La Sezione Lavoro della Cassazione torna ad argomentare sul licenziamento discriminatorio.
Corte di Cassazione Sez. Lavoro - Sent. del 07.03.2012, n. 3547
Presidente Vidiri - Relatore Stile
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 1 luglio 2002, il Dott. T.E. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma l'allora S. Italia S.p.A. (poi Agenzia N. per l'A. degli I. e lo S. d'Impresa S.p.A.), chiedendo: la dichiarazione di nullità del licenziamento in quanto discriminatorio, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e con richiesta di risarcimento del danno; in subordine, l'accertamento della inefficacia del suddetto licenziamento fino al termine della malattia (poiché intimato in costanza della stessa) nonché della sua “ingiustificatezza”, con condanna della Società al pagamento dell'indennità supplementare prevista dall'art. 29 del contratto collettivo per i dirigenti delle aziende commerciali, “nella misura pari al corrispettivo di 18 mesi di preavviso”; in ogni caso, il risarcimento dei danni patrimoniali e non che gli sarebbero derivati dalle “dichiarazioni diffamatorie dell'ing. C. - Amministratore delegato - pubblicate su (omissis) “, per un importo pari a Euro 1.030.000,00.
S. Italia S.p.A. si costituiva in giudizio, contestando la fondatezza di tutte le domande formulate nel ricorso e chiedendone il rigetto.
Con successivi ricorsi depositati l'11 luglio 2002 e l'8 novembre 2002, S. Italia S.p.A. proponeva opposizione a due decreti ingiuntivi (n. 2426 del 2002 e n. 4331 del 2002) ottenuti dal Dott. T. per il pagamento delle retribuzioni relative al periodo di dedotta malattia nel corso del quale sarebbe stato inefficace il licenziamento intimatogli (per un importo complessivo di Euro 60.109,07, oltre gli interessi legali).
Il Dott. T. si costituiva in entrambi i giudizi di opposizione, chiedendo il rigetto delle opposizioni proposte dalla Società.
Riuniti i tre procedimenti, il Tribunale di Roma emetteva ordinanza ex art. 423 c.p.c. con la quale ordinava a S. Italia S.p.A. di corrispondere al lavoratore la somma di Euro 79.402,03 per le retribuzioni maturate dal settembre 2002 (successive al periodo coperto dal secondo decreto ingiuntivo) al 16 marzo 2003 (termine del periodo di asserita malattia e del periodo di comporto). Istruita la causa anche tramite prova testimoniale, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 6067/2005 accertava che il licenziamento del T. era “giustificato da precise scelte organizzative e non già dettato da intenti ritorsivi o discriminatori”; accoglieva la domanda del T. volta alla dichiarazione di temporanea inefficacia del licenziamento sino al termine della malattia e, confermando l'ordinanza ex art. 423 c.p.c., accoglieva anche la domanda volta al pagamento delle retribuzioni per i mesi da settembre 2002 al 16 marzo 2003. Avverso tale decisione di primo grado, il T. proponeva appello con ricorso depositato il 31 marzo 2006, chiedendo l'integrale accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio. La Società si costituiva e chiedeva il rigetto dell'appello proposto dal T. A sua volta, anche S. Italia S.p.A. proponeva autonomo appello, con il quale chiedeva che, in parziale riforma della sentenza impugnata, fosse respinta la domanda del T. relativa alla inefficacia del licenziamento e che, comunque, il T. fosse condannato alla restituzione della somma di cui all'ordinanza di pagamento emessa dal primo Giudice perché priva di domanda formulata nel merito.
Riuniti i due procedimenti, la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 3966/07, da un lato, respingeva l'appello proposto dal T. ; dall'altro lato, in accoglimento dell'appello proposto da S. Italia S.p.A. e in parziale riforma della sentenza impugnata (confermata nella parte relativa alla inefficacia del licenziamento), revocava la disposta ordinanza di pagamento ex art. 423 c.p.c., con la condanna di E.T. alla restituzione degli importi percepiti in esecuzione del capo di sentenza riformato.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il T. con due motivi.
Resiste l'Agenzia Nazionale per l'Attrazione degli Investimenti e lo S. d'Impresa S.p.A. (già S. Italia S.p.A.) con controricorso, proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi, contestato dal T. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Con il primo motivo di ricorso il T. , denunciando omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), lamenta detti vizi nella parte in cui la Corte d'Appello, per un verso, ha accertato che l'intimato licenziamento, in quanto correlato ad un effettivo processo di riorganizzazione del settore al quale era preposto, era sostenuto da giustificatezza e non aveva carattere ritorsivo, e, per altro verso, avrebbe riconosciuto che “l'attività di Attrazione di Investimenti Esteri sarebbe effettivamente continuata anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro con l'odierno ricorrente”. Pertanto, risulterebbe contraddittoria l'affermazione del Giudice a quo di ritenere, in siffatta situazione, provato il motivo posto dalla Società a fondamento del licenziamento e, cioè, la soppressione del posto di lavoro.
La censura è infondata e, come tale, deve essere respinta.
Ed invero, la conclusione alla quale è giunta la Corte territoriale consegue all'accertamento di fatti non coincidenti con quelli che il Dott. T. prospetta come accertati.
Infatti, la Corte di Appello di Roma ha osservato, in primo luogo, che l'istruttoria condotta dal Tribunale aveva consentito di accertare che nel marzo 2002 l'Area attrazioni fu “scorporata” e una parte delle risorse umane (5 o 6 unità fra cui l'unico dirigente dr. E.) fu trasferita all'Area S. Impresa configurandosi come funzione di questa; altra parte dell'ex Area attrazioni (l'attività di internazionalizzazione) venne trasferita nell'ambito della segreteria tecnica alle dirette dipendenze dell'A.D. (ing. C. ) e furono portate avanti soltanto le iniziative già in corso; nel frattempo l'attività già facente capo all'area, che non doveva cessare, venne reimpostata sulla base di nuovi strumenti operativi (quali i contratti di localizzazione) e la mappatura del territorio per individuare aree di potenziale interesse per gli investitori esteri, mentre nell'ottobre-novembre 2002 fu ricreata l'Area attrazione investimenti.
Sulla scorta di tale accertamento, la Corte d'Appello ha concluso che “il licenziamento del T. , siccome correlato ad un effettivo processo di riorganizzazione del settore al quale era preposto, è sostenuto da giustificatezza”, escludendosi per ciò stesso ogni carattere ritorsivo (profilo, del resto, non oggetto di impugnazione in questa sede).
A sostegno di detta affermazione, la Corte di merito ha anche dato conto del consolidato orientamento di questa Corte secondo cui “può considerarsi licenziamento ingiustificato del dirigente, cui la contrattazione collettiva collega il diritto all'indennità supplementare in ipotesi non definite dai principi di correttezza e buona fede, solo quello non sorretto da alcun motivo (e che quindi sia meramente arbitrario) ovvero sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà, di talché la sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell'intento di liberarsi della persona del dirigente e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato all'imprenditore (Cass. n. 21748/2010; Cass. n. 17013/2006). Con la conseguenza che il licenziamento del dirigente, quando è motivato e la sua motivazione, oltre ad essere lecita, è anche obiettivamente verificabile non è arbitrario e, di conseguenza, è giustificato ai sensi del contratto collettivo.
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 1366 cod. civ.) in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente “ritenuto che l'indennità supplementare sia dovuta solo nella ipotesi in cui non venga addotta alcuna giustificazione al licenziamento, e non anche nell'ipotesi in cui la giustificazione addotta dal datore di lavoro si riveli insussistente”.
In particolare, il T. , muovendo dal presupposto che la “motivazione addotta al licenziamento sarebbe [è] insussistente”, conclude il proprio motivo di ricorso con il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se ricorre la violazione di legge - art. 1366 Cod. Civ. - in relazione all'interpretazione dell'art. 29 c.c.n.l. Dirigenti delle aziende commerciali, nella pronuncia emessa dalla Corte di Appello di Roma, per aver ritenuto che l'indennità supplementare sia dovuta solo nella ipotesi in cui non venga addotta alcuna giustificazione al licenziamento, e non anche nell'ipotesi in cui la giustificazione addotta dal datore di lavoro si riveli insussistente”.
Senonché, un siffatto quesito di diritto presuppone inevitabilmente che la sentenza impugnata contenga l'affermazione della insussistenza della giustificazione posta a fondamento del licenziamento.
Pertanto, il quesito di diritto formulato dal ricorrente (ed il conseguente principio che se ne dovrebbe trarre) risulta inammissibile in quanto estraneo rispetto alla motivazione della sentenza impugnata nella quale, come si è precisato esaminando il primo motivo, non è mai stata affermata l'insussistenza della giustificazione posta a fondamento del licenziamento intimato al Dott. T. , ma anzi è stata dichiarata la piena legittimità dello stesso.
Con il primo motivo di ricorso incidentale la società, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 1334,1335 e 2118 c.c. e dell'art. 2 l. n. 604/1966 (art. 360 n. 3 c.p.c.), lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che il licenziamento del T. non fosse stato validamente comunicato la mattina del 14 marzo 2002, anteriormente cioè alla comunicazione della malattia denunciata dal lavoratore, nonostante la presenza di elementi probatori in senso contrario.
In particolare, la società, reiterando quanto già dedotto dinanzi al Giudice di merito, osserva che dall'istruttoria era emerso che il T. , dopo la lettura della lettera di licenziamento al mattino del 14 marzo 2002, si era rifiutato di firmarla e riceverla; e tale rifiuto, comunque motivato, non toglieva validità alcuna alla comunicazione del licenziamento, come da giurispurdenza di questa Corte (Cass. 12571/99; Cass. 7620/2001 e, più di recente Cass. n. 23061/2007, sempre, sull'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni anche formali sul posto di lavoro).
Inoltre, si sostiene, con il secondo motivo, che la sentenza impugnata, incorrendo in vizio di motivazione, risulterebbe illegittima “nella parte in cui non ha dato né tenuto conto delle allegazioni, anche documentali, mediante le quali la Società, nei due precedenti gradi di giudizio, ha puntualmente contestato la veridicità dello stato di malattia da cui sarebbe stato affetto il Dott. T. “. Entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, sono privi di fondamento.
In proposito, infatti, la Corte territoriale ha correttamente replicato che, ferma la condivisibilità dell'orientamento richiamato, doveva osservarsi che i fatti, quali ricostruiti dai testi escussi (G. e V. ) e quali del resto emergenti dal tenore della lettera 15.3.2002 di accompagnamento di quella di licenziamento, non evidenziavano un mero rifiuto del T. di ricevere la comunicazione ma, piuttosto, un'adesione del dirigente (G. ) - che come tale impegnava la società - alla proposta del medesimo T. di soprassedere alla formale comunicazione in vista di un possibile accordo per una risoluzione consensuale ed incentivata da formalizzare il giorno dopo. Pertanto, in questo contesto, per ritenere la validità della comunicazione - aggiunge il Giudice d'appello - si sarebbe dovuto ipotizzare che il rifiuto del T. si inserisse in un articolato artificio, idoneo ad indurre in errore il comunicante, che programmaticamente prevedesse già l'insorgere di una falsa malattia e l'invio di certificazione medica che l'attestasse onde rendere inefficace la successiva comunicazione: di tale programmato artificio, tuttavia, non emergeva traccia.
Ma a ciò occorreva aggiungere che, nella specie, erano state prodotte certificazioni mediche, non controllate nei modi di legge né, in verità, contestate dall'azienda, che, con decorrenza dal 15 marzo e per un anno, attestavano che il T. era affetto da uno stato ansioso depressivo reattivo con necessità di riposo e cure. Né, a fronte di tali certificazioni, la società aveva dedotto prova circa l'inesistenza della malattia o la non veridicità delle attestazioni sanitarie, limitandosi, in sede di gravame, ad affermare che il giudice avrebbe dovuto comunque accertare l'effettività della stessa malattia e se quella, pur esistente, fosse idonea a determinare l'incapacità temporanea del T. a rendere la prestazione.
Sennonché, non può trascurarsi che la Corte territoriale ha, in proposito, osservato che la sindrome ansioso depressiva ha quali cause scatenanti tipiche, fra le altre la “perdita del lavoro” ed anche il “pensionamento”, per cui la diagnosi fatta al T. appariva coerente con la situazione rappresentatagli il giorno 14. Ha poi rilevato che la incapacità/capacità a rendere la prestazione deve esser valutata, siccome ad esso funzionalemente connessa, al grado di impegno decisionale richiesto ad un dirigente per le specifiche elevate responsabilità che gli competono e, perciò, alla compatibilità del riposo psichico prescritto con quel grado d'impegno.
Orbene, nel caso di specie, in assenza di prospettazioni da parte della società circa fatti che, anche indirettamente, potessero far ritenere la inesistenza della malattia, doveva ragionevolmente opinarsi, avuto riguardo alle funzioni del T. quali emergenti dalle incontestate mansioni di responsabilità dell'Area Attrazione Investimenti Esteri della società, che lo stato ansioso depressivo reattivo diagnosticato al lavoratore lo ponesse effettivamente in condizione di non poter rendere la sua prestazione, il grado di responsabilità a quella consustanziale essendo incompatibile con la terapia di riposo psichico che, incontestatamente e del resto per nozione di comune esperienza, era coerente con la specifica affezione.
Non risultando da siffatto iter argomentativo le violazioni ed i vizi motivazionali denunciati, anche il ricorso incidentale va rigettato.
L'esito del giudizio indice a compensare tra le parti le spese.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
Depositata in Cancelleria il 07.03.02012
14-03-2012 00:00
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