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Sentenza

Artigianato veneziano: per la Cassazione non c’è reato se manca la scritta “made in Italy” perchè non c’è inganno per il consumatore.  Corte di Cassazione Sez. Terza Pen. - Sent. del 18.07.2011, n. 28220
Artigianato veneziano: per la Cassazione non c’è reato se manca la scritta “made in Italy” perchè non c’è inganno per il consumatore. Corte di Cassazione Sez. Terza Pen. - Sent. del 18.07.2011, n. 28220
Artigianato veneziano: per la Cassazione non c'è reato se manca la scritta “made in Italy” perchè non c'è inganno per il consumatore.

Corte di Cassazione Sez. Terza Pen. - Sent. del 18.07.2011, n. 28220

 

Svolgimento del processo

Con l'ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Venezia confermò il decreto del pubblico ministero di Venezia del 19 giugno 2010, di sequestro probatorio in danno di circa 30.000 articoli vari in vetro (vasi, portacenere, animali, collane, gondole, maschere veneziane, ecc. rinvenuti presso i locali della (…) srl, in riferimento al reato di cui all'art. 4, comma 49, legge_350_2003  e 517 c.p., avendo i militari della guardia di finanza rilevato che gli oggetti riportavano unicamente etichette con la scritta “(… - Venezia)”, scritta che era riportata anche sui cartelli esposti nella vetrina del negozio senza la presenza di indicazioni tali da non indurre il consumatore in errore.
II tribunale del riesame ha in particolare ritenuto che non si trattava di un illecito amministrativo, dopo la depenalizzazione della fattispecie avvenuta con il nuovo comma 49 bis inserito nell'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, dal comma 6 dell'art. 16 del decreto_legge_135_2009, perché quest'ultimo articolo, al comma 4, prevede una nuova fattispecie incriminatrice, nella quale
rientra il caso in esame, perché molti degli oggetti sequestrati contenevano intrinsecamente, per la foggia e per la tipologia del soggetto raffigurato, una intrinseca indicazione di italianità, ed anzi di venezianità.
L'indagato propone ricorso per Cassazione deducendo :
a) erronea applicazione dell'art. 517 cod. pen. dell'art. 4, comma 49,della legge 24 dicembre 2003, n. 350; dell'art. 16, commi 1, 3 e 4. del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con legge 20 novembre 2009. n. 166;
b) inosservanza dell'art. 4, comma 49 bis, della legge 24 dicembre 2003, n. 350.
In particolare osserva che nessuno degli oggetti recava la dicitura ” made in Italy” o altra indicativa di una loro realizzazione interamente in Italia, ma era solo presente il logo “(…) Art Style Mode Design” affisso alle vetrine ed agli espositori del negozio. Il tribunale ha quindi erroneamente disapplicato la nuova disposizione dell'art. 4, comma 49 bis, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, introdotto dal comma 6 dell'art. 16 del dl. 25 settembre 2009, n. 135. In ogni caso, anche a prescindere dalla innovazione legislativa, la fattispecie non rientra nella sfera di applicazione dell'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. Nemmeno rientra poi nella previsione della nuova norma incriminatrice prevista dal comma 49 bis inserito nell'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, dal comma 6 dell'art. 16 del d.l. 25 settembre 2009. n. 135.

Motivi della decisione

Il ricorso è chiaramente fondato.
Preliminarmente, può osservarsi che il fatto che il sequestro abbia avuto ad oggetto ben 30.000 oggetti, dimostra che le finalità perseguite dal provvedimento non erano probatorie, bensì preventive. Sembra opportuno ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è illegittimo un sequestro avente finalità preventive che invece il pubblico ministero qualifichi come sequestro probatorio ed adotti con proprio decreto, atteso che con tale inesatta qualificazione il pubblico ministero verrebbe illegittimamente ad espropriare il giudice per le indagini preliminari della giurisdizione che l'art. 321 cod. proc. pen. gli riserva in tema di adozione di sequestro preventivo; e che il tribunale del riesame non può limitarsi a ritenere vincolanti la qualificazione e la finalità del sequestro indicate nel verbale della PG, o nel decreto del PM, ma deve compiere una autonoma e motivata valutazione delle finalità in concreto effettivamente perseguite e della reale natura del sequestro stesso (cfr. Sez. III, 5 giugno 2007, n.37837, m. 23795; Sez. III, 26.1.2011, Morlando; Sez. III, 24.9.2099, Margani; Sez. III, 3 novembre 2009, El Kaarti; Sez. III, 9 febbraio 2010, Conte; Sez. III, 28 settembre 1995, Viola, m. 202.953; Sez. I, 19 ottobre 1993, Artuso, m. 195712).
Venendo più specificamente alla sussistenza del fumus del reato ipotizzato, deve ricordarsi che questa Corte, prima dell'entrata in vigore della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (anche a seguito della modificazione apportata dall'art. 1, comma 9, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35), relativamente ai prodotti industriali, per “provenienza ed origine” della merce non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti. (Sez. III, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438: Sez. III 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. III, 17.2.2005. n. 13712, Acanfora, m. 23383): Sez, III, 19.4.2005. n. 34103, Turantino. m.
232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. III, 24.1.2007, n. 8684, Emili m. 236037; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250. Contarini, m. 237812; Sez. III, 28.9.2007, n. 166/08, Parentini. m. 238560: Sez. III, 10.2.2010. Beltrame; Sez. III, 9.2.2010, Follieri; Sez, III, 23.9.2010, Di Sartolomeo).
In particolare, è stato più volte affermato che quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della merce, è poi irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della merce, dal momento che essa si è comunque resa garante della qualità della merce stessa nei confronti degli eventuali acquirenti (Sez III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110: Sez. III, 17.2.2005, n. 13712. Acanfora. m. 231831; Sez. III, 19.4.2005. n. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. III, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar. m. 234468; Sez. III, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarini, m. 237812: Sez. III, 28.9.2007, n. 166/08. Parentini, m. 238560; Sez. III, 13 maggio 2008 Mazza).
E' stato peraltro specificato che il reato è astrattamente configurabile solo quando, oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l'imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione (paese da individuare secondo le disposizioni del codice doganale europeo). In questi casi, invero, la falsa apposizione del marchio “made in Italy” o “prodotto in Italia” sarà punita ai sensi dell'art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro paese sarà comunque punita ai sensi dell'art. 517 cod. pen. In questi casi, infatti, non ha più rilievo la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte (egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi, ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perché fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo). Con la precisazione che ciò può verificarsi solo quando sul prodotto sia
apposta la specifica indicazione del suo luogo di produzione, e questo sia falso alla stregua dei criteri indicati dal codice doganale europeo. Non è invece sufficiente l'indicazione di un marchio, o del nome della ditta o dell'impresa, o anche della località in cui ha sede questa impresa, o simili indicazioni, quando non sia indicato specificamente che il prodotto è fabbricato in Italia o in un altro determinato paese. Né sono sufficienti indicazioni pubblicitarie che si riferiscono all'impresa e non al luogo di produzione.
Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che è erronea la tesi che le disposizioni in esame (ossia l'art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350, come modificato dall'art. 1, comma 9, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito dalla legge 4 maggio 2005, n. 80, avrebbero imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all'estero un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.
Invero, almeno sulla base delle disposizioni di legge dianzi ricordate, non esiste alcun obbligo per l'imprenditore di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto (anche se commercializzato con il suo marchio).
La suddetta tesi, del resto, non solo non trova fondamento nella lettera e nella ratio delle disposizioni in questione, ma deve essere disattesa anche per la necessità di dare alle disposizioni stesse una interpretazione adeguatrice, che non rischi di porle in contrasto con i principi dell'Unione europea e con quelli costituzionali (Sez. III 2 marzo 2005, n. 23043. Dewar. m. 234468).
Ed invero, qualora un siffatto obbligo fosse posto unilateralmente soltanto dal legislatore nazionale e non anche dagli altri paesi dell'Unione, potrebbe prospettarsi un pericolo di non conformità con i principi europei relativi alla libera circolazione dei beni e servizi ed alle misure di effetto equivalente. Un obbligo del genere potrebbe infatti avere l'effetto di scoraggiare i rapporti tra imprese situate in Stati membri diversi, potendo indurre l'impresa che deve far realizzare da altri i propri prodotti apponendovi il suo marchio, a rivolgersi all' industria nazionale invece che ad imprese situate in altri Stati membri. Del resto, proprio in applicazione di tali principi, gli organi dell'Unione europea e la Corte di Giustizia si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti.
Un obbligo del genere, inoltre, potrebbe, in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., portare ad una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali e ad una compressione della libertà di iniziativa nei confronti di alcuni imprenditori nazionali (sia rinvia, per brevità, in ordine ai possibili contrasti con principi costituzionali o europei, a Sez. III, 10.2.2010, n. 15374, Beltrame: Sez. III, 9.2.2010, n. 19746, Foilieri; Sez, III, 23.9.20 10, Di Bartolomeo).
Questa interpretazione è altresì confermata dalle modifiche apportate all'art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003. n. 350, con l'art. 17, comma 4, lett. a), della legge 23 luglio 2009, n. 99. E difatti, solo con questa disposizione - avente chiaramente natura innovativa e non interpretativa - è stata introdotta nel suddetto comma 49 una disposizione che prevede che qualora sugli oggetti
fabbricati all'estero siano apposti marchi di aziende italiane debba anche essere apposta “l'indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera”. L'introduzione di questa nuova disposizione conferma che in precedenza non vi era obbligo di indicare il luogo di fabbricazione per gli oggetti prodotti all'estero, quand'anche sugli stessi fossero apposti marchi di aziende italiane, che quindi l'imprenditore era libero di usare anche su oggetti prodotti all'estero senza alcuna altra specificazione.
Sennonché il suddetto art. 17, comma 4, della 23 luglio 2009. n. 99 (con la disposizione da esso inserita nell'art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350) dopo due mesi dalla sua entrata in vigore è stato abrogato, dall'art. 16. comma 8, del d l , 25 settembre 2009. n. 135, convertito con legge 20 novembre 2009, n. 166 (il che è significativo della necessità di raccordare le norme nazionali con quelle europee).
Il comma 6 del medesimo art. 16 del dl, 25 settembre 2009, n. 135, peraltro, ha inserito neIl'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il comma 49 bis, il quale ora prevede che “costituisce fallace indicazione l'uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull'origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazione precise e evidenti sull'origine o provenienza estera, o comunque, sufficienti ad evirare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000″. Pertanto, attualmente, un obbligo di indicazione della origine estera del prodotto sussiste soltanto nell'ipotesi di uso del marchio, da parte del titolare, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Peraltro, anche in questo caso, non è indispensabile l'indicazione del paese di fabbricazione, essendo sufficienti altre indicazioni che evitino fraintendimenti del consumatore sull'effettiva origine del prodotto ovvero una attestazione sulle informazioni che verranno in seguito rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.
Il mancato adempimento ditale obbligo, peraltro, non è previsto come reato e costituisce solo un illecito amministrativo. In questa sede sono quindi irrilevanti eventuali profili di non conformità di dette norme ai principi comunitari o costituzionali.
Può ancora ricordarsi che la prescrizione di una indicazione sul luogo di produzione è stata prevista, come è noto, dalla legge 8 aprile 2010, n. 55 (Disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri) la quale si applica però, come precisa anche l'art. 1, comma 1, soltanto ai prodotti finiti e intermedi nei settori tessile, della pelletteria e calzaturiero, i quali devono ora portare una etichettatura che, tra l'altro, evidenzi il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e assicuri la tracciabilità dei prodotti stessi, specificando anche, all'art. 1, comma 10, che ” per ciascun prodotto di cui al comma 1, che non abbia i requisiti per l'impiego dell'indicazione Made in Italy, resta salvo l'obbligo di etichettatura con l'indicazione dello Stato di provenienza, nel rispetto della normativa comunitaria”. La violazione
di questa norma, peraltro, costituisce un illecito amministrativo.
La specialità di questa disciplina - che non si applica evidentemente al caso in esame - conferma l'inesistenza, per l'imprenditore italiano, di un obbligo generale di indicare il luogo estero di realizzazione del prodotto che egli commercializza in Italia.
Nel caso di specie gli oggetti erano detenuti per la vendita in un negozio sulle cui vetrine ed espositori interni era applicata la denominazione sociale della “(…)”, accompagnata dalla dicitura “Art Style Mode Design”, ossia dell' impresa che li commercializzava in Italia e che ne aveva assunto la responsabilità e la garanzia di qualità. Era dunque assente una positiva indicazione di realizzazione dei prodotti nei territorio italiano. E mancava altresì l'idoneità della suddetta dicitura ad ingenerare nel consumatore il convincimento che gli articoli dovessero essere stati fabbricati in Italia. La dicitura aveva lo stesso valore semantico rappresentativo del marchio imprenditoriale e non era idonea a dimostrare una realizzazione dei beni in Italia.
L'ordinanza impugnata ha peraltro fatto riferimento anche al comma 4 del citato art. 16 del dl 25 settembre 2009, n. 135. convertito in legge 20 novembre 2009, n. 166. il quale, introducendo una nuova fattispecie incriminatrice, dispone che ” chiunque fa uso di un'indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale al 100% made in Italy, al 100% Italia, tutto Italiano, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione, al di fuori dei presupposti previsti nei commi 1 e 2 è punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall'art. 517 del codice penale, aumentate di un terzo”. Il tribunale del riesame ha appunto ritenuto che il caso in esame rientrasse in questa nuova fattispecie penale perché le originarie etichette erano state sostituite con altre riportanti la dicitura “… Airt Style Mode Design” - Venezia” e perché una notevole quantità degli oggetti posti in vendita “contiene già in sé, per foggia e per tipologia del soggetto raffigurato, una vera e propria indicazione di vendita rientrante nella nozione delineata dall'art. 16. comma 4 cit., stante l'esclusiva “italianità”, ed anzi l'esclusiva “venezianità”» che connota le gondole, le gondoline, le maschere, le mascherine, le maschere con impugnatura ecc.
La tesi è chiaramente priva di fondamento. La disposizione del comma 4 del dell'art. 16 cit. si riferisce esclusivamente a quelle indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, ossia esplicitamente alle indicazioni del tipo “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o altre analoghe indicazioni idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione
della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero anche alla apposizione di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione di un prodotto realizzato interamente in ltaIia. Ora, è evidente che la tesi del tribunale del riesame si basa su una interpretazione della disposizione dell' art. 16, comma 4, del dl 25 settembre 2009 , n. 135, completamente isolata dal contesto normativo in cui è inserita. Secondo tale tesi, infatti, il legislatore avrebbe, del tutto contraddittoriamente introdotto una nuova fattispecie di illecito amministrativo destinata a ridurre l'ambito di operatività dell'art. 4, comma 49, l n. 350 del 2003 e contemporaneamente, con lo stesso atto legislativo, avrebbe creato una nuova fattispecie delittuosa idonea in pratica a sovrapporsi alla sfera di applicazione del nuovo illecito amministrativo (per di più inasprendo il trattamento sanzionatorio penale, con la previsione dell'aumento di un terzo delle pene previste dall'art. 517 cod. pen. E' quindi chiaro che non si può dare all'art. 16. comma 4, deI dl 25 settembre 2009, n. 135, una interpretazione tale da esautorare, praticamente, la portata normativa del comma 6 del medesimo articolo e ripristinare, facendola per così dire rientrare dalla finestra, la fattispecie penale che con quest'ultima disposizione il legislatore ha voluto depenalizzare.
La nuova norma penale, pertanto, può applicarsi solo alle diciture, indicazioni o segni che inequivocamente dichiarino o inducano a ritenere che il prodotto è stato interamente realizzato in Italia, tenendo conto che, ai sensi dei comma 1 del medesimo art. 1 6, “Si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”.
Ora, come già si è rilevato, la dicitura applicata sulle vetrine e sui contenitori siti nel negozio non era nemmeno idonea (anche alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte) a far ritenere che il prodotto fosse stato fabbricato in Italia e, pertanto, tanto meno potrebbe ritenersi idonea a ingenerare nel consumatore la convinzione di un prodotto fabbricato interamente in italia.
Sono state infatti ritenute inidonee a far presumere la fabbricazione in Italia (cfr. Sez. III, 10 febbraio2010, n. 15374, Beltrame, cit.), ad esempio, la dicitura su confezioni di elettrodi “Fro via Torricelli 15/a Verona-Italy” (Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa); la scritta “Legea-ltaly” o un cartellino con la bandiera italiana e la dicitura “ITAILY” (Sez. III, 17.2.2005, n. 13712. Acanfora); la dicitura su vasellame “Griffe Montenapoleone Milano”; (Sez. III 28.9.2007, n. 166/08, Parentini); la dicitura con gli estremi della ditta italiana e la scritta “prodotto da C.C.I.A.A. n. … REA . . .” (Sez. III 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar); la dicitura su occhiali da sole “conceived by” e il nome della ditta italiana (Sez. III, 12.5.2006, n. 21797, Danzi); la dicitura “Margherita Italia” con una etichetta “Made in P.R.C.” (Sez. III, 13 maggio 2008. Mazza); l'incisione sulla cassa di orologi delle diciture “Officina del Tempo - ltaly” e “Italian design” (Sez. III, 24. 1.2007, n. 8684, Emili); la dicitura “Carlo Colucci my Private Italy” ed il logo della bandiera italiana (Sez. Foresin); la dicitura “Ausonia” o “Ausonia lnox” (Sez. III 10.02.2010, n. 15374, Beltrame); la dicitura “Prodotto e distribuito da FI Studio srl Florence ltaly” la marca “Romeo Gigli” (Sez. III, 9.2.2010, n. 197476, Follieri).
Noti si vede, pertanto, come dalla dicitura “… - Art Style - Mode Design” possa ricavarsi una indicazione di vendita idonea a ingenerare negli acquirenti la convinzione che si tratti di ben interamente realizzati in Italia, e non solo quella di beni la cui qualità è garantita dalla ditta “(…)” che con tale scritta se ne è assunta la responsabilità.
Il tribunale dei riesame ha anche detto che la stessa foggia e tipologia degli oggetti raffigurati dai prodotti sequestrati costituirebbe una vera e propria indicazione di vendita di cui, appunto, dovrebbe predicarsi la falsità o la fallacia. Sembra cioè che il tribunale del riesame abbia voluto dire che, poiché gli oggetti raffigurati, ossia le gondole, le gondoline, le maschere, le mascherine, le maschere con impugnatura, e così via, denotano l'esclusiva “italianità” ed anzi l'esclusiva «venezianità» degli oggetti stessi, questa sola caratteristica dimostrerebbe che i medesimi oggetti dovevano necessariamente essere stati prodotti interamente in Italia. Questa singolare tesi non può essere condivisa. Sarebbe facile osservare che essa porterebbe a ritenere che gli oggetti raffiguranti, ad esempio, il Colosseo, o il Duomo di Milano, o un mandolino indicherebbero di per se stessi che sono stati prodotti interamente in Italia, ed anzi a Roma. Milano o Napoli. Del resto, l'inconsisrenza dell'argomentazione emerge anche dal fatto che non sono stati dissequestrati gli oggetti rappresentanti i vasi, i portacenere, gli animali, le collane, i fori, e così via, i quali sicuramente non esprimono una intrinseca “italianità” o “venezianità”.
Ma, quel che rileva è che l'art. 16 cit., al comma 3, dispone che “Ai fini dell'applicazione del comma 4, per uso dell'indicazione di vendita o del marchio si intende la utilizzazione a fini di comunicazione commerciale, ovvero nell'apposizione degli stessi su prodotto di vendita o sulla merce”. Dalla disposizione si ricava, pertanto, che “l'indicazione di vendita” deve consistere in qualche segno esteriore, ossia in una rappresentazione grafica (anche se non necessariamente di carattere alfanumerico), idonea ad essere apposta sul prodotto o sulla confezione di vendita o, comunque suscettibile di divenire oggetto di comunicazione commerciale, In altre parole, non è normativamente configurabile una indicazione di vendita, per così dire, “reale”, nel senso che la stessa materialità del prodotto o della merce possa costituire una rappresentazione della integrale fabbricazione di essi nel territorio italiano o in qualsiasi altro specifico territorio.
Nella specie, pertanto, escluso che l'oggetto raffigurato possa avere qualsiasi valenza indicativa del luogo di fabbricazione, si potrebbe tutt'al più pensare che, qualora il legittimo titolare del marchio “(…) ” lo abbia utilizzato con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che gli oggetti siano stati fabbricati in Italia, la mancata indicazione della loro origine o provenienza estera potrebbe integrare l'illecito amministrativo di cui all'art. 49 bis della legge n. 30 del 2003.
In ogni caso, quindi, deve escludersi la stessa astratta configurabilità del reato ipotizzato.
L'ordinanza impugnata e il decreto di sequestro probatorio del PM devono dunque essere annullati senza rinvio e le cose sequestrate devono essere restituite all'avente diritto.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e il decreto del PM di Venezia di convalida del sequestro probatorio in data 19 giugno 2010 e dispone restituirsi quanto in sequestro all'avente diritto.
Depositata in Cancelleria il 18.07.2011
Avv. Antonino Sugamele

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