Il danno non patrimoniale non richiede, ai fini della risarcibilita', la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 185 c.p., essendo riferibile ai diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 19 dicembre 2011 – 2 aprile 2012, n. 5230
(Presidente Lamorgese – Relatore Bronzini)
Svolgimento del processo
S.M. esponeva al giudice del lavoro di Reggio Emilia di aver riportato un grave infortunio sul lavoro come dipendente di G.A., titolare dell1 omonima impresa. Mentre lavorava non munito di cintura di sicurezza nell'allestimento di un ponteggio privo di parapetti cadeva a terra riportando gravi lesioni personali. Controparte si costituiva contestava la fondatezza del ricorso. Il Giudice del lavoro di Reggio Emilia con sentenza del 9.2.2005 rigettava la domanda.
Sull'appello del S. la Corte di appello di Bologna, con sentenza del 21.10.2008, accoglieva l'appello e dichiarava che l'infortunio occorso al S. era avvenuto per esclusiva responsabilità del G. con condanna dello stesso al pagamento delle somme di cui in sentenza per danno biologico e danno morale. La Corte territoriale richiamava anche la ricostruzione dei fatti così come operata in sede penale dal Tribunale di Reggio Emilia da cui risultava che il S. si era infortunato mentre stava allestendo il ponteggio in questione, privo di parapetti. Ciò era chiaramente emerso dalle dichiarazioni dello stesso S. rese anche all'Ospedale. L'unica discrasia tra le due dichiarazioni rese dal S. nel Marzo 1997 era che solo nella prima lo stesso aveva affermato di aver usato cinture di sicurezza, circostanza poi non confermata. La Corte territoriale indicava poi le ragioni per cui dovevano ritenersi più attendibili le dichiarazioni rese il 24.3.1997, tra cui il fatto che le cinture di sicurezza non erano state rinvenute in cantiere e i riscontri offerti dagli accertamenti del tecnico Ausl B. Era vero che nel dibattimento penale il S. si era marginalmente contraddetto sul punto della funzione del ponteggio e che aveva affermato che le cinture di sicurezza si erano strappate, ma la prima contraddizione appariva irrilevante e la seconda affermazione era spiegabile con il trauma ricevuto, tanto più che, come detto, le cinture non erano state ritrovate. Il teste V. aveva poi categoricamente affermato che non erano state usate cinture di sicurezza. La versione offerta dal detto teste e dal S. in ordine alla ragioni per cui quest'ultimo si era arrampicato sul ponteggio erano del tutto inverosimili come accertato anche in sede penale. Pertanto era certa la responsabilità del datore di lavoro nella causazione dell'evento perché il lavoratore era addetto senza indossare cinture di sicurezza (anche se presenti nel cantiere) al momento della caduta all'allestimento del ponteggio, privo anche di parapetti.
Circa la quantificazione del danno biologico, accertato come da CTU, alla luce delle tabelle in uso al Tribunale di Milano la Corte assegnava la somma di Euro 97.000,00 per danno biologico e per danno morale l'ulteriore somma di Euro 48.500,00 stabilita nella misura pari alla metà di quello biologico, tenuto conto della limitazione alla funzionalità perdurante ed alla sindrome ansioso depressiva sviluppatasi in conseguenza dell'infortunio. All'epoca dell'infortunio l'assicurazione INAIL non copriva né il danno biologico, né quello morale.
Ricorre il G. con quattro motivi, resiste il S. con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. nonché l'omessa, insufficiente motivazione della sentenza impugnata. La motivazione non offrirebbe una puntuale ricostruzione dei fatti e si fonda su di un acritica ricezione di quanto emerso in sede penale.
Il motivo è infondato in quanto del tutto generico: non si offrono, infatti, specifiche censure alla motivazione della sentenza impugnata che ha, invece, analiticamente esaminato il materiale probatorio e le dichiarazioni rese dal testi e dallo stesso S. (come si evince anche dalle premesse della presente sentenza), e certamente non si limita al mero ed acritico richiamo a quanto emerso in sede penale (che comunque poteva certamente essere preso in considerazione ai fini della presente decisione). La motivazione appare accurata e puntuale, le censure sono, come detto, del tutto apodittiche e prive della necessaria correlazione con le argomentazioni in concreto adottate nella sentenza impugnata.
Con il secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. ed anche l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della decisione impugnata: vi era stato un abnorme comportamento del S.; mentre nessuna omissione era addebitabile al ricorrente.
Il motivo appare infondato. A parte la questione della palese inidoneità del motivo di diritto così come formulato che non offre alcuna correlazione con il caso in esame e della mancanza della sintesi riassuntiva prevista dalla medesima norma, va osservato che nel motivo si offrono censure di merito, inammissibili in questa sede che tendono ad una ricostruzione alternativa a quella operata nella sentenza impugnata. La Corte territoriale con motivazione congrua e logicamente coerente ha escluso che vi sia stato un comportamento abnorme da parte del ricorrente e le omissioni a carico del datore di lavoro emergono con chiarezza nella mancata adozione delle cinture di sicurezza (non rinvenute nel posto) e nella mancata installazione di parapetti (pag. 11 della sentenza impugnata). È giurisprudenza pacifica di questa Corte che il datore di lavoro non possa limitarsi a mettere a disposizione del dipendente le previste cinture, ma debba vigilare e concretamente controllare che le stesse siano indossate (ex plurimis Cass. n. 4980/2006, Cass. n. 11895/2003).
Con il terzo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e la carenza motivazionale della sentenza impugnata : era stato escluso il concorso di colpa in modo immotivato.
Il motivo appare infondato. Va, a tal fine, ricordato che la Corte di appello ha concretamente escluso ogni comportamento abnorme del ricorrente e che pertanto l'esclusione di un concorso di colpa risulta esaurientemente e logicamente motivata alla luce delle osservazioni svolte supra. Nel motivo si allude ad un comportamento comunque imprudente del lavoratore, senza però specificarlo, né si indicano gli atti processuali dai quali sarebbe emerso.
Con l'ultimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in merito alla liquidazione del danno morale, che è stato ritenuto in via automatica come quota del danno biologico.
Il motivo appare fondato. Posto che per tale quesito sono state assolte le prescrizioni di cui all'art. 366 bis c.p.c., va ricordato l'orientamento di questa Corte secondo cui “il danno non patrimoniale derivante dalla lesioni dell'integrità fisica del lavoratore, identificato nella sommatoria di danno biologico (all'integrità fisica) e danno morale (consistente nella sofferenza per l'ingiuria fisica subita), non richiede, ai fini della risarcibilità, la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 185 c.p., essendo riferibile ai diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti. Nella specie la cassazione ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto risarcibili, ai sensi dell'art. 2059 c.c., sotto voci distinte con adeguata personalizzazione del danno biologico e morale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa conseguente ad un infortunio sul lavoro" (Cass. n. 12593/2010) ed ancora "in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall'attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l'uso di nomi diversi" (Cass. n. 10527/2011, v, anche Cass. n. 15414/2011 cfr., in materia di danno subito dal lavoratore, anche Cass. n. 9238/2010, n. 23053/2009).
Senza dubbio il Giudice di merito avrebbe potuto liquidare anche il danno morale laddove sussistente (peraltro nel caso in esame emerge che vi sia stato anche un accertamento dei fatti in sede penale), ma avrebbe dovuto specificamente motivare in ordine ad ulteriori profili di danno non coperti da quello già liquidato a titolo di danno biologico ed operare un'autonoma valutazione degli stessi. Invece nella motivazione della sentenza impugnata i danni liquidati a titolo di danno morale appaiono correlati alla medesime malattie considerate per il danno biologico e liquidati, nella loro entità, in una quota parte di tale ultimo danno. La motivazione pertanto appare non coerente con i principi fissati dalla ricordata giurisprudenza di questa Corte che imponeva una specifica considerazione dei profili di danno ed anche una specifica e separata quantificazione. Sul punto si impone quindi la cassazione della impugnata sentenza, con rinvio (anche per le spese) alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte:
Accoglie per quanto di ragione il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censure accolta, con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione, anche per le spese.
17-04-2012 00:00
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