Il dirigente di un ufficio pubblico deve impedire violazioni dell'orario di lavoro;Truffa aggravata, concorso, condotta omissiva.Cassazione penale , sez. II, sentenza 29.09.2011 n° 35344
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 23 giugno - 29 settembre 2011, n. 35344
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con sentenza del 1 dicembre 2010 la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza pronunziata dal locale Tribunale con la quale R.E. era stato condannato alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 300,00 di multa per il reato di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano. In particolare, all'imputato veniva addebitato di aver consentito, nella sua qualità di direttore del settore "relazioni esterne" del Comune di Milano, che alcune dipendenti con abitualità attestassero falsamente la loro presenza in ufficio.
Contro la sentenza della Corte territoriale, il R. propone ricorso per cassazione, allegando due motivi.
Col primo motivo, deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui afferma che egli era consapevole della truffa perpetrata dalle dipendenti. Osserva al riguardo che l'introduzione del sistema di controllo computerizzato delle presenze tramite l'impiego di un tesserino magnetico di identificazione personale (c.d. badge) costituiva una contromisura adeguata contro gli assenteismi e, di conseguenza, egli non poteva avere nessuna ragione per sospettare che, tutto ciò nonostante, alcune dipendenti avevano architettato un modo per eludere il controllo. Aggiunge che, comunque, non rientrava fra le sue mansioni di controllare l'effettiva presenza del personale, compito invece spettante al responsabile del personale Dott. C.; e che quest'ultimo, sottoscrivendo i fogli di presenza, in sostanza lo rassicurava circa l'inesistenza di eventuali regolarità.
Col secondo motivo, il R. si duole del vizio di motivazione anche in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità fra la condotta omissiva addebitatagli e l'evento dannoso. Precisa, a tal proposito, che - a tutto voler concedere - null'altro avrebbe potuto fare se non avviare un procedimento disciplinare, cosa in sè inidonea a scongiurare la reiterazione della condotta criminosa.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
I vizi di motivazione dedotti dal R., infatti, muovono tutti dal presupposto che l'imputato sia stato chiamato a rispondere del reato, in concorso con le dipendenti assenteiste, come se la sua responsabilità penale derivasse dal fatto di non aver impedito l'evento ai sensi dell'art. 40 c.p.. Solo così, infatti, si spiega il rilievo dato dalla difesa alla ripartizione dei compiti e delle mansioni all'interno dell'ufficio, alla valenza "scriminante" che avrebbe dovuto avere l'introduzione del badge, alle attestazioni contenute nei fogli di presenza, alle iniziative disciplinari che l'imputato - al più - avrebbe potuto avviare se avesse scoperto la truffa.
Tali elementi, invece, non sono stati tenuti in considerazione decisiva dal giudice di merito in quanto la Corte d'appello ha ritenuto, piuttosto, che la partecipazione del R. ai fatti commessi dalle dipendenti si sia concretizzata in un comportamento sostanzialmente commissivo.
Infatti, così la Corte conclude, in esito alla disanima di vari elementi di fatto: "si è ritenuto, proprio attraverso le testimonianze acquisite, che le stesse le dipendenti assenteiste abbiano esercitato all'interno del settore un potere intimidatorio nei confronti dei sopra citati dipendenti del Comune di Milano, potere nascente da un troppo spesso evidenziato rapporto preferenziale da loro goduto nei confronti del direttore generale R., rapporto che oltre a mantenerle in una posizione in una posizione privilegiata, le rendeva capaci di ottenere il silenzio di tutti gli altri dipendenti pena la delazione al capo" (pag. 4).
Non sussiste, quindi, il lamentato vizio di motivazione, dal momento che gli elementi che il R. assume siano stati trascurati sono manifestamente ininfluenti nella ricostruzione dei fatti offerta dai giudici di merito. Ogni altra censura al riguardo è in punto di fatto ed inammissibile nel giudizio di legittimità.
Si deve pervenire a pari conclusioni anche per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, non soltanto se inteso nei termini in cui è stato prospettato di vizio di motivazione, ma anche se diversamente qualificato come errore nell'applicazione della legge penale. Il nesso di causalità la cui assenza è denunciata col ricorso, infatti, attiene pur sempre alla struttura del concorso ex art. 40, secondo comma, c.p.; in questa logica si spiega perchè il R. si duole del fatto che la Corte d'appello avrebbe omesso di trascurare che egli non aveva il potere di impedire l'evento, potendo al più esercitare l'azione disciplinare nei confronti delle dipendenti assenteiste. Ma il fatto ritenuto dai giudici di merito è invece diverso e si sostanzia - come già detto - in un concorso commissivo realizzatosi mediante la manifestazione di una chiara apparenza, anche agli occhi degli altri dipendenti, di un ingiustificato rapporto di "protezione" che finiva col creare, a favore delle corree, la sostanziale impunità dalle loro condotte illecite, sottraendole di fatto al "controllo sociale" ed al rischio di delazione da parte dei colleghi che si fossero avveduti delle ripetute violazioni da loro commesse nell'osservanza dell'orario di lavoro. La censura non è quindi pertinente.
Ed infatti concorre nel reato con condotta commissiva - anzichè mediante omissione ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2 - il dirigente di un ufficio pubblico che non soltanto non impedisce che alcuni dipendenti pongano in essere reiterate violazioni nell'osservanza dell'orario di lavoro, aggirando in modo fraudolento il sistema computerizzato di controllo delle presenze, ma favorisca intenzionalmente tale comportamento creando segni esteriori di un atteggiamento di personale favore nei confronti dei correi, in modo tale da creare intorno ad essi un'aurea di intangibilità, disincentivare gli altri dipendenti dal presentare esposti o segnalazioni al riguardo e così affievolire, in ultima analisi, il c.d. "controllo sociale". Pertanto tale condotta ha. in sè. valenza agevolatrice nella commissione del reato, anche solo per il sostegno morale e l'incoraggiamento che i dipendenti infedeli ricevono da una simile situazione di favore, senza che occorra quindi accertare, sul piano del rapporto di causalità, se il dirigente dell'ufficio avesse il potere di impedire la consumazione del reato o se avesse a tal fine contemporaneamente assunto iniziative di portata generale (quale l'introduzione del controllo computerizzato delle presenze), iniziative comunque rivelatesi inefficaci.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali.
18-11-2011 00:00
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