7.15 (quanto all'impugnazione presentata personalmente da B.A.) e 8.4 (quanto ai motivi nuovi svolti dal difensore) della parte in fatto, in ordine al computo della pena.

Non si ravvisano vizi, o addirittura ragioni di nullità della sentenza di appello, nell'avere la Corte territoriale omesso di indicare la pena a base del computo, ancorando invece il trattamento sanzionatorio su una pena già comprensiva dell'aumento dovuto all'aggravante L. Fall., ex art. 219, comma 1: ciò perchè, come più volte ricordato, si tratta di circostanza ad effetto speciale.

Nè può ritenersi ingiustificata la riduzione della pena nei soli limiti di un anno, pure a seguito dell'intervenuta assoluzione dell'imputato dai reati sub H) ed S), oggettivamente di gravità minore rispetto a quelli contestati al capo A): d'altro canto, per quanto appena rilevato la concreta riduzione deve intendersi superiore, dal momento che la pena base indicata dalla Corte di appello - non così il Tribunale - risulta già comprensiva dell'aumento dovuto all'aggravante.

Legittimo è altresì l'aumento dovuto alla continuazione tra i fatti sub A) e quelli di cui ai capi E), F), F1) e G), del tutto indipendente dalla ravvisata ed autonoma circostanza prevista dall'art. 219, comma 1.

Deve tuttavia annullarsi senza rinvio la statuizione contenuta nella pronuncia impugnata quanto all'ulteriore aumento di mesi 6 di reclusione, "considerata l'aggravante del danno", sulla pena di anni 9 che era stata espressamente determinata ritenendo in essa "compreso l'aumento previsto dall'art. 219, comma 1": in tal modo, l'aggravante in parola risulta essere stata, illegittimamente, computata due volte. Nè potrebbe intendersi quel secondo aumento da correlare ad una autonoma operatività della circostanza quanto ai reati, pure aggravati in ragione della stessa norma, di bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, contestati ai capi da E) e G): la peculiare gravità di un addebito, ove comunque ritenuto in continuazione con altro reato di gravità maggiore, può determinare soltanto un cumulo giuridico di entità superiore, nei limiti massimi consentiti dalla legge. Del resto, nel caso di specie è evidente che l'aumento di mesi 6 di reclusione riguarda i reati per cui era stata appena determinata la pena base - già tenendo conto, però, della stessa aggravante - in anni 9, visto che detto aumento precede quello dovuto al cumulo giuridico per i reati ulteriori.

La pena inflitta ad B.A., espunti i mesi 6 come sopra evidenziati, deve conclusivamente rideterminarsi in anni 10 di reclusione.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi del P.g., della parte civile e degli imputati D. L. e D.F., e condanna le suddette parti private, singolarmente, al pagamento delle spese processuali.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B. A., limitatamente al trattamento sanzionatorio, che ridetermina in anni 10 di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso del B..
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza