Il calcolo del termine massimo di durata della custodia cautelare deve essere riferito al capo di imputazione
Corte di Cassazione Sez. Prima Pen. - Sent. del 21.02.2012, n. 6829
Presidente Siotto - Relatore Bonito
Osserva in fatto ed in diritto
1. Il Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Napoli impugna per cassazione l'ordinanza, in epigrafe indicata, con la quale la Corte di Appello partenopea ha annullato l'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare che aveva rigettato la richiesta di liberazione di A.E. e I.A. per decorrenza dei termini di custodia cautelare, e per l'effetto ha dichiarato cessata la custodia cautelare e disposta l'immediata liberazione delle stesse.
1.2 Ad avviso del giudice d'appello, il termine di fase di custodia cautelare è decorso in relazione al delitto di tentata estorsione aggravata, come ab origine enunciato nell'ordinanza di applicazione della custodia in carcere, non dovendosi tenere conto di quello di estorsione consumata di cui al decreto di rinvio a giudizio, reato quest'ultimo punito con una pena massima superiore ad anni venti, eppertanto giustificativi dei limiti massimi di detenzione preventiva pari ad anni uno e mesi sei di reclusione, raddoppiati, a mente dell'art. 304 c.p.p., co. 2, per la complessità del dibattimento.
Per poter applicare un diverso e più lungo termine di custodia, ha dedotto altresì la Corte di merito, sarebbe stato necessario emettere un ulteriore provvedimento di custodia con l'indicazione del diverso (e più grave) delitto, non essendo previsto un aggravamento automatico della contestazione cautelare con l'aggravamento dell'imputazione nel corso del procedimento di merito. Ha precisato, in conclusione, il giudice a quo: A) che in relazione al reato di tentata estorsione, la pena edittale rilevante per calcolare il termine massimo di fase della detenzione cautelare sia inferiore ad anni venti, in quanto pari ad anni 17, mesi otto e giorni venti in tal guisa calcolati: tenuto conto della doppia aggravante ad effetto speciale, applicato l'art. 63 co. 4 c.p. e ritenuta più grave l'ipotesi aggravata ex art. 7 L. 203/91 (nella misura massima di un terzo per il concorso di circostanze ad effetto speciale); B) che il termine di fase va pertanto individuato, nella fattispecie, nella seconda ipotesi di cui all'art. 303, 1 comma lett. b, n. 2, e cioè in un anno, da raddoppiarsi ex art. 304, co. 2 c.p.p., termine nello specifico maturato (decreto dispositivo del giudizio del 15.4.2009, sentenza di condanna di primo grado non pronunciata nel termine di due anni da tale data).
2. Il Procuratore ricorrente deduce invece, da parte sua, in via principale, la violazione di legge data dalla ritenuta irrilevanza del delitto contestato col decreto dispositivo del giudizio ai fini del computo dei termini di custodia cautelare ed, in via subordinata, il mancato computo della doppia aggravante dell'art. 7 L. 203/1991 (metodo ed agevolazione) alla fattispecie riqualificata come tentata per i conseguenti effetti sui termini di custodia cautelare.
2.1 In riferimento alla censura prospettata in linea subordinata chiarisce inoltre parte istante che, nella contestazione cautelare all'indagato, era inserita l'aggravante in parola sia sotto il profilo della metodologia mafiosa, sia sotto quello dell'agevolazione mafiosa, profili integranti una doppia aggravante ad effetto speciale, conteggiando le quali si perviene a limiti di pena richiesti dalla legge superiori ad anni ventidue, eppertanto ad un periodo di fase di detenzione cautelare di un anno e mezzo da raddoppiare, nello specifico, ad anni tre, non decorsi nella fattispecie.
2.2 Contrasta l'opinare accusatorio A.E. con memoria difensiva con la quale denuncia la genericità del ricorso e l'infondatezza delle tesi giuridiche ivi sostenute.
3. Tale è la sintesi ex art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, delle questioni poste che vanno, ora, distintamente trattate.
3.1.1 Quanto alla prima, osserva la Corte che questa istanza di legittimità è pressocché uniforme nell'affermare il principio di diritto in forza del quale, il computo del termine massimo di durata di custodia cautelare per la fase del giudizio, fa riferimento all'imputazione come risultante dalla contestazione contenuta nell'ordinanza cautelare o al diverso titolo di reato ritenuto dal giudice, all'esito del giudizio, regula iuris, questa, affermata dalle Sezioni unite, secondo cui, ai fini del computo del termine massimo di custodia cautelare nella fase del giudizio, non può tenersi conto delle nuove contestazioni effettuate nel dibattimento dal pubblico ministero, dovendosi fare riferimento esclusivamente all'imputazione formulata nell'originario provvedimento coercitivo, a meno che non sia intervenuta un'ulteriore ordinanza cautelare comprensiva della contestazione suppletiva; ove peraltro il giudice nel corso del dibattimento si sia limitato a dare al medesimo fatto per cui si procede una diversa qualificazione giuridica, al titolo di reato così ritenuto deve aversi riguardo ai fini predetti. (Sez. un., 5 luglio 2000, dep. 11 ottobre 2000, n. 24). Medesimo il principio di recente ribadito - dopo l'opposta pronuncia della terza sezione di questa Corte (6 dicembre 2002, dep. 19 dicembre 2003, n. 8128) - dalla seconda sezione in una concreta fattispecie pressoché simile a quella dell'odierno procedimento. Ai fini del computo del termine di fase delle indagini preliminari - afferma Sezione 2^, 5 ottobre 2006, dep. 19 ottobre 2006, n. 35195 - si deve aver riguardo al reato contestato nel provvedimento restrittivo, costituito dalla reciproca integrazione dell'ordinanza cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari e di quella pronunciata ex art. 309 c.p.p. dal tribunale del riesame, in quanto il “delitto per cui si procede” è quello enunciato nell'imputazione del provvedimento restrittivo, anche se l'azione penale sia stata esercitata successivamente per un delitto diverso. La concreta fattispecie era riferita alla perdita di efficacia della misura cautelare per decorrenza dei termini della fase delle indagini preliminari con la disposta scarcerazione, “ora per allora”, da parte del giudice del rito abbreviato, il quale ebbe correttamente a considerare “delitto per cui si procede” quello risultante dall'imputazione del provvedimento cautelare, come modificata dal tribunale del riesame, anche se con la richiesta di rinvio a giudizio la qualificazione giuridica era mutata.
Ed invero “delitto per cui si procede” è quello rappresentato nell'imputazione del provvedimento restrittivo, di guisa che detta espressione non apporta alcun contributo in senso favorevole all'assunto del pubblico ministero ricorrente, perché il principio enucleato è quello secondo il quale, in caso di difformità tra il reato contestato nell'ordinanza cautelare e il reato contestato nel procedimento principale da parte del pubblico ministero, è al primo che deve farsi riferimento ai fini del calcolo del termine massimo custodiate di fase (ancora di recente Cass., Sez. VI, 7470/2009; Sez. 1, 35907/2006).
3.1.2 Ciò posto sul piano dei principi e transitando alla fattispecie concreta, correttamente ha il giudice territoriale considerato come premessa per il computo dei termini di fase della carcerazione preventiva, il reato contestato con l'ordinanza cautelare costituente titolo della detenzione, e cioè il reato di tentata estorsione aggravata e non già il reato per il quale è stato poi dato inizio all'azione penale ed indicato nel decreto dispositivo del giudizio, e cioè il reato di estorsione aggravata, di guisa che le censure mosse dalla parte ricorrente sul punto si appalesano infondate.
3.2 Quanto, invece, alla questiona posta con la doglianza articolata in linea subordinata e cioè se l'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 7 d.l. 152/1991 debba essere conteggiata due volte ai fini per cui è causa se contestata sia per il profilo della metodologia che della agevolazione mafiosa, osserva la Corte che già le sezioni unite di questo consesso ha affermato il principio secondo cui, allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, sia per motivi abietti, le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell'accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un “quid pluris” rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso. (Fattispecie in cui la circostanza del motivo abietto era consistita nell'intento punitivo dell'autore di un omicidio, dettato da spirito di mera sopraffazione, e quella dell'agevolazione mafiosa nella volontà di riaffermare, attraverso il delitto così connotato, la persistente supremazia del sodalizio criminale, Cass., Sez. Unite, 18/12/2008, n. 337; Cass., Sez. I, 02/02/2010, n. 21955). Nel caso in esame le due ipotesi di cui alla norma di riferimento e cioè l'avvalersi delle condizioni previste dall'art. 416 c.p.p. e la finalità agevolativa dell'associazione malavitosa, costituiscono centri concentrici di dimensioni diverse, ma l'uno compreso nell'altro, di guisa che, chi agevola l'associazione mafiosa, si avvale nel contempo delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p., mentre avvalersi di dette condizioni non sempre significa agevolare una associazione malavitosa.
Consegue da ciò che la contestazione dei due profili descritti dalla norma di riferimento non significa affatto individuare una doppia aggravante, giacché unica quella introdotta dall'art. 7 d.l. 152/1991, ancorché descrittiva di ipotesi l'una, come detto, ricompresa nell'altra, secondo il modulo descrittivo del fatto ad unica fattispecie, contrapposto a quello, non ricorrente nella fattispecie normativa in esame, a fattispecie plurima. Anche la seconda censura, pertanto, non merita consenso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Depositata in Cancelleria il 21.02.2012
26-02-2012 00:00
Richiedi una Consulenza