Custodia cautelare in carcere. Associazione dedita al traffico di stupefacenti.
Corte di Cassazione Sez. Seconda pen. - Sent. del 08.05.2012, n. 17012
Presidente Esposito - Relatore Diotallevi
Ritenuto in fatto
Il PM presso il Tribunale di Catanzaro ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza Tribunale della Libertà di Catanzaro in data 27 settembre 2011, con la quale, con la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, è stato parzialmente accolto l'appello di P.R., anche in base all' ordinanza_239_2011 della Corte costituzionale , avverso l'ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Catanzaro che in data 30 settembre 2010, aveva invece rigettato la richiesta di revoca e/o sostituzione della misura cautelare in atto nei confronti della stessa P.
A sostegno dell'impugnazione il P.M. ricorrente ha dedotto:
a) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale;
b) Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.
Il p.m. ricorrente lamenta la rivalutazione della sussistenza delle originarie esigenze cautelari e della loro rilevante eccezionalità, con conseguente sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, operata alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 19 luglio 2011, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3 secondo periodo del c.p.p., nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva altresì l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, come era stato richiesto nel ricorso non accolto dal GIP. Sostanzialmente secondo l'ufficio ricorrente, pur di fronte alla possibilità di un trattamento cautelare più mite in favore di madre di prole di età inferiore ai tre anni, cui può essere equiparata la condizione di madre di prole portatrice di handicap gravemente invalidante, l'applicazione di una misura cautelare meno gravosa troverebbe, nel caso concreto, un limite insuperabile nell'entità della pena inflitta nel giudizio di primo grado (dieci anni), nel ruolo svolto dall'imputata all'interno dell'associazione, nell'assenza di qualsiasi attività lavorativa, nell'appartenenza della stessa alla famiglia di etnia rom dedita al traffico di sostanza stupefacente (eroina e cocaina), nell'ubicazione dell'abitazione ove dovrebbero essere scontati gli arresti domiciliari nel quartiere dove opera l'associazione di riferimento, nella professionalità dimostrata nell'attività associativa per il congruo periodo di due anni.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato.
2. Osserva la Corte che, il collegio ha tenuto doverosamente in considerazione l'ordinanza, con cui, in parziale accoglimento della questione sollevata, è stata dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui, nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Sent. Corte cost., n. 231 del 19 luglio 2011, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 28 luglio 2011). Nella circostanza il Collegio ha preso atto che la norma censurata era già stata dichiarata costituzionalmente illegittima sia nella parte in cui configura una presunzione assoluta, anziché soltanto relativa, di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale (sent. n. 265 del 2010), sia nella parte in cui assoggetta a detta presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (sent. n. 164 del 2011) e che questi profili di illegittimità costituzionale sono stati riscontrati anche in rapporto alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere riferita al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope; anche con riferimento a questa disciplina, secondo il Giudice delle leggi non sussiste la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di e-sperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere, non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità, proprio perché il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, si concreta in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990) difettando quelle peculiari connotazioni idonee a fornire una congrua regola di esperienza, secondo la quale la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. Da ciò consegue, secondo la Corte costituzionale, che la norma censurata viola, in parte qua, sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione del procedimento relativo al delitto considerato a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l'irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia l'art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale, imponendo il massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non rispettoso del principio di ragionevolezza; sia, infine, l'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Né la presunzione assoluta censurata potrebbe trovare legittimazione costituzionale nella gravità astratta del delitto associativo in oggetto, desumibile dalla severità della pena edittale, o nell'esigenza di eliminare o ridurre situazioni di allarme sociale: la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell'interesse protetto, è invero elemento significativo in sede di giudizio di colpevolezza, ma inidoneo a fungere da elemento preclusivo della verifica del grado delle esigenze cautelari e all'individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte.
3. Ciò premesso, a parere del Collegio, il Tribunale del riesame ha fatto un corretto governo dei nuovi parametri come sopra individuati dal giudice delle leggi; non ha assolutamente sminuito il pericolo di reiterazione dei reati, anche in considerazione della personalità della P. , ma si è giustamente confrontato con una realtà familiare definita drammatica, ove anche il padre del bambino, portatore di gravissimo handicap invalidante totalmete, risulta attinto dalla misura della custodia cautelare in carcere. Tale circostanza, unitamente al decorso del tempo, circa due anni dall'applicazione della più pesante misura custodiale, hanno portato il collegio ha ritenere possibile il superamento della valutazione originaria sancita dalla norma censurata con la trasformazione, in relazione al caso concreto, della misura in quella degli arresti domiciliari, che hanno il pregio di contemperare le esigenze di cautela sociale con quelle di vicinanza al minore affetto da grave handicap di almeno uno dei genitori. Né oggettivamente le circostanze evidenziate dall'ufficio ricorrente appaiono tali da rendere illogica la valutazione operata dal collegio: sicuramente non la mancanza di attività lavorativa della P. , vista la necessità assoluta di accudimento del minore e dove il vincolo anche di solidarietà della sua famiglia può essere positivamente valutato, a prescindere, ovviamente, dall'etnia e anche dal coinvolgimento in attività illecite di altri componenti, le cui responsabilità personali peraltro sono state e dovranno essere giustamente sempre perseguite; non dall'ubicazione dell'abitazione nello stesso quartiere ove risulta essere attiva l'associazione, né dal ruolo avuto nella commissione del reato e dalla professionalità dell'imputata, nei cui confronti potranno essere attivati, come indicato dallo stesso Tribunale efficaci, perché consapevoli rispetto alla caratura delinquenziale del soggetto destinatario degli stessi, controlli preventivi e modalità esecutive degli arresti domiciliari secondo le indicazioni specificate dallo stesso Tribunale.
4. Alla luce delle suesposte considerazioni rigetta il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Depositata in Cancelleria il 08.05.2012
13-05-2012 00:00
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