PUGNO IN FACCIA A GIOCO FERMO: SUPERA IL RISCHIO CONSENTITO. Cassazione, sez. V, 14 marzo 2011, n. 10138
Indipendentemente dal fatto che il gesto violento sia stato compiuto mentre il gioco era fermo a tutti gli effetti, oppure da considerarsi attivo secondo le regole della pallacanestro (ma comunque in un momento anteriore alla rimessa in gioco della palla dopo il fischio dell'arbitro), l'avere colpito con un pugno l'avversario non già per un eccesso agonistico nel contendergli il possesso della palla, ma per finalità estranee alla competizione, comporta il superamento del limite del c.d. "rischio consentito" e si rende penalmente perseguibile.
La giurisprudenza di legittimità infatti, è costante nell'escludere l'applicabilità della causa di giustificazione non codificata dell'esercizio di attività sportiva, ogniqualvolta sia ravvisabile nell'agente la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'incolumità dell'avversario, approfittando della circostanza del gioco
Cassazione, sez. V, 14 marzo 2011, n. 10138
(Pres. Calabrese – Rel. Oldi)
Motivi della decisione
Con sentenza in data 18 maggio 2009 il Tribunale di Alessandria in composizione monocratica, riformando ai soli effetti civili la pronuncia assolutoria del locale giudice di pace, ha condannato M. L. al risarcimento dei danni in favore di B. A., quale responsabile del delitto di lesione volontaria nei di lui confronti.
Secondo l'ipotesi accusatola, recepita dal giudice di secondo grado, nel corso di una partita di pallacanestro il M. aveva colpito a gioco fermo il B. con un pugno volontariamente sferratogli al volto, causandogli la frattura delle ossa nasali.
Ha proposto ricorso per cassazione il M., per il tramite del difensore, affidandolo a quattro motivi.
Col primo motivo il ricorrente eccepisce l'inammissibilità dell'appello della parte civile, adducendo il disposto del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 38.
Coi restanti motivi, trattati congiuntamente nel ricorso, il M. contrasta innanzi tutto la ricostruzione dei fatti cui ha acceduto il Tribunale, avuto riguardo al convincimento che il fatto si fosse verificato a gioco fermo, richiamandosi in argomento alle regole e alle modalità di svolgimento del gioco della pallacanestro; invoca la causa di giustificazione - non codificata, ma equiparabile in via analogica al consenso dell'avente diritto - dell'esercizio di attività sportiva; impugna la condanna al risarcimento dei danni, proponendo censure anche in ordine al quantum e invocando la clausola compromissoria, vincolante per i giocatori di pallacanestro tesserati.
Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.
A confutazione del primo motivo corre l'obbligo di osservare che il disposto del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 38 trova applicazione soltanto nell'ipotesi in cui la citazione a giudizio dell'imputato sia stata chiesta dalla persona offesa con ricorso diretto al giudice di pace, ai sensi dell'art. 21 dello stesso decreto.
Non ricorrendo tale presupposto nel caso di specie, la disciplina applicabile è quella ordinaria; nell'ambito di questa le facoltà d'impugnazione della parte civile non hanno subito limitazioni con l'entrata in vigore della L. 20 febbraio 2006, n. 46, ma si sono invece estese per effetto della soppressione dell'inciso "con il mezzo previsto per il pubblico ministero" nell'art. 576 c.p.p., comma 1.
In conseguenza di ciò, infatti, essendo venuto meno il vincolo di collegamento fra la potestà d'impugnazione del pubblico ministero e quella della parte civile, a quest'ultima è consentito gravarsi senza alcuna restrizione - ai soli effetti civili - contro la sentenza che le è sfavorevole, sia nel giudizio ordinario sia nel procedimento di pace (Cass. Sez. Un. 29 marzo 2007, p.c. in proc. Lista).
Le restanti censure mosse dal ricorrente s'indirizzano a sostenere, sulla scorta di una diffusa illustrazione delle regole della pallacanestro, la tesi secondo cui la condotta incriminata si sarebbe realizzata mentre il gioco era attivo; da ciò dovrebbe trarsi la conseguenza, nell'ottica del gravame, per cui il fatto è scriminato dalla causa di giustificazione - non codificata, ma riconosciuta come tale dalla coscienza sociale - che esime da punibilità la violenza sportiva.
Nel rendere conto dell'infondatezza dell'assunto occorre premettere che, in punto di fatto, il giudice di appello ha raggiunto il convincimento che L. M., nel corso della partita di pallacanestro giocata il 25 maggio 2003 fra le squadre di … e …, avesse deliberatamente colpito con un pugno l'avversario A. B. dopo il fischio dell'arbitro che aveva fermato l'azione per un fallo di gioco.
Siffatta ricostruzione dell'episodio, siccome elaborata nell'osservanza dei canoni di valutazione della prova e motivata secondo logica, deve considerarsi insindacabile in questa sede ed essere posta, perciò, a fondamento della valutazione giuridica cui si è chiamati.
Ciò detto, merita adesione il giudizio espresso dal Tribunale con l'osservare che, indipendentemente dal fatto che il gesto violento sia stato compiuto mentre il gioco era fermo a tutti gli effetti, oppure da considerarsi attivo secondo le regole della pallacanestro (ma comunque in un momento anteriore alla rimessa in gioco della palla dopo il fischio dell'arbitro), l'avere colpito con un pugno l'avversario non già per un eccesso agonistico nel contendergli il possesso della palla, ma per finalità estranee alla competizione, comporta il superamento del limite del c.d. "rischio consentito" e si rende penalmente perseguibile.
La giurisprudenza di legittimità infatti, è costante nell'escludere l'applicabilità della causa di giustificazione non codificata dell'esercizio di attività sportiva, ogniqualvolta sia ravvisabile nell'agente la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'incolumità dell'avversario, approfittando della circostanza del gioco (oltre a Cass. 2 dicembre 1999 n. 1951/00, citata in modo impreciso dal Tribunale, vedansi le più recenti Cass. 20 gennaio 2005 n. 19473 e Cass. 13 febbraio 2009 n. 17923).
Quanto ai criteri di quantificazione del danno, vi è solo da osservare che il Tribunale si è limitato ad emettere una condanna generica, rimettendo al giudice civile ogni questione attinente alla relativa liquidazione; ciò è perfettamente legittimo, bastando a giustificare la condanna generica l'avvenuto accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e del nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato, mentre non è necessaria alcuna indagine sulla concreta esistenza di un danno risarcibile (Cass. 5 giugno 2008 n. 36657).
Va rilevato, da ultimo, che la doglianza diretta a invocare l'applicazione di una clausola compromissoria è inammissibile per carenza di specificità, non essendo precisato se detta clausola estenda la propria area di operatività anche ai fatti di rilevanza penale.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Non ricorrono i presupposti per disporre in ordine alle spese della parte civile nel presente giudizio di legittimità, mancando la necessaria richiesta in forma scritta.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
01-07-2011 00:00
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