Responsabilità medica. Se ad operare furono diversi soggetti la responsabilità è dell’equipe
Corte di Cassazione Sez. Quarta Pen. - Sent. del 20.12.2011, n. 46961
Svolgimento del processo
1. Il tribunale di Pisa ha ritenuto S.F. e M.A. responsabili del reato di lesioni colpose e li ha condannati a tre mesi di reclusione ciascuno oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, cui riconosceva una provvisionale di € 20.000 . AI S. e aI M. si contestava di avere, in cooperazione colposa tra loro, quali medici dell'ospedale Santa (…) S. primo operatore e M. aiuto, conducendo l'intervento di asportazione linfonodale latero cervicale sinistro, a fini bioptici, su F. M. paziente affetta da tumefazione di un linfonodo, per colpa, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia e per non aver adottato le regole di comune competenza chirurgica ed in particolare per errore costituito dall'aver omesso di adottare opportune manovre protettive atte a preservare le strutture nervose e per mancata identificazione delle strutture linfatiche con conseguente completo fallimento dell'intervento, cagionato alla predetta F.M. una lesione irreversibile del nervo accessorio spinale sinistro e di un ramo nervoso pertinente al plesso cervicale sinistro, con conseguente sviluppo di sindrome algo disfunzionale e con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni e con indebolimento permanente dell'organo della funzione prensile, fatto avvenuto in Pisa il 5 aprile del 2004.
2. La corte di appello di Firenze ha invece assolto entrambi gli imputati perché il fatto non costituisce reato ed ha revocato le statuizione civili. La corte d'appello ha ritenuto accertato, ed anzi non contestato, che la persona offesa, sottoposta il 5 aprile del 2004 ad intervento chirurgico di asportazione del linfonodo latero cervicale sinistro a fini bioptici da parte dei due imputati, in occasione di tale intervento avesse subito una lesione irreversibile del nervo accessorio spinale sinistro e di un ramo nervoso pertinente al plesso cervicale sinistro con le conseguenze sopra specificate, gli stessi imputati, con l'appello, avevano riconosciuto che le lesioni subite dalla parte civile si erano prodotte in occasione e in conseguenza dell'intervento in questione e che, in applicazione delle regole di responsabilità contrattuale, essi potevano ritenersi civilmente
responsabili del pregiudizio subito dalla parte lesa.
Diversa era la questione per quanto riguarda la responsabilità penale, al cui riguardo la corte riteneva fondato l'appello nella parte in cui aveva dedotto l'assoluta impossibilità di verificare a quale dei due operatori fosse attribuibile la condotta che aveva causato la lesione. Era pacifico che entrambi gli imputati avevano cooperato nell'attività di asportazione del linfonodo, in qualità il S.
di primo operatore ed il M. di aiuto al primo operatore, entrambi ponendo in essere atti chirurgici; tuttavia le indagini svolte non consentivano di individuare, con il necessario grado di certezza, in quale fase dell'intervento ed in conseguenza di quale, ovvero di quali, atto/i chirurgico si fosse prodotta la lesione subita dalla paziente né, a maggior ragione di accertare se essa fosse riconducibile alla condotta chirurgica dell'uno dell'altro ovvero di entrambi gli imputati. Osservava in particolare la corte che le conclusioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, dottor F. S e professor L. B, erano state che era in teoria possibile che il danno si fosse realizzato per compressione e/o stiramento legato all'uso del divaricatore, ovvero, ipotesi che essi ritenevano più probabile per lesione diretta da interruzione delle fibre nervose, come suggerito dalla clinica, indicativa di una rapida instaurazione della sintomatologia dolorosa e del deficit trofico funzionale dei muscoli, della grave entità del danno neurogeno e soprattutto dall'irreversibilità del quadro di completa assenza di recupero spontaneo. Secondo la Corte, a fronte di tali ipotesi alternative, non era possibile indicare, con il necessario grado di certezza, quale fosse la causa delle lesioni subite dalla F. M. in ogni caso la corte d'appello osservava che anche a voler attribuire senz'altro le conseguenze patite dalla F. ad una diretta lesione del nervo, gli atti non offrivano alcun specifico elemento per ricondurre l'atto o gli atti al S. piuttosto che al M. Neppure il dubbio poteva essere sciolto richiamando la preminenza del S. nel contesto dell'intervento, nella sua qualità di primo operatore, con il conseguente, esigibile, obbligo di sorveglianza, sovrintendenza e direzione nei confronti del collega M. giacché la lesione prodotta ben poteva essere conseguita, in ipotesi, non già ad una rilevabile inosservanza di metodologie, protocolli e leges artis, bensì ad una incidentale infelicità del singolo gesto chirurgico, non prevedibile ed evitabile, come tale, da parte del soggetto preposto al controllo. In conclusione, la mancata puntuale individuazione del contesto specifico e dell'atto chirurgico lesivo non consentiva - secondo la corte d'appello - di formulare un addebito di colpa nei confronti dell' uno e/o dell'altro imputato, sia per l'incertezza circa l'attribuzione soggettiva della condotta, a sua volta non esattamente individuata, sia in quanto l'incidentale insufficienza, in ipotesi, di manualità chirurgica non è, ipso facto ovvero automaticamente, riconducibile a colpa dell'operatore perché non necessariamente conseguente ad inosservanza delle leges artis o comunque, più in generale di doverose cautele.
3. Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso per cassazione le parti civili e il pubblico ministero.
3.1 Quest'ultimo formula censure sia perché la sentenza ignora la norma di cui all'articolo 113 del codice penale sia perché sono state travisate le conclusioni dei consulenti del pm nonché quelle della sentenza di primo grado. Sotto il primo profilo, il pm sottolinea che è stato ignorato uno specifico addebito di colpa indicato nel capo di imputazione, quello cioè di non avere proceduto all'asportazione del linfonodo in condizioni di sicurezza, condizioni che allorché i tessuti siano in condizioni di piena normalità, come nel caso in esame, possono essere assicurate al 100%. I due medici, con scelta che è stata comune, hanno del tutto ignorato la corretta tecnica chirurgica che impone di individuare con precisione i tessuti su cui operare e di isolare quelli da preservare, specie allorché si opera una parte del corpo assai delicata come il collo, per la presenza del nervo spinale accessorio. Sotto il secondo profilo, il pm fa presente che i consulenti tecnici non hanno formulato, come sostiene la sentenza, due ipotesi equivalenti, ma hanno invece indicato, in modo chiaro, nella sezione delle strutture nervose la causa del danno.
3.2 La difesa della parte civile con un primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e difetto di motivazione nonché travisamento della prova per quanto riguarda l'addebito colposo. Viene sottolineato che gli imputati rispondono, in cooperazione colposa tra di loro, di avere omesso la protezione delle strutture nervose, di mancata identificazione delle strutture linfatiche, di aver causato un danno irreversibile al nervo accessorio spinale e ad altro ramo nervoso. La corte d'appello ha del tutto obliterato che la contestata ipotesi di cooperazione contemplava, appunto, condotte molteplici, realizzate non da uno solo dei due chirurghi in un momento operatorio nel quale l'altro non avrebbe potuto inserirsi con un suo apporto correttivo o suppletivo, ma da entrambi, insieme, in un contesto nel quale le scelte, erronee, furono comuni e rispondenti a decisioni assunte in totale accordo. In particolare per quanto riguarda la mancata protezione delle strutture nervose, la difesa sottolinea che è evidente che la pianificazione di una tale protezione attiene allo studio e alla fase preparatoria dell'intervento, dunque ad uno stadio che accomuna il primo ed il secondo operatore nella lettura del materiale clinico, nella reciproca consultazione e nella scelta sulla tecnica e sulle modalità da seguire; se l'apporto, l'accordo e la decisione sono comuni, anche l'errore deve essere condiviso. Lo stesso dottor M. nel corso della testimonianza dal medesimo resa, ha spiegato che gli operatori discutono tra di loro per decidere che tipo di tecnica si deve adottare ed ha precisato che la scelta è certamente frutto di consultazione reciproca; in modo più specifico il medesimo dottor M. ha chiarito che la decisione di non proteggere le strutture nervose, anche con caricamento del nervo su fettuccia, non venne adottata in quanto da entrambi ritenuta inutile. Diversamente, invece, si erano espressi i consulenti tecnici del PM, le cui conclusioni erano state recepite dalla sentenza di primo grado. Anche per quanto riguarda la mancata individuazione delle strutture linfatiche, la difesa sottolinea che non di infelicità del gesto chirurgico si può parlare, così come ha fatto la corte d'appello, ma che in realtà vi fu un errore nella individuazione dell'area in cui effettuare il prelievo; l'approccio chirurgico scelta indubbiamente comune, avvenne in una regione del corpo sbagliata, dove si trovò non il linfonodo ma l'accessorio spinale. Con un secondo motivo si deduce violazione di legge e difetto di motivazione nonché travisamento della prova per quanto riguarda la ritenuta mancanza di prova circa l'esistenza di profili di colpa riferibili a ciascuno degli imputati. Sono state travisate, secondo il ricorrente, le conclusioni dei consulenti che solo in via teorica hanno ritenuto ipotizzabili due possibili ed alternative cause del danno (consistenti nell'uso del divaricatore e/o in una lesione diretta da sezione del nervo), ma che, specie in dibattimento, hanno ritenuto altissimamente probabile che nel caso concreto la lesione del nervo sia stata di tipo traumatico e di sezione della diramazione nervosa. Inoltre ben era possibile individuare gli specifici ruoli degli imputati, atteso che dalle loro stesse dichiarazioni emergeva che vi era un solo soggetto S. che aveva maneggiato lo strumento capace di cagionare la resezione.
Considerato in diritto
1.I ricorsi, che deducono motivi sostanzialmente coincidenti, sono fondati.
La Corte di appello circoscrive il tema della responsabilità al compimento da parte dei due operatori di singoli atti e conclude che l'impossibilità di individuare quelli posti in essere dall'uno e dall'altro non consente l'attribuzione agli stessi della responsabilità penale per le lesioni cagionate alla paziente, anche perché ben può essere avvenuto che le stesse abbiano avuto origine da una non perfetta manualità da parte di uno dei due operatori, non solo non individuabile, ma altresì non controllabile ed evitabile dall'altro.
Tale impostazione è censurabile perché non tiene conto della necessità di inquadrare la responsabilità dei due medici nel più vasto ambito del lavoro in equipe secondo l'accusa ad essi contestata con esplicito riferimento all'art. 113 del codice penale, avendo i due operatori collaborato all'intervento in qualità, il S., di primo operatore e, il M., di aiuto.
E' noto che si definisce attività medico-chirurgica in equipe, quella contraddistinta dalla partecipazione e collaborazione tra loro di più medici e sanitari, che interagiscono per il raggiungimento di un obiettivo comune. La collaborazione può essere contestuale, come solitamente accade - e come nel presente caso - negli interventi chirurgici di gruppo o d'equipe, laddove i singoli apporti collaborativi di tipo scientifico (di anestesisti, chirurghi ecc.) e i contributi meramente ausiliari (di infermieri specializzati ecc.) si integrano a vicenda e in un unico contesto temporale in vista del conseguimento del risultato sperato; oppure successiva, allorché l'unitario percorso diagnostico o terapeutico si sviluppi attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari o gruppi di sanitari diversi, temporalmente e funzionalmente successive (in quanto le une sono il presupposto necessario delle altre: es. radiografia, analisi cliniche, diagnosi, intervento chirurgico), ma unificate dal fine della cura e salvaguardia della salute del paziente.
La cooperazione di più soggetti solleva delicati problemi in ordine alla individuazione dei criteri di imputazione della responsabilità penale nell'attività medica di gruppo. Si tratta di stabilire, nel caso di esito infausto del trattamento sanitario, se ed in che limiti il singolo medico ne debba rispondere ed in particolare se possa rispondere dei comportamenti colposi riferibili ad altri componenti dell'equipe, fino a che punto si estendano i suoi obblighi di diligenza, perizia e prudenza laddove si trovi ad operare unitamente ad altri soggetti.
Il criterio generalmente applicato è quello del c.d. principio di affidamento, in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ma potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza proprie, salvo il dovere di sorveglianza di chi riveste la posizione apicale all'interno del gruppo; si delimita dunque la responsabilità del primario o del capo equipe che faccia affidamento sulla corretta esecuzione da parte dei medici di livello inferiore o dei componenti dell'equipe, sul presupposto di una posizione differenziata e di vertice del medesimo rispetto agli altri, con conseguente dovere di controllo sul loro operato e conseguente assunzione di responsabilità per lo stesso, temperata appunto dal principio di affidamento.
Tale principio non trova però applicazione, secondo pacifica dottrina e giurisprudenza (da ultimo v. sez. IV, 10.2.2011 l. ed altri ), nei casi in cui la colpa attenga all'inosservanza di obblighi comuni o indivisi tra i vari operatori.
E questa è la situazione che si è verificata nel presente caso in cui, come si è detto, l'accusa formulata nei confronti dei due endoscopisti, con esplicito riferimento all'art. 113 del codice penale, è quella di un non corretto approccio chirurgico nei confronti della paziente, sotto il profilo della mancata protezione delle strutture nervose presenti in una regione delicata come quella del collo, e della mancata identificazione delle strutture linfatiche; con conseguente completo fallimento dell'intervento.
Come correttamente evidenziato dai ricorrenti, si tratta di condotte che attengono non al compimento di singoli atti che possono essere state realizzati da uno solo dei due chirurghi in un momento operatorio nel quale l'altro non avrebbe potuto inserirsi con un suo apporto correttivo o suppletivo (come sembra ritenere la sentenza che attribuisce ad uno il compito di operare con il divaricatore ed all'altro quello di effettuare il prelievo), ma che riguardano le scelte di fondo (la decisione se proteggere o meno le strutture nervose, anche con caricamento del nervo su fettuccia, questione di cui i medici riconoscono di avere discusso, la individuazione dell'area in cui effettuare l'intervento) rilevanti ai fini dell'intervento medesimo, scelte che non possono che essere state da entrambe condivise e che, ove erronee e colpevoli, conducono alla responsabilità di entrambi gli imputati.
Con tale prospettazione la sentenza non si è affatto confrontata, ma ha incentrato la propria attenzione sui singoli gesti posti in essere, alla ricerca di una attribuibilità degli stessi che presupponeva fosse stata previamente data una risposta alla correttezza delle scelte di fondo. Di ciò dovrà farsi carico il giudice di rinvio, cui spetterà anche, se del caso, rimeditare le conclusioni cui è giunta la Corte di appello circa la causa della lesione subita dalla F. (se da sezione del nervo o da uso del divaricatore) e circa la individuazione dei contributi degli imputati, questioni sulle quali la motivazione fornita dalla Corte di appello necessita di essere approfondita alla luce delle risultanze processuali e secondo i rilievi formulati dai ricorrenti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Firenze per nuovo esame.
Depositata in Cancelleria il 20.12.2011
26-12-2011 00:00
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