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Sentenza

La badante la paga la figlia della persona assistita se quest'ultima ha posto in essere atti da farla ritenere la datrice di lavoro
La badante la paga la figlia della persona assistita se quest'ultima ha posto in essere atti da farla ritenere la datrice di lavoro
Corte di Cassazione Sez. Lavoro - Sent. del 05.03.2012, n. 3418

Presidente De Luca - Relatore Tria

Svolgimento del Processo

1.- La sentenza attualmente impugnata - in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 5 febbraio 2004 - condanna M.G. al pagamento della somma di euro 1.219.06, oltre agli accessori come riconosciuti dal Tribunale, in favore di N. V. e conferma per il resto la sentenza di primo grado.
La Corte d'appello di Roma, per quel che qui intere sa, precisa che:
a) quanto alla legittimazione passiva - in assenza di una formale assunzione da parte della
B. e in presenza di una partecipazione di più soggetti sia al momento della assunzione sia nel corso del rapporto - si è determinata una situazione di apparente cotitolarità, del rapporto stesso, per la quale, in applicazione del principio dell'affidamento incolpevole, la V. ha tratto la convinzione che la reale datrice di lavoro fosse la G. dato che era costei a darle le direttive e la retribuzione (senza aver mai specificato di farlo per mero incarico della madre), oltre a farle regali personali;
b) in questa situazione è del tutto comprensibile che la V. abbia ritenuto che anche
l'appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della
G.
c) in riferimento alla durata del rapporto, va confermata la decisione del Tribunale secondo
cui, come dedotto nel ricorso introduttivo, il rapporto è cessato il 6 ottobre 2001. quando la B.
è deceduta;
d) infatti, dall'istruttoria svolta è emerso che, anche dopo il ricovero ospedaliero la V. si teneva comunque a disposizione per le esigenze dell'assistita, sicché è da escludere che tale
evento (originariamente non riferito dalla lavoratrice) abbia comportato, di per sé, la cessazione del rapporto, tanto più che è risultato che prima della morte dell'assistita la lavoratrice non è stata licenziata;
e) anche per l'orario di lavoro è corretta la statuizione del Tribunale sulla spettanza del compenso per lavoro straordinario fino al 30 agosto 2001 (data del suddetto ricovero ospedaliero) essendo stato accertato che la V., prima della suddetta data, rimaneva a disposizione (per tutti i giorni in cui non godeva di riposo) anche dopo le ore 20, superando le 10 ore di lavoro giornaliere previste dal c.c.n.l. per i lavoratori domestici conviventi:
f) poiché la relativa prova è emersa principalmente dalla deposizione della figlia della
G., nonché da quanto riferito dalla stessa G. e da suo fratello B. bene ha fatto il Tribunale a non approfondire ulteriormente l'istruttoria sul punto, data l'esaustività e la provenienza qualificata delle su indicate dichiarazioni;
g) è, invece, fondato il motivo di appello relativo all'inquadramento da attribuire alla V. atteso che si ritiene l'inquadramento nel l livello (riconosciuto dal Tribunale) inappropriato per eccesso e quello nel IlI livello (proposto dalla G.) inadeguato per difetto;
l) ne consegue che l'inquadramento esalto appare essere quello nel Il livello, proprio di “coloro che svolgono mansioni relative alla vita familiare con la necessaria specifica capacità professionale” :
m) quanto alla liquidazione dell' importo dovuto alla V. sulla base della disposta c.t. u. contabile, l'importo liquidato equitativamente in primo grado (in euro 2000) deve essere ridotto alla somma suindicata, comprensiva delle differenze retributive e dei compensi per lavoro straordinario (fino al 30 agosto 2001, giorno del ricovero ospedaliero citato), per festività, per ferie non godute oltre a tredicesima mensilità e t.f.r. (pacificamente non corrisposti).
2.- Il ricorso di M.G. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste, con controricorso, N.V.

Motivi della decisione

1- Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia - in riferimento alla carenza di legittimazione passiva - violazione e falsa applicazione degli artt. 1.388, 1398 e 2094 cod. civ., nonché contraddittoria motivazione.
Si sottolinea che dopo che il Tribunale ha affermato la legittimazione passiva della G. come datore di lavoro di fatto, la Corte d'appello ha confermato la decisione ma sull'assunto dell'apparente co-titolarità della qualifica di datore di lavoro fra la G. e la di lei madre.
Conseguentemente la V. avrebbe legittimamente convenuto in giudizio la G. in base al principio di tutela dell'affidamento incolpevole, avendo la convenuta agito senza spendere in modo univoco il nome deIla rappresentata. Per la stessa ragione la Corte territoriale ha considerato comprensibile che la lavoratrice abbia ritenuto che anche l'appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della G.
La ricorrente sostiene, però, che sul punto la sentenza sia priva di idonea motivazione in quanto la Corte romana, dopo aver dato atto che la lavoratrice in sede di interrogatorio ha riferito di aver concordato con il figlio B. della signora B. le condizioni contrattuali, non ha esteso la titolarità del rapporto a quest'ultimo ma alla sorella, concentrando la propria attenzione sulle modalità operative del rapporto.
Comunque la vera datrice di lavoro è B. come conferma la circostanza che con la sua
morte il rapporto si sia concluso, senza che possa valere in contrario il contraddittorio richiamo al principio di tutela dell'affidamento incolpevole operato dalla Corte romana.
2.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia - in riferimento alla conclusione del rapporto lavorativo alla data del 30 agosto 2001 e alla modifica della originaria causa petendi - erronea applicazione degli artt. 414, 416 c 437 cod. proc. civ .. degli artt. 1463 e 1256 cod. civ. e dell'art. 4 della legge n. 108 del 1990, nonché omessa motivazione.
Si contesta che la Corte territoriale - pur avendo precisato che la V. nell'affermare nel
ricorso introduttivo che il rapporto era cessato il 6 ottobre 2001 e che aveva avuto l'orario giornaliero dalle 8 alle 23, non aveva riferito del ricovero ospedaliero della B. avvenuto il 30 agosto 2001 (circostanza incompatibile con lo svolgimento della prestazione con le suddette modalità) - non ha dato rilievo alla suddetta omissione, sottolineando che in assenza di un formale atto di licenziamento ed essendo risultato che la lavoratrice si recava spontaneamente presso l'ospedale ove era ricoverata la B. si doveva ritenere che ella si tenesse comunque a disposizione per le esigenze dell'assistita.
In tal modo, ad avviso della ricorrente, la Corte romana avrebbe: a) compromesso il sistema delle decadenze e preclusioni processuali su cui si fonda il rito del lavoro, confermando la statuizione del primo giudice che aveva consentita la intervenuta manifesta modifica della domanda iniziale: b) negato che il ricovero ospedaliero ha determinato la automatica conclusione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi degli artt. 1463 e 1256 cod. civ., sul presupposto dell' esistenza di un nuovo accordo in merito a nuove mansioni affidate alla V., che peraltro non avrebbero mai potuto svolgersi con l'orario giornaliero indicato nel ricorso introduttivo; c) omesso di valutare che l'art. 4 della legge n. 108 del 1990 esclude i rapporti di lavoro domestico - disciplinati dalla legge n. 339 del 1958 - dalla sfera di applicazione delle disposizioni sul licenziamento individuale.
3.- Con il terzo motivo di ricorso si denuncia - in riferimento alla omessa valutazione in ordine all'accoglimento degli ulteriori mezzi istruttori richiesti in primo grado - violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. ovvero omessa motivazione.
Si sostiene che sarebbe insufficiente la motivazione con la quale la Corte d'appello ha ritenuto
superflua la ammissione della ulteriore prova testimoniale chiesta dalla G. per confermare l'effettiva durata del rapporto lavorativo e l' orario di lavoro reale.
4.- Con il quarto motivo di ricorso si denuncia - in riferimento all'accoglimento del compenso per il lavoro straordinario - violazione degli arti. 2108 e 2697 cod. civ.
Si rileva che la Corte romana ha desunto la protrazione delle prestazioni lavorative oltre le dieci ore giornaliere dalla testimonianza resa dalla nipote della B. senza considerare lo svolgimento complessivo della giornata di lavoro della V. (che, durante la mattinata, era esonerata da qualsiasi prestazione, grazie alla partecipazione delle figlie nell'accudimento della B. e non rispettando il principio secondo cui il lavoratore che agisca per ottenere il compenso le risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (vedi per tutte: Cass. 6 giugno 2011. 11. 12204; Cass. 5 ottobre 2006. n. 21412; Cass. 24 luglio 2007, n. 16346 Cass. 17 febbraio 2009 n.3785).
6.2.- Quanto agli altri motivi - complessivamente considerati - va osservato che - nonostante il formale richiamo alla violazione di disposizioni normali e contenuto nelle intestazioni dei diversi motivi - in realtà tutte le censure si risolvono in denunce di vizi di motivazione della sentenza impugnata - non tutte effettuate rispettando il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione - per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai tini della ricostruzione dei fatti.
Va, tuttavia, ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e deIla coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure contenenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 aprile 201 L n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313 Cass. 3 gennaio 2011 n. 37 Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006. n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operata dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
Comunque, le conclusioni cui la Corte d'appello è pervenuta risultano pienamente conformi ai consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte, anche se la motivazione della sentenza va corretta nei seguenti termini.
6.3.- In particolare, come si e ricordato, la Corte romana giunge all' affermazione della
correttezza dell'individuazione della G. come legittimata passiva facendo riferimento al
principio dell'apparenza del diritto.
Com'è noto il suddetto principio - riconducibile a quello, più generale, della tutela dell'affidamento incolpevole - pur potendo avere molteplici applicazioni (sia nel diritto sostanziale sia in quello processuale) tuttavia, al di fuori dei casi particolari nei quali ne sono espressamente disciplinati gli effetti (vedi: artt. 534, secondo e terzo comma, 1189, 1415 e 1416 cod. ci .) non ha connotazioni definite e precise, in quanto opera nell'ambito dei singoli rapporti giuridici in modo differente a seconda di quanto e come ciascun rapporto sia compatibile con la prevalenza dello schema apparente su quello reale (vedi, per tutte: Casso 10 marzo 1995, n. 2311).
Ad esso, in linea generale, si ricorre nelle situazioni in cui, in presenza di circostanze univoche ed obiettive, una data realtà appare come esistente - senza che sia imputabile alcun comportamento colposo al soggetto nei cui confronti si producono i relativi effetti (forma pura) oppure per il comportamento colposo di un soggetto. il quale avendo causalo lo stato di apparenza, ne subisce gli effetti (forma colposa) - e ciò, conseguentemente comporta la tutela del legittimo e incolpevole affidamento dei terzi nella situazione apparente, la quale, anche se non conforme alla realtà, non è ragionevolmente altrimenti accertabile se non attraverso le sue esteriori manifestazioni (arg. ex Cass. 29 aprile 2010, n. 10297; Cass. 23 aprile 2010, n. 9694: Cass. 7 ottobre 1010, n. 20811: Cass. 28 agosto 2007, n. 18191: Cass. 12 gennaio 2006, n. 408; Cass. 13 agosto 2004, n. 15743: Cass.0 26 giugno 1978, n. 3146).
Data la sua generale applicazione, sia pure caratterizzala dall'anzidetta variabilità di connotazioni, il principio in argomento può trovare applicazione anche nel diritto del lavoro (come accade, ad esempio, in materia di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro), va, però, osservato che, nella presente fattispecie, è più appropriato far riferimento al diverso principio di effettività del rapporto di lavoro.
Dalla sentenza impugnala risulta, infatti, che: 1) non c' è stato un formale atto di assunzione della lavoratrice da parte della madre dell'odierna ricorrente; 2) al momento dell'assunzione hanno partecipato tutti i figli della B. con tutti la lavoratrice ha avuto un colloquio, pur avendo preso accordi sulle modalità della prestazione in particolare con il figlio B. nel corso del rapporto, però, l'unica persona che ha provveduto a dare le direttive alla V. a corrisponderle la retribuzione - senza aver mai specifìcato di farlo per mero incarico della madre - è stata la G. la quale, quindi, ha avuto un ruolo di esclusiva datrice di lavoro (benché la prevalente beneficiaria delle prestazioni sia stata la B. ), tanto che la lavoratrice ha ritenuto che l'appartamento nel quale prestava assistenza alla B. appartenesse al nucleo familiare della G. stessa.
Ora è noto che il contratto di lavoro dà origine ad un rapporto che, fondato sulla volontà delle parti, si protrae nel tempo, restando, tale volontà, inscritta in ogni atto di esecuzione del contratto. L'esecuzione, esprimendo soggettivamente la suddetta volontà ed oggettivamente la causa contrattuale e protraendosi nel tempo, resta (ai sensi dell'art. 1362 secondo comma cod. civ.) lo
strumento di emersione della reale volontà delle parti e dell'assetto negoziale che queste intendono attribuire al rapporto stesso (volontà e assetto che, in ipotesi, possono anche essere diversi da quelli originari e determinare, nel corso dell'attuazione del rapporto, una modificazione di singole clausole contrattuali e talora della stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista) come più volte affermato da questa Corte (vedi, per tutt : Cass. 18 agosto 2004, n. 16144: Cass. 21 ottobre 2005, n. 20361; Cass. 5 luglio 2006, n. 15327; Cass. 15 giugno 2009. Il. 13858).
Inoltre è principio consolidato che la nota caratteristica della subordinazione del rapporto di lavoro è rappresentata dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro.
Dai suddetti principi è agevole desumere che la Corte d appello ha correttamente affermato la
legittimazione passiva della G., però la giustificazione posta a base di tale affermazione
non è da rinvenire nel principio dell'apparenza, ma nei principi dianzi riportati.
6.4.- Quanto al secondo motivo va precisato che non è condivisibile la premessa su cui poggiano tutte le censure, rappresentata dall' assunto secondo cui la Corte romana avrebbe illegittimamente consentito una modifica dell'originaria causa pretendi in conseguenza della ritenuta irrilevanza dell'omesso richiamo, nel ricorso introduttivo del ricovero ospedaliero della B. avvenuto il 30 agosto 2001.
Va, infatti, osservato che la diversa quantificazione o specificazione della pretesa fermi i fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi e quindi, una mutatio libelli integrando, invece, una mera emendatio libelli, come tale ammissibile sia nel corso del giudizio di primo grado sia in grado di appello (Cass. 19 aprile 2010, n. 9266; Cass. 27 luglio 2009, Il. 17457).
È del tutto evidente che, nella specie , non ricorrono gli estremi della mutatio libelli, avendo il Giudice del merito accertato - dandone adeguata e corretta motivazione - che comunque (a prescindere dalla rilevata iniziale omissione della lavoratrice a proposito del ricovero ospedaliero) il rapporto ha avuto termine solo con il decesso della B. e che, durante il periodo del ricovero la lavoratrice, pur tenendosi a disposizione per le esigenze dell'assistita, non svolgeva lavoro straordinario.
6.5.- Per ragioni analoghe sono da respingere il quarto e il quinto motivo, risultando che il Giudice del merito - esercitando il proprio potere di valutazione del materiale probatorio e dandone plausibile e logica motivazione - ha appurala che, nel periodo antecedente il suddetto ricovero, la giornata lavorativa della V. si protraeva oltre l'orario normale (di dieci ore) ed ha ritenuto che la lavoratrice fosse da inquadrare nella Il categoria contrattuale.
AI riguardo va ricordato che in tema di lavoro domestico - così come accade in generale in materia di rapporto di lavoro - la qualificazione giuridica del rapporto effettuata dal giudice del merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura (subordinata o autonoma) del rapporto, mentre l'accertamento degli elementi che rivelano l'effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che è immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile da parte della Corte di cassazione (Cass. 27 luglio 2007. n. 16681; Cass. 4 maggio 2011, Il. 980&).
Comunque, alla tregua dell'art. 1 della legge 2 aprile 1958, n. 339, l' elemento caratterizzante il rapporto di lavoro domestico è la prestazione finalizzata al funzionamento della vita familiare per soddisfare un bisogno personale (cioè non professionale) del datore di lavoro (Cass. 14 dicembre 2005, n. 27578; Cass. l° aprile 2005, n. 6824; Cass. 21 dicembre 2010, n. 25859) .
E' noto che, in questa materia, quando si paria di “famiglia” ci si riferisce al “nucleo familiare” cioè alla “famiglia anagrafica che - secondo la definizione dell' art. 4 del d.P.R.30 maggio 1989, n. 223 rimasta tuttora invariata - può essere costituita anche da una sola persona. A questo concetto fanno riferimento la normativa contributiva e fiscale sui datori di lavoro domestico, cosi come la normativa sulla regolarizzazione di badanti e collaboratori familiari stranieri.
Infine, anche per quel che riguarda il disposto inquadramento della lavoratrice nel Il livello contrattuale la sentenza impugnata va esente da censure in quanto da essa risulta che la Corte romana, dando atto con motivazione logica e adeguata, è pervenuta alla relativa statuizione uniformandosi al consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da tre fasi successive e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda. (vedi per tutte Cass. 27 settembre 2010 n.
20272).
Cunclusioni
7.- Per le suesposte ragioni. il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 20,00 per esborsi euro 1000,00 (mille/00) per onorari di avvocato, oltre lVA, CPA e spese generali, con distrazione in favore dell'avvocato U.O., antistatario.

 

Depositata il 05.03.2012
Avv. Antonino Sugamele

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