Condannato a trentanni per omicidio chiede alla corte di assise l'annullamento della sanzione accessoria dell'interdizione legale.
Autorità: Cassazione penale sez. I
Data udienza: 22 ottobre 2012
Numero: n. 44170
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIEFFI Severo - Presidente -
Dott. CAVALLO Aldo - Consigliere -
Dott. LOCATELLI Giuseppe - Consigliere -
Dott. LA POSTA Lucia - Consigliere -
Dott. BONI Monica - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.F. N. IL (OMISSIS);
avverso l'ordinanza n. 33/2011 CORTE ASSISE APPELLO di ROMA, del
02/02/2012;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;
lette le conclusioni del PG Dott. Volpe G., il quale ha chiesto il
rigetto del ricorso.
(Torna su ) Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza resa il 2 febbraio 2012 la Corte di Assise di Appello di Roma, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza, avanzata dal condannato S.F., detenuto in espiazione della pena detentiva di anni trenta di reclusione, inflittagli con sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma del 10/1/2002, di annullamento della sanzione accessoria dell'interdizione legale, conseguente alla predetta pronuncia di condanna, e, in subordine, di proposizione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 e dell'art. 20 cod. pen. per contrasto con gli artt. 27 e 111 Cost..
La Corte territoriale riteneva che, quanto alla prima richiesta, non sussistesse nell'ordinamento uno strumento processuale in grado di operare l'eliminazione della sanzione accessoria, prodotto automatico della condanna a pena detentiva superiore a cinque anni di reclusione, mentre concludeva per la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in ragione della già intervenuta pronuncia reiettiva da parte della Corte Costituzionale e del rilievo della temporaneità della durata dell'interdizione legale, commisurata all'entità della pena principale e quindi nel caso non perpetua e della discrezionalità della scelta legislativa circa la commisurazione della durata stessa.
2. Avverso tale provvedimento propone ricorso per cassazione lo S. a mezzo del suo difensore, il quale deduce: 1) violazione della legge penale in relazione alle disposizioni di cui all'art. 27 Cost., dell'art. 3 CEDU e dell'art. 117 Cost., comma 1 per il contenuto afflittivo ed umiliante della pena accessoria imposta dall'art. 32 cod. pen., in contrasto con il divieto imposto dall'art. 3 CEDU, profili non esaminati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 14/7/1986; 2) violazione di legge in relazione alle disposizioni di cui all'art. 111 Cost. e art. 6 CEDU per essere la pena in questione comminata in via automatica dalla legge e non dal giudice sulla base di una valutazione discrezionale che ne determini la durata tra due estremi minimo e massimo, il che comportava la negazione della sottoposizione ad un giusto processo.
3. Con requisitoria scritta del 19 aprile 2012 il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto il rigetto del ricorso, rilevando che, attraverso la previsione del collegamento della durata di pena principale e pena accessoria, resta salvaguardata la riconducibilità alla decisione giudiziale della sua imposizione, mentre la scelta operata dal legislatore circa il criterio di determinazione della durata si sottrae a censure di incostituzionalità perchè non irragionevole e non in contrasto con norme convenzionali.
4. Con memoria depositata il 5/10/2012 la difesa ha prodotto documenti ed illustrato altro profilo di afflittività della pena accessoria imposta allo S., correlato all'obbligo di sostenere gli oneri economici della tutela cui è sottoposto, nonostante la propria piena capacità mentale e fisica di gestire i propri interessi e di amministrare i propri beni.
(Torna su ) Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e va dunque respinto.
1. In primo luogo il ricorrente ha rinunciato a riproporre la prima delle due questioni sottoposte al vaglio del giudice dell'esecuzione, ossia quella diretta ad ottenere l'annullamento della sanzione accessoria dell'interdizione legale, risolta in senso negativo dalla Corte di Assise di Appello, sul corretto rilievo dell'inesistenza di una norma, sostanziale o processuale, in grado di incidere sul giudicato e di permettere in sede esecutiva di eliminare la pena legalmente inflitta.
2. Il ricorso s'incentra quindi esclusivamente sulla questione di illegittimità costituzionale delle norme di cui agli artt. 32 e 20 cod. pen..
2.1 Va premesso che il limitato contenuto dell'impugnazione, che devolve a questa Corte la sola questione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge, non ne pregiudica l'ammissibilità, in quanto, tenuto conto della natura del provvedimento impugnato, attraverso la contestazione della conformità a Costituzione della norma sostanziale disciplinante l'interdizione legale e la richiesta di eliminazione dall'ordinamento, si tende a conseguire un risultato favorevole per la posizione del proponente, che verrebbe quindi esentato dalla soggezione alla relativa sanzione accessoria. Deve dunque riconoscersi, da un lato l'astratta rilevanza della questione posta ai fini della definizione del presente procedimento, dall'altro l'ammissibilità del ricorso (Cass. S.U., n. 2958 del 24/3/1984, rv.
163410, Galli; sez. 3, n. 35375 del 24/5/2007, rv. 237401, Bortone).
2.2 Ciò posto, non ritiene questa Corte di poter pervenire in ordine alla questione di legittimità costituzionale sollevata col ricorso ad esiti differenti dalla soluzione espressa nell'ordinanza impugnata, che ne ha rilevato la manifesta infondatezza.
In primo luogo il ricorrente deduce la natura umiliante ed offensiva dell'interdizione legale, che, nel conseguire a qualsiasi condanna alla pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore a cinque anni e nell'inibire al soggetto, sebbene capace mentalmente e fisicamente, di disporre dei propri beni e di amministrarli, lo sottoporrebbe ad una forma di limitazione della libertà insuscettibile di conseguire un qualche effetto rieducativo. Da ciò discenderebbe il contrasto tra l'art. 32 cod. pen. da un lato e l'art. 27 Cost. e l'art. 3 CEDU dall'altro.
Sotto il primo profilo la Corte di Assise di Appello ha correttamente rilevato come la Corte Costituzionale abbia già respinto la questione d'incostituzionalità con la sentenza n. 183 del 14/7/1986, Marchi, la quale ha ritenuto infondata la denuncia di contrasto tra l'art. 32 cod. pen e l'art. 27.Cost. laddove impone la finalità rieducativa delle pene, con riferimento alla compatibilità tra interdizione legale e liberazione condizionale e ha rilevato in primo luogo che la pena accessoria in esame determina nei confronti del condannato l'applicazione delle disposizioni previste dalla legge civile per l'interdizione giudiziale, ma per i soli profili della disponibilità ed amministrazione dei beni e della perdita della potestà genitoriale, senza implicare altre più limitanti restrizioni alla capacità giuridica o di agire con riferimento agli atti attinenti al diritto di famiglia, ai diritti della persona ed alla facoltà di regolare la propria successione per testamento o di stare in giudizio per la tutela di situazione giuridiche soggettive a contenuto non patrimoniale, non coinvolte dalla pena accessoria. Ha quindi ravvisato la finalità dell'istituto nella tutela dei terzi, non esposti al rischio di contrarre con chi abbia riportato condanna per reati puniti con pena di entità consistente e superiore ai cinque anni e, se figli, non soggetti all'esercizio della potestà da parte del genitore interdetto, ma al tempo stesso ha ritenuto che l'istituto persegua interessi di tutela anche dell'interdetto stesso, impedendo una dannosa amministrazione o atti dispositivi di beni con impoverimento del suo patrimonio. I giudici costituzionali hanno quindi escluso che l'istituto come disciplinato dall'art. 32 cod. pen. si ponga in contrasto con le finalità rieducative del sistema punitivo penale e col divieto di sottoporre il condannato a trattamenti contrari al senso d'umanità, avendo rimarcato come la materia rientri sotto il profilo della durata della pena nelle scelte discrezionali del legislatore, rispetto alle quali non è consentito il sindacato di costituzionalità quando rispondenti, come nel caso sottoposto al loro scrutinio, al canone della ragionevolezza.
2.3 Per contro il ricorrente alle superiori argomentazioni oppone soltanto che la loro affermazione è frutto di "sentenza che afferma principi risalenti nel tempo e che oggi si devono ritenere superati" senza curarsi di specificare quali rilievi giuridici non siano più attuali rispetto alla legislazione ordinaria ed al sistema costituzionale vigente, il che già di per sè priva di valore la doglianza.
Sostiene poi che a norma dell'art. 27 Cost. l'ordinamento giuridico non può ammettere trattamenti punitivi contrari al senso di umanità ed alla rieducazione del condannato: ignora però gli effetti propri della pena accessoria in questione, che, come già detto, non implica modalità di esecuzione mortificanti e svilenti e non priva il soggetto di ogni capacità, confinandolo in una condizione di assoluto isolamento dal contesto sociale, ma incide soltanto sulla possibilità di compimento di atti a contenuto patrimoniale senza al contempo comportare una menomazione delle prerogative inviolabili della persona, un discredito irreversibile, un'offesa alla sua dignità, un pregiudizio agli interessi economici, per la cui cura soccorre l'intervento e l'opera del tutore.
2.4 Inoltre, non deve dimenticarsi che l'art. 27 Cost., comma 3, sotto il profilo dell'imposto divieto di punizioni e trattamenti contrari al senso di umanità ha operato quale parametro di riferimento in pronunce della Corte costituzionale soltanto quando si è scrutinato le norme dell'ordinamento penitenziario, specie quelle sul trattamento differenziato di cui all'art. 41-bis ord. pen., cui sono sottoposte alcune categorie di condannati per reati associativi, di cui si accerti il permanente collegamento con le organizzazioni di appartenenza; la Consulta, pur avendo ribadito che anche per il regime detentivo differenziato conserva validità il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, ha ravvisato la compatibilità di tali istituti al sistema dei valori costituzionali e ha rintracciato adeguata giustificazione per la previsione di tali forme di sospensione delle regole carcerarie ordinarie nelle esigenze preminenti di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblici (Corte Costituzionale n. 349 del 28/7/1993; n. 410 del 23/11/1993; n. 351 del 18/10/1996).
Non è nota una positiva affermazione di illegittimità costituzionale di norme diverse, riguardanti le sanzioni accessorie siccome contrastanti con la disposizione dell'art. 27 Cost., comma 3:
anche la recente ordinanza n. 134 del 31 maggio 2012, riguardante la denunciata incostituzionalità dell'art. 216, u.c., L. Fall., che stabilisce l'obbligatoria applicazione ad ogni imprenditore condannato per delitti di bancarotta delle pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni, fissa ed invariabile in ogni caso, ha dichiarato inammissibile la questione, rilevando che nella materia del trattamento sanzionatorio degli illeciti penali il legislatore è dotato di ampia discrezionalità nell'individuare le condotte da reprimere, le forme di punizione per quantità e qualità, la loro congruità rispetto alla tipologia e gravità del fatto antigiuridico, incontrando l'unico limite del divieto di un utilizzo di tale potere in modo distorto o arbitrario, contrastante con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, ravvisabile quando a fronte di situazioni eguali siano previste sanzioni differenti (C.C. n. 102/85; 341/94; 287/2001), oppure pene identiche per situazioni diverse, come nel caso della sottoposizione alla stessa sanzione del reato militare di omicidio del superiore, sia tentato, che consumato (C.C. n. 26/1979).
Altrettanto dicasi quanto alla pronuncia del 23 febbraio 2012 n. 31, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 569 cod. pen. nella parte in cui commina la sanzione accessoria della perdita della potestà dei genitori in ogni caso di condanna per il delitto di alterazione di stato: la Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole l'applicazione automatica della sanzione accessoria in forza della condanna per delitti contro la famiglia in assenza di una valutazione rapportata alle caratteristiche del caso concreto, perchè la potestà sottratta non è prerogativa dell'adulto, ma strumento di tutela e protezione del figlio minore e l'accertamento della responsabilità per condotte di alterazione di stato non comporta necessariamente la dimostrazione dell'inidoneità del condannato ad assolvere i compiti genitoriali, per cui è conforme ai parametri costituzionali assegnare al giudice della cognizione il compito di stabilire, nella comparazione tra la potestà punitiva dello Stato, l'interesse dell'imputato al giusto processo e quello del minore a vivere e crescere nella famiglia di origine col mantenimento di rapporti equilibrati con entrambi i genitori, quale sia il valore preminente nel caso specifico. Ebbene, la Corte Costituzionale ha offerto una soluzione non generalizzabile in termini di illegittimità dell'applicazione automatica di ogni pena accessoria, avendo avuto cura di precisare che la propria decisione era condizionata dalla natura del reato e dal tipo di sanzione, nel contesto concreto interferente con i diritti preminenti del figlio minore.
In conclusione, la rassegna degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale sul tema delle pene non consente di trarne spunti interpretativi per risolvere nel senso preteso dal ricorrente la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 32 cod. pen..
2.5 Va poi escluso che l'istituto dell'interdizione legale si ponga in contrasto con la norma di cui all'art. 3, primo protocollo, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), norma che, con formulazione non dissimile da quella dell'art. 27 Cost., comma 3, vieta di sottoporre i condannati a pene inumane e degradanti: si è già detto come la parziale perdita di capacità non svilisca in sè la persona, nè comporti limitazioni intollerabili perchè fonti di sofferenze morali ed umiliazioni, contrarie al rispetto della dignità individuale; inoltre, la sua imposizione risponde, più che a finalità punitive e retributive nei confronti di chi ha violato gravemente la legge penale, all'esigenza di prevenzione speciale, nonchè di protezione dei terzi e dello stesso imputato sottopostovi, per cui persegue uno scopo legittimo, tale da escludere la sottoposizione a trattamenti gratuitamente afflittivi.
Utili criteri per l'interpretazione dell'istituto e per la valutazione della sua conformità all'art. 3 della CEDU possono trarsi dalla sentenza resa dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell'uomo n. 126 del 22/5/2012, la quale, pronunciando su istanza dello stesso S. e riformando quasi all'unanimità la precedente decisione della sua seconda sezione, ha affermato la piena compatibilità tra la perdita del diritto di elettorato in capo al condannato a pena detentiva non inferiore a tre anni, conseguenza della sottoposizione nell'ordinamento italiano alla sanzione accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 20 c.p., e art. 28 c.p., comma 1, n. 1, art. 29 cod. pen. ed il citato art. 3 del Protocollo n. 1, che impone agli Stati contraenti di organizzare periodicamente libere elezioni ed assicura a ciascuno il diritto di parteciparvi. Ha altresì riconosciuto come consentita agli Stati nell'ambito del margine di apprezzamento discrezionale loro spettante l'introduzione di forme di limitazione dell'esercizio del diritto di voto, non del tutto soppresso, a seguito della commissione di un grave reato quando ciò risponda ad un fine legittimo e la misura sia ad esso proporzionata, non sia stabilito in modo automatico e generalizzato, indiscriminato per categorie di persone sulla scorta della sola pronuncia di condanna e se la sua applicazione sia determinata in funzione della entità della pena inflitta, della natura e della serietà delle violazioni accertate, del giudizio sulla personalità del condannato. Appare poi significativo che la medesima pronuncia abbia escluso la necessità che l'irrogazione di sanzioni accessorie del tipo dell'interdizione dai pubblici uffici debba essere oggetto di apposita valutazone da parte del giudice con riferimento al singolo caso deciso e previo riscontro della sua proporzione rispetto alla gravità dei fatti di reato ed all'entità della pena principale e che abbia indicato il modello normativo di interdizione dai pubblici uffici, esistente nella legislazione italiana, - non applicato in modo generalizzato a tutti i condannati e suscettibile di essere abbreviato nella sua durata in modo indiretto per effetto di liberazione anticipata, operante sulla pena detentiva principale - quale parametro positivo di confronto per istituti analoghi negli altri ordinamenti nazionali, in quanto funzionale al perseguimento del legittimo proposito di prevenire crimini ed aumentare nei cittadini il senso di rispetto per la legge nell'intento di mantenere l'ordine democratico.
I medesimi elementi orientano le valutazioni da condurre in questa sede con riferimento alla diversa pena accessoria di cui all'art. 32 cod. pen., che presenta però forti profili di analogia con l'interdizione dai pubblici uffici, dal momento che la sua applicazione avviene in stretta correlazione con la condanna a pena detentiva, rispetto alla quale è complementare, ma con selezione ancora più rigorosa dei soggetti sottoposti, dipendendo dall'entità della sanzione principale, che non deve essere inferiore a cinque anni di reclusione, sia la sua stessa irrogazione, sia la sua durata, strettamente commisurata alla pena detentiva. Ciò induce quindi ad escludere che l'interdizione legale sia oggetto di comminazione indiscriminata ed automatica a tutti coloro che riportino condanna per la commissione di un qualsiasi illecito costituente reato, ma trova nell'accertamento della responsabilità per le violazioni più gravi e severamente punite dall'ordinamento e nelle finalità legittime perseguite dal legislatore di tutela dei terzi e del condannato stesso la sua giustificazione, il suo titolo nel provvedimento giudiziale di condanna.
2.6 Va soltanto aggiunto che la rassegna delle decisioni della Corte Europea dei diritti dell'uomo prova come soltanto in due casi sia stata accertata la violazione dell'art. 3 del I Protocollo per la sottoposizione di condannati o sottoposti a custodia cautelare a trattamenti inumani da parte dello Stato Italiano: nel caso Labita c. Italia, deciso dalla Grande Camera con sentenza 6/4/2000, ric.n. 26772/95, era stata censurata la disposta archiviazione del procedimento per la conduzione in modo approssimativo e non effettivo delle indagini, originate dalla denuncia di un detenuto di avvenuta sottoposizione a maltrattamenti da parte del personale della polizia penitenziaria, che il denunciante si era dichiarato in grado di riconoscere; nel caso Sulejmanovic c. Italia, deciso con pronuncia della sezione 2^, del 16/7/2009 n. ric. 22635/03, si è considerata in contrasto con l'art. 3, per le sue modalità esecutive, la detenzione carceraria in ambienti sovraffollati e ristretti. Infine, va considerata anche la pronuncia della Grande Camera del 28/2/2008 nel caso Saadi contro Italia, ric. n. 37201/06, nel quale è stato dichiarato in contrasto con l'art. 3 CEDU l'ordine di espulsione di cittadino extracomunitario, emesso in attuazione delle disposizioni sulla lotta al terrorismo internazionale, per il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani cui l'espulso sarebbe stato esposto all'atto di fare ingresso in Tunisia.
Ebbene, i casi così risolti non presentano alcuna attinenza con il ben diverso tema dell'interdizione legale e delle limitazioni connesse.
3. Il ricorrente sostiene poi che la questione di illegittimità costituzionale debba essere sollevata con riferimento agli artt. 32 e 20 cod. pen. per contrasto con l'art. 111 Cost. e art. 6 CEDU in ragione dell'applicazione automatica della pena accessoria per effetto della disposizione di legge e non del provvedimento giudiziale. Critica la decisione della Corte di Assise di Appello, che ha rilevato la durata temporanea dell'interdizione legale sulla scorta delle indicazioni offerte dalla sentenza della Corte Europea per i diritti dell'uomo nel caso M.D.U. contro Italia, che però riguardava l'interdizione temporanea dai pubblici uffici, disposta in base a valutazione discrezionale del giudice e con determinazione della sua durata tra un minimo ed un massimo in base alle circostanze del caso.
Si ritiene di dover condividere il rilievo svolto dai giudici di merito, atteso che, stante la sottoposizione dello S. alla pena temporanea di anni trenta di reclusione e la necessaria commisurazione della pena accessoria a quella principale, anche la durata dell'interdizione nel suo caso non è perpetua; inoltre, il combinato disposto dell'art. 32 cod. pen. e dell'art. 20 cod. pen., secondo il quale le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna quali suoi effetti penali, indirettamente consente di ricondurre alla decisione giudiziale l'applicazione della pena accessoria, la cui durata replica quella della sanzione principale, senza che in ciò sia ravvisabile violazione dei canoni del giusto processo.
3.1 Del resto si è già detto, ma giova ribadirlo, che proprio con la sentenza del 22/5/2012 n. 126 nel caso Scoppola c. Italia, la Grande Camera della CEDU ha affrontato e risolto anche questo aspetto di criticità, sostenendo essere compresa nel margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri la scelta di stabilire se la pena accessoria debba essere applicata dal giudice, previa vantazione di proporzionalità al caso secondo le sue caratteristiche specifiche, oppure prevista da singole disposizioni di legge che stabiliscano i presupposti di irrogazione. Il medesimo spazio di apprezzamento discrezionale, che non richiede un intervento riformatore da parte del legislatore e nemmeno una pronuncia di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale per violazione dell'art. 117 Cost., vale anche per l'istituto dell'interdizione legale, il che esclude la possibile violazione dei principi sul giusto processo, sanciti dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 CEDU. 4. Infine, anche il profilo di incongruità segnalato dal ricorrente con i motivi aggiunti, consistente nella sopportazione delle conseguenze patrimoniali della sottoposizione a tutela per l'onere di corrispondere spese e compensi al tutore, non può condurre alla decisione invocata: quelli denunciati sono soltanto effetti pratici della sanzione accessoria, che però non si traducono in effettivo pregiudizio, inteso quale danno emergente o lucro cessante, atteso che il tutore svolge con piena effettività il suo compito di rappresentanza e cura degli interessi patrimoniali dell'interdetto e lo esenta da attività che, diversamente, dovrebbe essere posta in essere in prima persona, o meglio, da un rappresentante designato su base volontaria dal condannato, il quale, a fronte dell'esborso per spese e compensi, si avvantaggia dell'operato del tutore e dei suoi esiti.
Per tutte le ragioni esposte, il ricorso va respinto perchè infondato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
(Torna su ) P.Q.M.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2012.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2012
08-12-2012 10:38
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